Argentina. Chi permette a un clown trumpista mussoliniano di continuare a stare dove sta?

 

Da alcune settimane la crisi economica dell’Argentina sembra inarrestabile. Il capitale, che resta sempre molto infastidito dalle popolazioni che vivono in territori destinati all’estrattivismo, ha sempre meno bisogno di lavoratori e specialisti di classe media. Ma perché la società, in un paese abituato a grandi movimenti, sembra morta? In altri periodi, per molto meno, tutto sarebbe esploso. Secondo Dario Bursztyn quarant’anni di democrazia hanno offerto per lo più povertà e miseria e oggi i poveri detestano sia i ricchi che i poveri che vivono di sussidi, per questo molti votano Javier Milei, uno che ha fatto di una motosega il simbolo della sua campagna elettorale. Potrebbe verificarsi un’esplosione come quella del dicembre 2001? Sì, anche se siamo in un altro mondo. “Continuo a credere che i movimenti piqueteros e dell’economia popolare, più il movimento femminista, più l’impronta storica dei movimenti per i diritti umani, siano gli unici pilastri su cui possiamo fondare qualcosa, e sono loro che spingono la CGT a mobilitarsi e allontanarsi tiepidamente dall’immobilità servile. Dalla e nella politica formale non c’è assolutamente nulla…”

 

A ottobre un libro – un saggio con meno di 200 pagine – in Argentina costava 7.100 pesos, oggi ne costa 14.900. Perché i costi della carta, della redazione e della distribuzione hanno accompagnato la svalutazione e l’impressionante inflazione che è salita alle stelle (in particolare) dall’ottobre 2023 in poi. Quindi la domanda quasi ovvia è: chi può comprare un libro se, contemporaneamente all’aumento del prezzo, la perdita di potere d’acquisto generale è la maggiore degli ultimi quarant’anni? Nessuno darà la priorità a un libro quando va di supermercato in supermercato per trovare un’offerta di un chilo di carne o di riso a un valore inferiore. O quando il prezzo dei medicinali è aumentato molto più del 100 per cento in questi cento giorni. In quale Paese del mondo la vendita dei medicinali crolla del 27 o del 30 per cento se quel medicinale è indispensabile per la pressione, il diabete, ecc.? Siamo arrivati ​​a questo punto.

Ciò che ci accade è quello che scienziati, umanisti, pittori, drammaturghi, filosofi, ecc. hanno denunciato con stupore quando i fascisti e i nazisti sbarcarono e sparsero la loro lava vulcanica, il loro pus, negli anni ’20 e ’30 di cento anni fa. Si sono fatti la domanda e l’hanno fatta ai loro colleghi: “Ma non vedete cosa sta succedendo? Non vedete cosa stanno facendo? Non vedete che liquideranno tutto?”. E tutti loro, quelli che urlavano disperatamente perché non riuscivano a credere a quello che stava succedendo, si sentivano soli. Si sentivano soli perché c’era una base sociale, un furore, un odio, che avevano generato un consenso. Il consenso di cui parlava Gramsci perché tutto quello che era successo finalmente accadesse.

Oggi siamo così. Nonostante questa carestia che c’è in Argentina, questa sensazione di società morta, hanno consenso. In altri periodi – per molto meno – tutto sarebbe esploso.

Oggi c’è un numero infinito di micro-proteste e alcune non così micro, ma non riescono a trasformarsi in un movimento più o meno massiccio diretto al rovesciamento. Perché? Ci sono molte risposte alla domanda. La mia risposta è strutturale: in quarant’anni dal ritorno della vita democratica, la democrazia non ha offerto altro che povertà e miseria, non ha offerto altro che uno spreco di risorse e una convalida delle politiche liberali dell’Accordo di Santa Fe, delle politiche focali, del regresso dello Stato sociale e di un blocco egemonico che ogni minuto di ogni giorno ha lottato, al suo interno, per ridefinire il modello di accumulazione. E quel modello di accumulazione che li tiene insieme, li avvantaggia, non tiene insieme e non avvantaggia gli argentini, perché le classi medie, le classi lavoratrici rurali e urbane, sono superflue.

