Gli specchi e la copula sono abominevoli,
poiché moltiplicano il numero degli uomini.
 Un eresiarca di Uqbar

 

Finzioni è sicuramente l’opera più celebre di Jorge Luis Borges; diviso in due parti intitolate Il giardino dei sentieri che si biforcano e Artifici,il volume è del 1944, pubblicato in Italia da Einaudi con la bella traduzione di Franco Lucentini nel 1955. Tra i molti racconti, Finzioni comprende La Biblioteca di Babele, il cui inizio, divenuto proverbiale, rappresenta la migliore sintesi della poetica borgesiana:

L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali.[1]

Ficciones nell’originale, Fictions in inglese e francese, in tedesco Fiktionen, sono le finzioni letterarie che Borges – con stile ineguagliabile – spaccia per cronache o saggi o resoconti autentici, infarcendo i testi di citazioni e bibliografie immaginarie, mescolando realtà e fantasia. Lo sottolinea lui stesso nella premessa, che scrivere grossi libri è inutile, e che è «meglio fingere che questi libri esistano già, e presentarne un riassunto, un commentario»[2]. Sono quindi, i suoi racconti, brevi articoli su libri immaginari, falsificazioni, storie surreali narrate con la disinvoltura della naturalezza, ma inficiate da più o meno sottili sfasature spaziali, temporali e fisiche. Se la Biblioteca è infatti palesemente inventata e irreale, o meglio frutto di una fantasia immersa nelle metafore, altri racconti, come il citatissimo Funes o della memoria, descrivono personaggi verosimili ma impossibili, oppure, come l’altrettanto famoso Pierre Menard, l’uomo che volle riscrivere il Don Chisciotte, improponibili e paradossali. Sono creature tipicamente borgesiane, alle quali attinsero e hanno attinto in molti tra narratori e filosofi. Italo Calvino dichiarò la sua discendenza e predilezione per Borges nella lezione americana sulla Molteplicità:

Le ragioni della mia predilezione per Borges non si fermano qui; cercherò di enumerarne le principali: perché ogni suo testo contiene un modello dell’universo o d’un attributo dell’universo: l’infinito, l’innumerabile, il tempo, eterno o compresente o ciclico; perché sono sempre testi contenuti in poche pagine, con una esemplare economia d’espressione.[3]

Un modello dell’universo c’è nello straordinario racconto che apre il libro, diabolico e straniante per il lettore che non cerchi l’effetto immediato o lo spunto paradossale: Tlön, Uqbar, Orbis Tertius[4].

Premesso che, stando a quanto poi precisa l’autore, siamo nel 1935, eccone le prime righe:

Debbo la scoperta di Uqbar alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia. Lo specchio inquietava il fondo d’un corridoio in una villa di via Gaona, a Ramos Mejia; l’enciclopedia s’intitola ingannevolmente The Anglo-American Cyclopaedia (New York 1917), ed è una ristampa non meno letterale che noiosa dell’Encyclopaedia Britannica del 1902. Il fatto accadde un cinque anni fa. Bioy Casares, che quella sera aveva cenato con me, stava parlando d’un suo progetto di romanzo in prima persona, in cui il narratore, omettendo o deformando alcuni fatti, sarebbe incorso in varie contraddizioni: che avrebbero permesso ad alcuni lettori – a pochissimi lettori – di indovinare una realtà atroce o banale. Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. Interrogato sull’origine di questo detto memorabile, rispose che The Anglo-American Cyclopaedia lo registrava nell’articolo su Uqbar. Nella villa (che avevamo presa in affitto ammobiliata) c’era un esemplare di quest’opera. Nelle ultime pagine del volume XLVI trovammo un articolo su Upsala; nelle prime del XLVII, uno su UraI-Altaic Languages;ma nemmeno una parola su Uqbar.[5]

Il lettore smaliziato sa bene che il grande scrittore amico di Borges, Adolfo Bioy-Casares, è un personaggio vero, ma ha anche intuito che questa enciclopedia-copia della Britannica non è mai esistita. La memoria di Bioy è formidabile e ricorda di aver letto (chissà poi perché) la voce «Uqbar» sul volume XLVI di quella enciclopedia che, naturalmente, si scoprirà falsa, o meglio contraffatta.

