Lo sguardo debole: la forza e la debolezza dell’immagine

Saperci deboli

Ricordate S. Tommaso? Credeva solo in ciò che vedeva, dubitava, non aveva fede, di colpo però imparò che la verità stava in Dio e non in ciò che passava davanti ai propri occhi. Si ricredette facendo atto di fede. Non sarà sfuggito a molti che in tante civiltà lontane dall’Occidente l’immagine del sacro o del divino assume sempre una forma simbolica, immagine altra e lontana dalla realtà immediata e diretta. Allo stesso modo la divisione, lo scisma cristiano tra Occidente e Oriente avvenne tra icasti e iconoclasti, cioè tra chi riteneva possibile che l’immagine di Dio potesse essere rappresentata nella sua autenticità e verità e chi no. Così la distanza tra Chiesa Ortodossa e Cristiana si risolse nell’assegnare, includere o meno la verità all’immagine. L’Occidente, come è noto scelse la possibilità che l’immagine fosse verosimile, cioè possibile, è anche grazie a ciò che è stata possibile una grande storia dell’arte Occidentale.

Se i mass-media hanno cambiato il nostro mondo – senza dimenticare che ben prima della nascita della stampa, la Chiesa Cattolica ha da sempre utilizzato le immagini per la propria comunicazione e se la osserviamo in alcuni momenti particolarmente intensi e difficili quali quello della Riforma Protestante, non dovrà affatto stupirci come il barocco sia essenzialmente una comunicazione che spettacolarizza al massimo grado il suo contenuto attraverso la forza intrinseca dell’immagine – dicevamo, dalle gazzette alle lanterne magiche, dalla fotografia al telegrafo, dal cinema alla radio, dalla televisione al personal computer, dal fax al satellite, da internet all’home video, dal CD-DVD al cellulare, ciò che ci appare vero, ma soprattutto ciò che crediamo lo sia è il risultato di un processo “scientifico” figlio della luce e del movimento. E senza limiti visivi non si dà più o quasi immaginario mentale, senza accecamento non c’è più apparenza sensibile: se l’immagine è totale lo spettatore è costretto a spogliarsi di sé stesso davanti a dei fantasmi luminosi.

Si potrebbe azzardare a sostenere che il cambiamento non è stato nell’ordine dei contenuti nuovi che sono stati mediatizzati, piuttosto grazie all’uso collettivo e generalizzato della stessa mediatizzazione. Uso questo termine in senso etimologico, fino al secolo scorso essere mediatizzato significava essere privato dei propri diritti immediati. La mediatizzazione era contrapposta alla comunicazione in quanto era uno ostracismo, una perdita di potere e di libertà.  Un luogo comune ricorrente negli stessi mass-media è il supposto potere acquisito dall’immagine in sé. Permettete di dubitarne criticamente. Anche se il quarto potere è la sola istituzione capace di funzionare al di fuori di ogni controllo democratico: ogni critica che possiamo rivolgergli, ogni soluzione che possiamo adottare non hanno alcuna possibilità di essere diffuse su larga scala e di raggiungere il pubblico in proporzioni efficaci. Anzi si potrebbe dire che i media sono un contro-potere che adotta un semplice e terribile assioma: quello di dire tacendo e di tacere dicendo.

Semplicemente, diceva Karl Kraus, “perché i politici mentono ai giornalisti e credono ai giornali”. Una prassi quotidiana è il coro di lamentele e contumelie nei confronti del presunto e continuo conflitto tra i media e la politica dei governi. Il caso Berlusconi è emblematico: è al contempo padrone dei media e vittima degli stessi, a sentire i suoi lamenti…

 

Credere?

All’incirca duemila cinquecento anni fa i filosofi greci immaginavano che la luce uscisse dagli occhi per toccare gli oggetti, non diversamente da dita pronte a tastare lo spazio circostante. Un’altra spiegazione per il meccanismo della visione consisteva nel fatto che gli stessi oggetti possedessero dei “gusci” in grado di espandersi come onde generate da una pietra scagliata in uno stagno, sebbene rimanesse inalterata la loro forma. Questo, prima che si giungesse a capire che sulla retina dell’occhio, si formano delle immagini proiettate, grazie a stimoli provenienti dal mondo esterno, su terminazioni nervose molto sensibili, infine rielaborate e codificate dal cervello. Così era, così è, così sarà.

In realtà ciò che è interessante sta nel fatto che ciò che vediamo può essere assai differente da ciò che conosciamo o da ciò in cui crediamo.