C’è un surplus gigantesco. E il capitale non ha bisogno di quei lavoratori, né di quegli specialisti. È infastidito e disturbato dalla popolazione che si trova in territori con possibile sfruttamento minerario o agroalimentare, o qualsiasi altro estrattivismo (silvicoltura, turismo, immobiliare, pesca). Per prendere come modello l’estrattivismo, nel paese restano milioni di persone di cui non si sa che fare.

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Il cosiddetto “peronismo”, promotore e sostenitore di questo modello di accumulazione, ha contenuto i focolai mentre il modello veniva dispiegato, attraverso il lavoro statale o sovvenzionato con piani e sussidi. Questa “amministrazione” era una sussistenza che ha permesso di mantenere il livello di povertà al 30-35 per cento per trent’anni, ma che non ha prodotto alcun progresso sostanziale. E quella strutturazione della povertà, e quella “pace sociale” letta dall’urbanità benpensante, aveva come rovescio della medaglia l’enorme avanzata del potere della droga sul territorio. Perché i territori, i quartieri senza Welfare State (scuola, ospedale, stipendio, promozione culturale) sono stati lasciati alla deriva. Sì, è vero, con alcune forme di autonomia e orizzontalità, ma in larga misura con mere prebende di pochi pesos (in termini di Pil) che il capitale statale distribuiva per garantirsi lo status quo.

Ma credere che tutta questa popolazione (15 o 16 milioni su 45 milioni), che per trent’anni ha visto solo povertà, esclusione e carnevale del capitale e dello Stato-capitale, stesse “dormendo” è un non senso. Quella popolazione è sopravvissuta grazie all’economia informale e al potere narco-territoriale. Male, ma è sopravvissuta. E quando si è trattato di votare, ha votato per lo più a destra, a causa del fatto che il peronismo – che pretende di essere di sinistra o progressista, ha saputo solo gestire la povertà.

Ecco perché la domanda che ricorre da parte degli uruguaiani, brasiliani, cileni, messicani, europei. Nessuno riesce a capire come un paese con un Pil compreso tra 350 e 500 miliardi di dollari (a seconda dei decenni) si trovi in ​​una situazione simile. Ma è molto comprensibile: il blocco egemonico non è interessato a investire le centinaia di miliardi di dollari che accumula – anno dopo anno – nel paese, e a forgiare qualche progetto (che pure è successo in Cile, è successo in Brasile). Con questo non sto dicendo che la distribuzione della ricchezza in Cile o Brasile sia stata o sia migliore, perché storicamente sono società dove le classi medie quasi non esistono. Ma hanno sicuramente un progetto. Qui il progetto è drenare i soldi, con una regolarità sorprendente.

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L’argentino bianco, filoeuropeo, filo-illuminista, filo-urbano, ha il terrore che tutta quella massa di morochos, “i bruni”, diseredati, declassati, miserabili, che da più di trent’anni trascinano la loro esistenza, li invadano e tolgano loro piccole nicchie di potere ed esclusività. Quindi, la guerra sociale è quotidiana, e quindi il securitarismo e l’approvazione della pena di morte di Milei e Bullrich sono perfettamente comprensibili. I bianchi sostengono queste politiche (pena di morte in via, punizione eterna, reclusione eterna, bunkerizzazione della vita), e anche i poveri le sostengono. Perché i poveri (quelli dalla pelle scura, quelli bruni, quelli diseredati), ma che lavorano sotto il giogo salariale e per salari magri, come in ogni Babilonia del mondo, hanno una doppia rabbia: la rabbia contro la politica dei ricchi e dei bianchi e la rabbia contro i poveri che vivono di sussidi (in quel tasso di povertà contenuto intorno al 30 per cento per più di tre decenni) mentre “abbassano la schiena”. Ecco perché Milei e il suo odio, la sua impudenza e la sua brutalità hanno consenso.