Il giorno dopo, Bioy mi chiamò da Buenos Aires. Mi disse che aveva sott’occhio l’articolo su Uqbar, nel volume XLVI dell’Encyclopaedia. […] Il volume portato da Bioy era effettivamente il XLVI dell’Anglo-American Cyclopaedia. L’indicazione alfabetica sul frontespizio e sulla costola era la stessa che nel nostro esemplare (Tor-Ups), ma il volume, invece che di 917 pagine, era di 921. Queste quattro pagine supplementari contenevano l’articolo su Uqbar: non previsto (come il lettore avrà notato) dall’indicazione alfabetica. […] Leggemmo l’articolo con una certa attenzione. Il solo passo sorprendente era quello citato da Bioy; il resto pareva molto verosimile, molto conforme all’intonazione generale dell’opera e (com’è naturale) un po’ noioso. Rileggendolo, scoprimmo sotto la sua rigorosa scrittura una fondamentale indeterminatezza. Dei quattordici nomi della sezione geografica ne riconoscemmo solo tre (Khorassan, Armenia, Erzerum), interpolati nel testo in modo ambiguo; dei nomi storici, uno solo: quello dell’impostore Esmerdi il Mago, che però era citato solo per confronto. L’articolo sembrava precisare le frontiere di Uqbar, ma i suoi nebulosi luoghi di riferimento erano fiumi, crateri e montagne di quello stesso paese. Leggemmo, per esempio, che il confine meridionale è formato dai bassopiani di Tsai Chaldun e dal delta dell’Axa, e che nelle isole di questo delta abbondano i cavalli selvatici.

Le notizie che riceviamo di Uqbar all’inizio sono quindi, diremmo oggi, autoreferenziali. Il mondo misterioso si definisce dall’interno e solo qualche minuscolo spiraglio si apre tra noi ed esso, spiragli accennati da Borges con nomi autentici (come più avanti Thomas de Quincey, Johannes V. Andreae e Bertrand Russell) e nomi inventati (come Herbert Ashe, che appare in altri racconti), col risultato di creare ulteriori depistaggi nella nostra lettura.

Poche righe dopo ecco lo spunto che spiega tutto, ovvero lo spiegherà a una seconda lettura, quando avremo tirato le somme degli spunti e delle indicazioni conclusive.

Leggere Andrea Bonavoglia

Menzogne e differenze: fake news, digital divide

La sezione «Lingua e Letteratura», assai breve, conteneva un solo luogo notabile, in cui si diceva che la letteratura di Uqbar era di carattere fantastico, e che le sue epopee come le sue leggende non si riferivano mai alla realtà, ma alle due regioni immaginarie di Mlejnas e di Tlön… […] Lesbare und lesenswerthe Bemerkungen über das Land Ukkbar in Klein-Asien, avrebbe la data del 1641 e sarebbe opera di Johannes Valentinus Andreä. La cosa è significativa: un paio d’anni dopo ritrovai inaspettatamente questo nome in certe pagine di De Quincey (Writings,volume XIII), e seppi che era quello di un teologo tedesco il quale, al principio del secolo XVII, descrisse la comunità immaginaria della Rosacroce; comunità che altri, poi, fondò realmente sull’esempio di ciò che colui aveva immaginato.

Borges raggiunge qui i limiti estremi della propria capacità evocativa, pur utilizzando la lingua arida e anonima dello studioso: Andreae è personaggio storico, creatore della leggenda dei Rosa-Croce, ma non ha scritto il libro citato, il cui titolo tedesco in italiano suonerebbe Annotazioni leggibili e degne di lettura sulla regione di Ukkbar in Asia minore. Subito prima, la sensazionale e brevissima sintesi della letteratura di Uqbar ne indica il carattere immaginifico, come dire che nel luogo immaginario la letteratura è immaginaria…

Il racconto si interrompe provvisoriamente, senza fornire soluzioni all’enigma delle quattro pagine di Uqbar aggiunte all’Enciclopedia, e riprende due anni dopo. È introdotto un personaggio, amico del padre del narratore (che si suppone sia Borges), citato anche in altri racconti, l’inglese Herbert Ashe. Alla sua morte improvvisa, con un colpo di teatro talmente assurdo da passare inosservato, il narratore ritrova «al bar» un libro in ottavo grande che Ashe aveva ricevuto pochi giorni prima di morire.

Il libro era scritto in inglese ed era di 1001 pagina. Sulla gialla sua costola di cuoio lessi queste parole, che il frontespizio ripeteva: A First Encyclopaedia of Tlön. Vol. XI. Hlaerto Jangr.Non v’era data né luogo di pubblicazione. La prima pagina, e la velina d’una delle tavole, portavano un timbro ovale, turchino, con questa iscrizione: Orbis Tertius. Due anni prima, nelle pagine d’una enciclopedia plagiaria, avevo scoperto la sommaria descrizione d’un falso paese; ora il caso mi recava qualcosa di più prezioso e più arduo. Avevo tra mano, ora, un frammento vasto e metodico della storia totale d’un pianeta sconosciuto, con le sue architetture e le sue guerre, col terrore delle sue mitologie e il rumore delle sue lingue, con i suoi imperatori e i suoi mari, con i suoi minerali e i suoi uccelli e i suoi pesci, con la sua algebra e il suo fuoco, con le sue controversie teologiche e metafisiche. E tutto ciò articolato, coerente, senza visibile intenzione dottrinale o parodica.