L’occhio è, o se fosse, completamente simile alla macchina fotografica nel suo modo di fissare e di conservare le immagini, la nostra attenzione normalmente si sofferma – al di là dell’atto fisiologico, comunque non trascurabile, su quel valore aggiunto che le immagini di per sé hanno quando sono sulla nostra retina piuttosto che nella macchina da presa o nel mezzo che le riproduce. Ma la visione stessa forse nasconde l’inganno, il gioco ingannevole delle immagini – una specie di magia – aveva incuriosito fin dal tardo rinascimento principi e signori: a Mantova Palazzo Te è stato definito “il palazzo dei lucidi inganni” e non solo per la Sala dei cavalli, dove lo sguardo del cavallo dipinto sul muro segue il visitatore nell’attraversare tutta la stanza, ben prima degli studi di percezione della Gestalt. Allo stupore di allora, la fredda consapevolezza dell’oggi: pensiamo all’immagine elettronica, al passaggio di pixel nell’infinita e variegata possibilità di manipolazione che oggi ci è data dalla A.I. Qui, si coglie meglio di altrove, il carattere falso della rappresentazione in quanto alterazione del colore, cioè della luce e dei corpi degli oggetti. L’immagine elettronica e algoritmica vive di una vita propria talvolta lontana dalla verosimiglianza, assumendo un carattere iporealistico in quanto in grado di rigenerarsi da sola infinite volte mostrando così tutta la sua potenza. Per analogia, non siamo lontani dall’hard core dove la continua manipolazione del tempo, dello spazio o la ripetizione della stessa ripresa da parte di una o più camere nascondono ogni possibile défaillance dell’attore, rendendo l’immagine erotica capace di uno sforzo eroico. Oggi, anche un bambino, con una semplice e piccola videocamera digitale può fabbricarsi la sua realtà di seconda mano, con la conseguenza di rendere immanente l’immagine. Con un rischio ancora più catastrofico: la scomparsa dell’originale, cioè la possibile cancellazione di ogni idea di originale, visto che ciascuna copia sarà perfettamente identica al primo supporto registrato e disponibile ovunque attraverso le reti telematiche e dunque infinitamente riproducibile, però non si assicurerà affatto un’immagine più affidabile o credibile; forse più fascinosa, più nitida e ricca di dettagli, ma manipolabile a qualsiasi livello, sebbene per l’osservatore distratto comune sia comunque solo… la realtà.

 

Vedere?

Il nostro modo di vedere le cose è influenzato da ciò che sappiamo o crediamo. Nel medioevo quando si credeva all’esistenza fisica dell’inferno, la vista del fuoco aveva probabilmente un significato diverso da quello di oggi.

Con il trionfo del laser e del pixel ogni minima unità può essere alterabile e falsificabile, allargandosi sempre più il solco esistente tra la realtà in quanto tale (fisica e palpabile) e la sua rappresentazione, con il rischio di celebrare più che la costruzione visiva, esclusivamente i valori contenuti nell’atto riproduttivo stesso. Oggi, nell’epoca della videocrazia si possono ignorare libri e discorsi, si può allontanare la verità e il sacro, si possono contestare idee e ideologie, ma non il valore delle immagini, perché sono il risultato di un semplice presupposto diventato il teorema ottico d’esistenza: quel che è, è; pertanto l’io vedo ha sostituito l’io comprendo e finanche l’io sono. A questo punto ciò che ci è dato da vedere, diventa incontestabile: [1]quel che ci fa vedere il mondo è anche quel che ci acceca, impedendoci di vederlo, di vedere la nostra ideologia. E aggiungiamo noi, lo scorrere del pensiero, la forma della coscienza.

In ogni caso l’atto della visione è un atto multiplo, guidato da ragioni fisiche, intellettive, emotive, psicologiche, tecniche. Già nel mondo classico non è quasi mai stato una semplice modalità fisiologica perché dovevano essere rispettate convenzioni religiose, politiche e sociali che imponevano una visione o, più semplicemente, altre volte, si trattava di varcare la soglia dei semplici dati percettivi per elaborare interiormente le immagini o per dilatare il più possibile gli spazi mentali; come osserva Jean Starobinski: difficilmente lo sguardo si attiene alla pura constatazione delle apparenze, essendo nella sua natura il voler esigere di più. In verità questa impazienza pervade tutti i sensi. Al di là delle sinestesie abituali, ciascun senso aspira a scambiare i propri poteri. (…) E noi possiamo aggiungere che lo sguardo vuol diventare parola, accetta di perdere la facoltà di percepire immediatamente, per acquisire il dono di fissare più durevolmente ciò che fugge. In compenso la parola cerca spesso di cancellarsi per lasciare via libera alla pura visione… Di tutti i sensi, la vista è il senso più dominato dall’impazienza.[2]

