Negli anni Ottanta, il filosofo americano Stanley Cavell (Alla ricerca della felicità,1981, Einaudi) propose una lettura filosofica di sette commedie hollywoodiane dal 1934 al 1949, giustificando che il cinema era una delle eredità culturali americane del Novecento. [1]

I film come illustrazioni di concetti. – Il modo più comune di intendere questo rapporto è quello che propone una lettura filosofica dei film, utilizzando la visione e il commento di singoli elementi o sequenze per illustrare un concetto. Il cinema diviene in tal modo un deposito pressoché inesauribile di esempi tesi a illuminare particolari questioni filosofiche. In Italia si muoveva, il lavoro di Umberto Curi, Un filosofo al cinema, 2006; (ma anche il volume di Julio Cabrera, Cine: 100 años de filosofia, 1999, trad. it. Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, 2000). A volte tale metodo focalizzandosi su un unico elemento o su parti dell’intero prodotto visivo, ignorando la singolarità del dispositivo cinematografico nella sua interezza e complessità concentrandosi principalmente sul contenuto e sul messaggio. Trascurare che il cinema sia un dispositivo a cui concorrono, oltre ai contenuti narrativi, l’aspetto estetico, visivo e stilistico, anche la ricezione dello spettatore, comportava un riduzionismo della sua capacità illustrativa e dei fondamenti del cinema stesso (leggi: linguaggio per immagini) gettando alle ortiche oltre un secolo di studi sul cinema.

L’«emotività non scaccia la razionalità, ma la ridefinisce»: la tesi di fondo del saggio di Julio Cabrera, animato dal tentativo di comprendere la filosofia attraverso un secolo d’immagini cinematografiche. Per Cabrera, infatti, il cinema potrebbe conferire senso cognitivo alle teorie di alcuni filosofi, come Nietzsche, Heidegger, Schopenhauer o Kierkegaard, che «non si sono limitati a tematizzare una componente affettiva, ma l’hanno di fatto inserita nella razionalità come una chiave essenziale d’accesso al mondo». A differenza di alcuni pensatori “logici”, o “apatici” (quali Aristotele e Kant), che hanno affrontato il mondo con una razionalità puramente logica, infatti, vi sono dei filosofi che hanno introdotto nel processo di comprensione del reale anche una componente affettiva, o “patica”, facendo leva sul fatto che l’appropriazione completa di un problema filosofico presenta anche un aspetto esperienziale: per poter comprendere a fondo una questione, cioè, bisogna anche viverla. Cabrera definisce “cinematografici” i filosofi “patici”, in quanto essi utilizzano, al pari del cinema, quella che chiama “ragione logopatica“, ossia una razionalità al tempo stesso logica e affettiva, che permetta di produrre un impatto emozionale sullo spettatore, innescando un processo di coinvolgimento ed empatia che permette di compiere esperienze cognitive fondamentali, proprie dell’umanità intera e, in quanto tali, universali. Ne consegue che l’emozione che proviamo dinanzi a un dramma «si nutre altresì di una riflessione logopatica di natura universale, che ci permette di pensare al mondo in maniera onnicomprensiva andando ben al di là di ciò che è semplicemente mostrato nel film». L’impatto emotivo, cioè, non serve solo a farci soffermare sulla vicenda particolare cui assistiamo, ma ci permette di trarne conseguenze universalmente valide. Sebbene nessun film tematizzi esplicitamente la questione del rapporto tra universale e particolare, questa è sempre posta implicitamente in ogni costituzione di un’esperienza cinematografica, «come una specie d’intrinseca problematicità dell’immagine: l’esperienza costituita ha valore universale o riguarda piuttosto ciò che succede ad alcune persone particolari»? Cabrera risponde sostenendo che le immagini, come certe proposizioni filosofiche, hanno una propria “imposizionalità” emotiva, ossia cercano d’imporsi come verità, intendendo con ciò non che l’emozione veicolata ci mostri immediatamente la verità, ma che ci indichi una possibilità (del tipo: potrebbe succedere a chiunque), aprendoci uno spazio di senso: dobbiamo, insomma, «emozionarci per capire, e non necessariamente per accettare». Leggere filosoficamente un film, allora, significa pensarlo come un «concetto visuale in movimento», ossia come la costruzione di un “concetto visivo”, chiamato da Cabrera “concetti-immagine”, che, in contrapposizione ai “concetti-idea” usato abitualmente dai filosofi “apatici”, non è un concetto esteriorizzante, ma si qualifica come «un vero e proprio linguaggio fondatore che diventa un’esperienza per poi essere pienamente fissato». Così l’emozione dell’immagine, non ci mostra una verità, ma un senso, una possibilità, spingendoci a porre delle domande. «Affinché una questione posta in termini di concetti-idea venga resa universalmente problematica», conclude Cabrera, «è sufficiente che possa esserlo anche in un solo film»; ciò non implica, ovviamente, che il film debba essere filosofico in sé.