Da questo momento il racconto vira nella fantascienza, perché Tlön si rivela un pianeta alieno, un cosmo retto da leggi specifiche, e dall’analisi di quel singolo volume dell’enciclopedia gli studiosi terrestri riescono, forse, a dedurre che cosa esso sia in effetti.

Borges ci guida in un’analisi quasi demenziale del linguaggio e delle filosofie di Tlön, ma prima di ricordarne i tratti sarà il caso di fermarsi a ragionare: non era Uqbar il soggetto iniziale? Nella voce «Uqbar» si leggeva che Tlön è un luogo immaginario, ma ora l’enciclopedia di Tlön sembrerebbe indicare il contrario e Borges prosegue la narrazione come se in effetti Tlön esistesse al posto di Uqbar. I paragrafi dedicati al linguaggio e alla cultura classica di Tlön sono oscuri e volutamente criptici, ma anche qui la capacità del narratore riesce a mimetizzare l’assurdo. Dalle varie pagine di astruse congetture estraggo qui alcuni periodi:

Si pensa che questo brave new world sia opera d’una società segreta di astronomi, di biologi, di ingegneri, di metafisici, di poeti, di chimici, di moralisti, di pittori, di geometri… sotto la direzione di un oscuro uomo di genio.

Nella congetturale Ursprache di Tlön, da cui procedono gli idiomi e i dialetti «attuali», non esistono sostantivi; esistono verbi impersonali, qualificati da suffissi (o prefissi) monosillabici con valore avverbiale.

Non si dice luna: si dice aereo-chiaro sopra scuro-rotondo,o aranciato-tenue-dell’altoceleste,o qualsiasi altro aggregato. In questo caso particolare, la massa degli aggettivi corrisponde a un oggetto reale; ma si tratta, appunto, di un caso particolare.

Non è esagerato affermare che la cultura classica di Tlön comprende una sola disciplina: la psicologia. Spiegare (o giudicare) un fatto, è unirlo a un altro fatto; ma quest’unione, su Tlön, corrisponde a uno stato posteriore del soggetto, e non s’applica allo stato anteriore, dunque non lo illumina. Ogni stato mentale è irreducibile: il solo fatto di nominarlo – id est, di classificarlo – comporta una falsificazione.

Una delle scuole di Tlön nega perfino il tempo: argomenta che il presente è indefinito, che il futuro non ha realtà che come speranza presente. [in nota:Russell (The Analysis of Mind, 1921, p. 159) suppone che il pianeta sia stato creato da pochi minuti, provvisto d’una umanità che «ricorda» un passato illusorio]. Un’altra scuola afferma che il tempo è già tutto trascorso,e che la nostra vita è appena il ricordo o riflesso crepuscolare, senza dubbio falsato e mutilato, di un processo irrecuperabile. Un’altra, che la storia dell’universo – e in esso le nostre vite, i più tenui particolari delle nostre vite – è la scrittura che produce un dio subalterno per intendersi con un demonio. Un’altra, che l’universo è paragonabile a quelle crittografie in cui non tutti i segni hanno un valore, e che solo è vero ciò che accade ogni trecento notti. Un’altra ancora, che mentre dormiamo qui, stiamo svegli dall’altra parte, e che dunque ogni uomo è due uomini.

Il mondo di cui Borges racconta è un mondo apparentemente assurdo in cui quasi tutto funziona a rovescio del nostro; ma se ci facciamo caso, molte delle idee qui espresse come elementi di Tlön sono alla base della sua produzione letteraria successiva. Ed ecco allora che diventa molto interessante quello che troviamo scritto sui libri di Tlön, ovvero sulla narrativa di quel pianeta.