Se il visivo è la rappresentazione strutturata e composta di quegli schemi di lettura che consegnano le immagini alla loro referenzialità, corrispondenti all’azione del vedere, al contrario Il visibile resta quel crinale aperto sul regno della possibilità, in cui lo sguardo fugge dalla forma finita degli oggetti per aprire gli occhi sullo sconosciuto, sul nostro rapporto con esso, su ciò che ancora è da strutturare, rinnovando tutte forme della percezione sensibile corrispondenti al guardare. Grazie alla psicologia della GestaIt, sappiamo che ciò vediamo è determinato anche e soprattutto da ciò che non vediamo, infatti nella visione cinematografica quello che vediamo acquista senso e valore solo in relazione a ciò che non vediamo. Determinato dall’invisibile, il vedere è sempre strettamente connesso a un non vedere, con il suo continuo rinvio al fuori campo, con la pratica intensa delle ellissi, con lo straordinario gioco di far vedere allo spettatore qualcosa che eppure è già visto, da chi il film l’ha girato e immaginato.

Trovo straordinario che l’immagine, diversamente dal pensiero, non imponga alcuna opinione alle cose. In ogni operazione del pensiero è sempre implicito anche un giudizio sugli oggetti, sugli uomini, su una città o su un paesaggio. Il vedere invece trascende dalle opinioni; guardando una persona, un oggetto, o il mondo noi sviluppiamo un rapporto autentico, un’attitudine sganciata da qualsiasi giudizio, in fondo percepiamo a livello puro. L’atto di vedere è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità, molto più del pensiero, nel quale invece ci smarriamo più facilmente allontanandoci dal reale. Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze.[3]

Infatti, quando stiamo guardando un oggetto, noi piuttosto tendiamo la mano verso di esso: con un dito invisibile ci muoviamo entro lo spazio che ci circonda, ci trasportiamo nei posti lontani dove stanno gli oggetti, li tocchiamo, li afferriamo, ne palpiamo le superfici, ne percorriamo i contorni, ne indaghiamo la struttura. [4]

Si stabilisce quasi una specie di tracciato tra l’osservatore e la cosa osservata, un ponte attraversato dagli impulsi luminosi che vanno dall’oggetto al cervello, oppure scendono nell’anima, secondo il pensiero magico, o prendono la strada dell’inconscio, secondo la psicoanalisi.

Il fisiologo e fisico Hermann Von Helmholtz, a metà Ottocento, descrisse il processo percettivo come una relazione tra le inferenze inconsce legate ai dati sensoriali e gli oggetti esterni esistenti nel mondo, spalancando di fatto, la porta alla psicologia cognitiva. Infatti i segnali sensoriali, da soli, non sono in grado di darci percezioni certe e immediate, senza che l’intelletto proceda a una serie di congetture e ipotesi. È ingenuo credere che gli occhi siano, da soli, in grado di produrre nel cervello immagini corrispondenti agli oggetti: non solo le immagini prodotte dagli occhi sono otticamente capovolte e spostate di direzione destra/sinistra, ma la funzione del cervello nel processo visivo non è affatto quello di tradurre o di vedere le immagini retiniche, bensì quello di correlarle con il nostro mondo visivo. Se il cervello non si sforzasse continuamente di organizzare i dati della visione, nel tentativo di identificare gli oggetti, i disegnatori dei cartoon incontrerebbero gravi difficoltà. In effetti il loro compito è soltanto quello di presentarci un insieme di poche linee ben scelte, e noi invece vedremo un volto, completo nei suoi lineamenti espressivi.[5]

Allora, le immagini ottiche sono sostanzialmente inadeguate a ottenere un’effettiva e completa visione della realtà: la percezione ha la necessità di accumulare dati, sensazioni e informazioni che formano un luogo in cui è possibile rintracciare la linea delle nostre origini biologiche, cresciute poi con l’esperienza e con la conservazione di rappresentazioni cerebrali sempre più complesse. Così i nostri occhi non possono prescindere dalla nostra storia e dalla nostra memoria, dalle nostre abitudini come dalle nostre abilità, sviluppate e accumulate nelle funzioni della coscienza, della memoria e della conoscenza. I nostri limiti visivi possono essere manifesti con un semplice esercizio. Se ci poniamo davanti allo specchio e volgiamo lo sguardo prima su un occhio e poi sull’altro, è impossibile cogliere il movimento dei propri occhi, cosa che al contrario, possiamo fare benissimo se guardiamo negli occhi le altre persone. Cosa è avvenuto? I movimenti del nostro occhio sono colti in modo discontinuo (saccade) rispetto al reale movimento, tanto che la massima acuità visiva si ha solamente nella regione centrale della fovea, così i segnali si trovano a essere inibiti durante i movimenti di saccade e non possiamo vederci, dimostrando che ogni qualvolta i nostri occhi, fissano un’immagine, registrano assai meno di quanto noi in effetti in teoria vediamo. Ma gli esempi potrebbero essere infiniti: dalle figure impossibili al treno che passa e noi cogliamo il movimento ecc.