Ontologia del cinema. – Un altro modo di intendere la filosofia del cinema è quello che si è diffuso nel pensiero analitico angloamericano, ambito che ha visto la philosophy of film al centro di un dibattito molto acceso. Accogliendo come punto di partenza una programmatica chiarezza di argomentazione e il frequente ricorso alle scienze cognitive, ha l’intento sistematico di chiarire i presupposti concettuali del fenomeno cinematografico in esplicita polemica con le analisi e il linguaggio, considerato poco rigoroso, usato dai filosofi di matrice continentale. Il dibattito analitico ha visto il confronto di molti filosofi su alcuni temi principali, quali, per es., l’artisticità del cinema, la questione dell’autore (o degli autori), il rapporto tra reale e rappresentazione e la risposta emotiva dello spettatore (cfr. The Routledge companion to philosophy and film, ed. P. Livingston, C. Plantinga, 2009; Angelucci 2009). Il percorso compiuto dagli studiosi che si riconoscono in questo tipo di approccio iniziano con una domanda prettamente estetica; «Il cinema è arte oppure no?» per arrivare principalmente alla questione ontologica: «Cosa è il film?», ovvero: «Qual è la sua modalità di esistenza?». Pur non essendo l’unico tema, certamente il problema ontologico è quello più frequentato, animando una discussione che ha visto la formulazione di risposte molto differenti tra loro, con posizioni che vanno dall’essenzialismo al relativismo. Dalla domanda sull’essenza del film, che implica in parte un abbandono della prospettiva estetica, poiché ciò che interessa nella ricerca di una definizione generale sono tutti i film, non quelli con un intento necessariamente artistico ed espressivo, si è giunti poi a indagare altri aspetti propri del cinema, quali le sue possibilità di rappresentazione, o la natura delle emozioni provocate nello spettatore. La questione delle emozioni è stata codificata con la formula paradox of fiction – perché proviamo emozioni vere di fronte a immagini che sappiamo essere false? –, paradosso già evidenziato negli anni Settanta da Kendall Walton e riportato nel dibattito contemporaneo dal testo di Carroll The philosophy of horror, or, Paradoxes of the heart (1990. Ma la volontà di fare del cinema l’oggetto di una indagine concettuale e linguistica attraverso definizioni rigorose, sconta la ripetitività di un approccio ingenuo, dove l’enunciato del soggetto è sempre e univocamente razionale.

Cinema e filosofia come pratiche creative. – Un altro approccio sta nel considerare il cinema stesso un luogo di produzione di pensiero. Il riferimento è ai due testi scritti negli anni Ottanta dal filosofo Gilles Deleuze L’image-mouvement (1983; trad. it. 1984) e L’image-temps (1985; trad. it. 1989), ovvero la convinzione di una stretta analogia tra la pratica cinematografica, creazione di immagini, e la pratica filosofica, creazione di concetti. Secondo Deleuze, la filosofia deve infatti essere pensata come una pratica, un’attività costruttiva che propone descrizioni e modi di dire inediti, nuove risposte a nuovi problemi, e non come riflessione, meditazionea posteriori, né tantomeno come attività comunicativa. Questa rivendicazione della concretezza e dell’inventività della pratica filosofica ha il suo effetto di ritorno anche sul cinema, che non viene inteso come ambito di applicazione di una qualche riflessione già fatta, perché tra le attività artistiche è quella che produce i ‘blocchi di sensazione’, i ‘blocchi di movimento/durata’ più vicini alla filosofia, più vicini nel mostrare la vita del pensiero. Ma con la consapevolezza che non esiste una identità tra le due pratiche, ognuna delle quali è caratterizzata dall’utilizzo di mezzi differenti: ciò che le avvicina e le fa risonanti, ma non interscambiabili, è la capacità di reagire creativamente – avendo un’idea, più idee su terreni diversi – all’urgenza delle medesime scosse del pensiero. Allora da queste premesse si individuano due epoche, o meglio due stili, del cinema: uno classico, che mostra lo scorrere del tempo attraverso il movimento, l’altro moderno, in grado di mostrare il tempo come divenire, come ‘durée’, nel senso proposto da Henri Bergson – si è rivelata assai influente, alimentando il pensiero di molti autori contemporanei.