Noi, che facciamo appello a qualche ragione, a qualche storia, ad alcuni diritti combattuti e conquistati, a certe tradizioni e strutture, siamo una grande minoranza.

Il discorso della dollarizzazione, dell’inutilità della scuola, dell’istruzione pubblica, della scienza e della ricerca, del cinema e del teatro nazionale, il discorso del “non deve essere gratis”, il discorso thatcheriano del “qualcuno dovrà pagare”, è penetrato in profondità.

Portiamo quotidianamente con noi un’ombra di tristezza e cerchiamo, ogni giorno, di forgiare idee e iniziative credendo che ciò che sta accadendo non stia accadendo e che, in verità, questa distopia ha i giorni contati. Ma sappiamo che quest’ultima è più un’espressione di desideri che un orizzonte minimamente certo. Molteplici cose sono già state fatte e quasi nessuna muove l’ago dell’amperometro, perché sui temi strutturali centrali (non sulle morisquetas e sugli annunci deviazionisti) il capitale festeggia. Hanno liquefatto le passività finanziarie come (quasi) mai prima d’ora. Hanno ottenuto una pseudo-nazionalizzazione del debito estero privato. I prezzi interni dell’economia in tutti i settori che compongono la vita stessa richiedono salari europei, ma il salario medio è la metà di quello del Cile o dell’Uruguay, e il salario minimo e la pensione minima sono inferiori a quelli imposti dallo stivale della Merkel e la troika europea quando ha schiacciato la Grecia.

Alla domanda, quindi, se possa verificarsi un’esplosione come quella del dicembre 2001, la risposta è sì. È possibile. Ma a differenza di quanto accaduto un quarto di secolo fa, quando la battaglia contro la dittatura era fresca e molti combattenti esperti erano vivi e online, oggi siamo in un altro mondo. Ancora una volta la socialdemocrazia (abborracciata, in questo caso) si è rivelata il peggiore di tutti i tumori e ha smobilitato ciò che restava di quel potere. Ciò che i loro massimi dirigenti e quadri dicono di più è “dobbiamo aspettare”. Dovremo aspettare se già nel 2023 la povertà tra i minori di venticinque anni superava il 55 per cento della popolazione argentina? Naturalmente adesso tutto è peggio, molto peggio.

Continuo a credere che i movimenti piqueteros e dell’economia popolare, più il movimento femminista, più l’impronta storica dei movimenti per i diritti umani, siano gli unici pilastri su cui possiamo fondare qualcosa, e sono loro che spingono la CGT a mobilitarsi e allontanarsi (tiepidamente) dall’immobilità servile. Dalla e nella politica formale non c’è assolutamente nulla.

A ciò si aggiunge, ovviamente, tutto ciò che non è né strutturale né distraente ma che punta come un missile sul quadro simbolico e culturale: la chiusura dell’agenzia nazionale TELAM, il fatto che il bilancio universitario basta solo per tre o quattro mesi, la possibile chiusura o privatizzazione della TV e della Radio pubbliche, la rimozione dei fondi per il cinema, la feroce riduzione degli stipendi degli insegnanti a causa della scomparsa di un Fondo di compensazione (Fondo Nazionale Incentivazione Insegnanti) ecc. Ripeto: per molto meno, in altre occasioni, il Paese sarebbe andato a fuoco. Oggi il consenso sociale prodotto da questo odio incrociato (incrociato da/in più direzioni) permette a un clown trumpista mussoliniano di continuare a stare dove sta.

Autore: Dario Bursztyn vive a Buenos Aires e ha tradotto in castellano-argentino per l’editore Prometeo il libro Disertate (Timeo) di Franco Berardi Bifo. Questo testo è stato rielaborato insieme a Bifo.

Fonte: comuneinfo


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