Non meno indifferenziati sono i libri. Quelli di narrativa hanno tutti lo stesso argomento, con tutte le permutazioni immaginabili. Quelli di carattere filosofico contengono invariabilmente la tesi e l’antitesi, il rigoroso pro e contra di ciascuna dottrina. Un libro che non includa il suo antilibro è considerato incompleto. Secoli e secoli di idealismo non hanno mancato di influire sulla realtà. Non è infrequente, nelle regioni più antiche di Tlön, la duplicazione degli oggetti perduti. Due persone cercano una matita; la prima la trova, e non dice nulla; la seconda trova una seconda matita, non meno reale, ma meno attagliata alla sua aspettativa. Questi oggetti secondari si chiamano hrönir, e sono, sebbene di forma sgraziata, un poco più lunghi. […] La produzione metodica dei hrönir (dice l’«undicesimo volume») ha reso servizi prodigiosi agli archeologi. Essa ha permesso di interrogare e perfino di modificare il passato, divenuto non meno plastico e docile dell’avvenire. Fatto curioso: i hrönir di secondo e di terzo grado – i hrönir derivati da un altro hrön; quelli derivati dal hrön di un hrön – esagerano le aberrazioni del hrön iniziale; quelli di quinto, ne sono quasi privi; quelli di nono, si confondono con quelli di secondo; quelli di undicesimo, hanno una purezza di linee non posseduta neppure dall’originale. Il processo è periodico: il hrön di dodicesimo grado comincia già di nuovo a decadere. Più strano e più puro di ogni hrön è talvolta l’ur: la cosa prodotta per suggestione, l’oggetto evocato dalla speranza. La gran maschera d’oro cui ho accennato ne è un illustre esempio.
Le cose, su Tlön, si duplicano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimentichi. È classico l’esempio di un’antica soglia, che perdurò finché un mendicante venne a visitarla, e che alla morte di colui fu perduta di vista. Talvolta pochi uccelli, un cavallo, salvarono le rovine di un anfiteatro.

Capire alla prima lettura di che cosa si sta parlando è davvero difficile: i hrönir sarebbero copie della realtà, esistono a vari livelli, copie di copie di copie, e ci viene detto che sono più lunghi…, ma non abbiamo nessuna idea di chi li produca! Infine, il colpo maestro dello scrittore nell’ultima riga, gli uccelli e un cavallo che salvano le rovine di un anfiteatro. La suggestione della frase è immensa, uno slancio lirico che si insinua nella prosa, ma il suo significato del tutto oscuro, come in una poesia ermetica[6].

La storia della gigantesca creatura planetaria di Tlön, che potremmo anche chiamare per ora la grande frottola di Tlön, termina apparentemente nel 1940. Sinora di Tlön, luogo immaginario legato alla misteriosa società di Uqbar, si sa che sarebbe un pianeta la cui popolazione è intelligente anche se profondamente diversa dalla razza umana. Tra noi e Tlön esiste un qualche contatto, al punto che i loro libri possono essere trovati sulla Terra.

La prima parte del racconto di Borges si ferma nel 1940, quando fu scritto, ma immediatamente riprende con un poscritto del 1947, quindi spostato nel futuro. Accade l’imprevedibile. Una lettera chiarisce il mistero dal principio.

La splendida storia cominciò una notte di Lucerna o di Londra, al principio del secolo XVII. Una società segreta e benevola (che contò tra i suoi affiliati Dalgarno, e poi George Berkeley) sorse per inventare un paese. Nel vago programma iniziale figuravano gli «studi ermetici», la filantropia e la cabala. A questo primo periodo risale il curioso libro di Andreä. […] Poi, dopo uno iato di due secoli, la confraternita risorge in America. Nel 1824, a Memphis (Tennessee) uno degli affiliati parla con l’ascetico milionario Ezra Buckley [in nota: Buckley era libero pensatore, fatalista e difensore dello schiavismo]. Quest’ultimo lo sta a sentire con un certo sprezzo, e ride della modestia del progetto. Dice che in America è assurdo inventare un paese, e propone l’invenzione di un pianeta. A questa idea gigantesca ne aggiunge un’altra, figlia del suo nichilismo: quella di mantenere il silenzio sull’enorme impresa. Circolavano allora i venti volumi della prima Encyclopaedia Britannica;Buckley suggerisce un’enciclopedia metodica del pianeta illusorio. Lascerà al pianeta i suoi filoni auriferi, i suoi fiumi navigabili, le sue praterie solcate dal toro e dal bisonte, i suoi negri, i suoi postriboli e i suoi dollari, ma a una condizione: «L’opera non patteggerà con l’impostore Gesù Cristo». Buckley nega Dio, ma vuole dimostrare al Dio inesistente che gli uomini mortali sono capaci di concepire un mondo. Buckley muore avvelenato a Baton Rouge, nel 1825. Nel 1914 la società rimette ai suoi collaboratori, che sono trecento, l’ultimo volume della prima Encyclopaedia di Tlön. La pubblicazione resta segreta: i suoi quaranta volumi (l’opera più vasta che mai si sia compiuta dagli uomini) dovranno servire di base a un’altr’opera più minuziosa, redatta non più in inglese, ma in una delle lingue di Tlön. […]