Si rifà alle teorie di Deleuze il filosofo francese Jacques Rancière, ma con alcune critiche. La possibilità di una frattura netta tra classicità e modernità cinematografiche viene infatti discussa a partire dall’affermazione della difficoltà di sovrapporre le cesure della Storia a quelle interne all’immagine, cioè di attuare un’immediata connessione tra l’arte ed eventi esterni a essa. Rancière vede piuttosto nelle due modalità cinematografiche indicate da Deleuze due momenti che non si costituiscono in opposizione, ma sono uniti in una «spirale infinita» che fa del cinema un’arte dialettica. In La fable cinématographique (2001; trad. it. 2006) declina la correlazione tra visibile e dicibile nei termini di una interdipendenza che lo porta alla definizione del cinema come «favola contrastata»: l’elemento visibile può manifestarsi cinematograficamente in tutta la sua forza soltanto emergendo dal racconto, cioè lottando con esso, con la «favola» in senso aristotelico. Il visibile cinematografico è dunque sempre uno «scarto», un momento sospeso che spezza la razionalità del racconto e rivela «la struttura intima delle cose», addirittura una «preda» che sfugge alla caccia della volontà agente della drammaturgia narrativa, come ribadirà nell’opera del 2011 Les écarts du cinéma. Vicino alle idee proposte da Deleuze è anche Alain Badiou, che insiste sulla ‘impurità del cinema’, sulla natura paradossale dell’immagine cinematografica, vicina alla realtà ma nello stesso tempo artificiale, e individua in questo suo statuto duplice il carattere che ne fa una «situazione per la filosofia». Così tra cinema e filosofia, di per sé due dimensioni incommensurabili, si può immaginare una sintesi, la relazione tra due attività diverse ma con tratti in comune (A. Badiou, Del capello e del fango. Riflessioni sul cinema, Pellegrini, 2009).

Immagini ed esperienza. – Sul versante italiano, intorno al visivo, in particolare sulle immagini il filosofo Pietro Montani si è occupato degli effetti delle nuove tecnologie sulla produzione e la ricezione delle immagini (P. Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina, 2014). La questione dell’esperienza dello spettatore è anche al centro dell’indagine di Francesco Casetti (L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, 2005), come «messa in forma negoziata» la ricomposizione delle istanze del reale, della cultura e della mentalità di un’epoca che il cinema è stato in grado di attuare, sottolineando attraverso la nozione di «rilocazione» – quel movimento che consente ai media di continuare a funzionare su piattaforme nuove – la continuità dell’esperienza cinematografica anche all’interno di un rinnovato panorama mediale. La stessa attitudine teorica è presente in alcuni altri autori che, pur impegnati principalmente in altri ambiti di ricerca, frequentano spesso il territorio cinematografico: tra questi, lo storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman, con le sue analisi volte a indagare la natura dell’immagine, la filosofa francese di origine algerina Marie-José Mondzain, che si interroga sul destino delle immagini nella società contemporanea e sulla libertà dello sguardo (Images (à suivre). De la poursuite au cinéma et ailleurs, 2011), e il filosofo sloveno Slavoj Žižek, il quale, unendo l’approccio psicoanalitico e la teoria politica, vede nel cinema e nella letteratura popolare i luoghi di emersione dei ‘sintomi’ della cultura contemporanea.

[1]Stanley Cavell, uno dei più originali filosofi americani contemporanei risponde analizzando sette grandi film della Hollywood degli anni Trenta e Quaranta (Accadde una notte, Susanna, Scandalo a Filadelfia, La costola di Adamo…) che hanno dato origine ad un nuovo genere cinematografico: «la commedia del rimatrimonio». Non si tratta più — come avveniva nella commedia classica — di coronare il sogno d’amore di e di condurli alla felicità, ma di riunire un uomo e una donna dopo una separazione, seguendone la complessa ricerca di una felicità nuova e differente. Cavell riflette sulle conseguenze filosofiche del rimatrimonio al cinema: la nascita di una donna nuova (che si incarna idealmente in attrici come Katharine Hepburn, Claudette Colbert o Irene Dunne), la riflessione sui rapporti di coppia e sulla differenza dei sessi, sulla necessità in amore di una morte e di una rinascita. Tra filosofia e cinema, mescolando Kant e Capra, Emerson e Cary Grant, Nietzsche e Leo McCarey, Shakespeare e Wittgenstein, Freud e Hawks, Stanley Cavell ci propone uno sguardo del tutto nuovo su questi film, elaborando al contempo una riflessione esemplare sul cinema americano, elevato dal filosofo di Harvard a ideale modello di esplorazione della realtà e dell’esistenza. Fin da subito, l’impressione è quella che Cavell prenda in prestito dalla tradizione cinematografica, letteraria e critica, tutta una serie di strumenti teorici per poter realizzare l’edificazione di un suo personale pensiero filosofico sui generi e che, quindi, il rimatrimonio rinvii soprattutto all’attestazione di un altro legame, quello tra la filosofia e il cinema, in una curiosa intersezione con il tema dell’esperienza autobiografica, essendo la visione dei film legata indissolubilmente all’esperienza ordinaria del singolo spettatore che si riconosce nei personaggi delle commedie.


 

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