Il contatto con Tlön, l’assuefazione ad esso, hanno disintegrato questo mondo. Incantata dal suo rigore, l’umanità dimentica che si tratta d’un rigore di scacchisti, non di angeli. È già penetrato nelle scuole l’«idioma primitivo» (congetturale) di Tlön; e l’insegnamento della sua storia armoniosa (e piena di episodi commoventi) ha già obliterato quella che presiedette alla mia infanzia: già, nelle memorie, un passato fittizio occupa il luogo dell’altro, di cui nulla sapevamo con certezza… neppure se fosse falso. […]

Allora spariranno dal pianeta l’inglese e il francese e il semplice spagnolo. Il mondo sarà Tlön.

La conclusione è arrivata fulminea, ma come qualcosa di previsto: il mondo sarà Tlön. Il mondo astratto, falso e immaginario di Tlön, immaginario per la popolazione di una regione inesistente detta Uqbar, diventa reale, e ingoia o forse incorpora la Terra degli uomini.

Ma che cosa è, o a che cosa somiglia, questo qualcosa di astratto e di falso, cioè di irreale, che si sovrappone alle cose e agli uomini della realtà?

Escludiamo dalle risposte, giocoforza, l’obiezione “che cosa è davvero il reale?”, e basiamoci sulla prassi per cui riteniamo di esistere e di essere fisicamente materiali. Naturalmente la prima risposta è neutra: Tlön è quel qualcosa di astratto in grado di guidare ogni società, ovvero Tlön è il patto sociale che stipuliamo tra di noi. Meglio ancora, Tlön è un altro patto sociale, è un’altra Terra, è un’altra dimensione, dapprincipio parallela e invisibile, ma nel tempo sempre più concreta e invasiva. Il risvolto politico c’è e corrisponde a quel grande romanzo che è La Peste di Camus: la malattia, l’epidemia, e quindi – visti anche gli anni di stesura – inevitabilmente la cieca follia del nazismo.

Per chi legge o soprattutto vede fantascienza, sono poi immediate le somiglianze del Tlön di Borges con mille storie di colossali falsificazioni della realtà; a me sembra particolarmente interessante pensare a The Matrix delle sorelle Wachowsky e alla serie televisiva Alias di J.J. Abrams. Nella trilogia cinematografica si immagina che la Terra sia stata distrutta da macchine aliene e l’umanità, utilizzata come fonte energetica, resa imbelle da una colossale illusione di vita; nella serie televisiva, una società segreta cerca di controllare il mondo grazie alle stregonerie-invenzioni di una specie di Leonardo-Cagliostro del XV secolo, il geniale Milo Rambaldi.

L’invasione della Terra è stata un tema frequente nel cinema; nel Village of the Damned e nella Invasion of the Body Snatchers, film realizzati negli anni ’50, c’è l’effetto Tlön di sostituzione dell’umanità dall’interno, senza guerre. La miriade di film che su quegli archetipi è stata realizzata conferma la bontà narrativa della trama. Forse non a tutti verrebbe in mente di associare il nome di Borges, che era peraltro un grande appassionato di cinema prima di perdere la vista, ad alcuni prodotti odierni di Hollywood e dintorni, ma molto spesso gli sceneggiatori sono culturalmente preparati e nel soggetto di un film entra oggi in quantità, fortunatamente, anche la cultura letteraria.

In ultimo, non resta che ricordare l’ultima strepitosa riga con cui si chiude il racconto di Borges, subito dopo quella terribile previsione, «Il mondo sarà Tlön»:

Io non me ne curo, io continuo a rivedere, nelle quiete giornate dell’Hotel de Adrogué, un’indecisa traduzione quevediana (che non penso di dare alle stampe) dell’Urn Burial di Browne.

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[1] J. L. Borges, Finzioni, Mondadori, Milano, 1974, p. 69.

[2] Ivi, p. 5.

[3] I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano, 1988, p. 115.

[4] Grande debitore di questa creatura di Borges è stato sicuramente un altro dei suoi massimi cultori, Umberto Eco, che ha inventato la trama de Il Pendolo di Foucault riprendendo quasi alla lettera le indicazioni del nostro racconto.

[5] Tutte le citazioni sono riprese da J. L. Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, in Id., Finzioni, cit., pp. 7-25.

[6] O come in quel celebre citatissimo elenco borgesiano che suddivide gli animali in: a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche. Cfr. J. L. Borges, L’idioma analitico di John Wilkins, in Id., Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano, 1973, p. 102.


 

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