La stessa visione cinematografica si presta esemplarmente a suggellare questo percorso: ecco spiegato lo stupore del pubblico di fronte alle prime immagini Lumière, stupore e timore, non tanto derivato dalla mancanza di realtà, quanto piuttosto da limiti di esperienza visiva. Nei baracconi all’alba del secolo, la meraviglia non consisteva tanto nel cogliere la novità del movimento delle immagini e nel principio d’illusorietà – comunque presenti – piuttosto, le anime semplici che affollavano le piazze, non avevano sufficienza esperienza percettiva di ciò che stavano vedendo e potevano spiegarlo solo con la magia, con il pensiero primitivo del sogno e della fantasia. Sottrazione comunque decisiva per far sì che il cinema diventasse poi il cinema e non potesse temere il confronto con altre esperienze visive in cui la visione è comunque più manifesta.

I sistemi sensoriali possono facilmente ingannarci, cinema e televisione si fondano in effetti, come dispositivi illusori proprio grazie alla fissità delle immagini, mentre noi ne ravvisiamo la continuità. Alla base ci sono due principi visivi diversi, quello della persistenza della visione e quello del cosiddetto fenomeno phi. Il primo ci è dato dall’incapacità della retina di cogliere i cambiamenti di intensità luminosa: se una sorgente luminosa è capace di emettere in frequenza fino a 50 lampi al secondo, l’immagine ci appare comunque abbastanza stabile, ma il proiettore cinematografico non emette solo 24 fotogrammi al secondo, in quanto diventano 72 impulsi al secondo, grazie allo sfarfallio dell’otturatore a tre lamelle; mentre la televisione utilizza sì 25 immagini al secondo, ciascuna è però presentata due volte, allo scopo di portare lo sfarfallio a 50 impulsi al secondo. Entrambe superano il punto critico di fusione delle immagini, quello in grado di illudere la retina e la percezione. Ma anche Il fenomeno phi è importante, ci spiega infatti il movimento apparente, perché il nostro cervello è in grado di leggere il movimento solo se è breve l’intervallo di tempo tra due sorgenti luminose che alternativamente si accendono o si spengono; una tolleranza riguardante tutti gli oggetti in movimento che possono temporaneamente scomparire, come quando un animale in corsa è nascosto momentaneamente da un albero. L’osservatore, con la sua mente, vede però il movimento come continuo, perché il sistema immagine – retina tollera la discontinuità, purché salti o slittamenti nello spazio e nel tempo non siano troppo grandi.[6]

Non ci deve dunque stupire se i primi effetti speciali, cioè le illusioni ottiche, abbiano visto la luce quasi contemporaneamente alla supposta realtà rappresentata nei primi film. Da allora in avanti gli effetti speciali, sempre più complessi e sofisticati tecnologicamente, si aggiungono nel film attraverso il montaggio, fino a costituire quell’invisibile o quell’impossibile per i nostri occhi che la nostra mente di spettatore sa comunque percepire e ricondurre alle ragioni del possibile e della causalità logica.

 

Guardare

Guardare è un atto di scelta, ma noi non guardiamo mai una cosa soltanto, ciò che guardiamo è sempre il rapporto che esiste tra noi e le cose.

Nel sistema delle comunicazioni visive, il cinema è tale non solo per ciò che mostra, al contrario, per ciò che non mostra, cioè per essere sia lo specchio/schermo e sia lo sguardo che vi si riflette. Così se la letteratura è anche l’arte del non dire, il cinema deve essere l’arte del non vedere, in cui più che altrove il visibile mostra i suoi stretti rapporti con il non – visibile, luogo dove entrambi si scambiano continuamente di posto, scivolano fluidamente l’uno nell’altro. Così il montaggio, i movimenti della macchina da presa, il continuo trascorre delle immagini l’una nell’altra e il decoupage non esprimono altro che questo: la necessità e l’impossibilità di vedere tutto, che è poi anche la condizione fondamentale della nostra percezione, cioè uno stare e un vivere dentro il mondo dello schermo pur vedendolo come esterno a noi. Il cinema è allora per definizione un vedere e un ricordare, cioè percezione e memoria dello sguardo. Allora guardare e vedere, sono due modi di rapportarsi all’immagine dello schermo anche se il primo appare senza finalità pratiche per la comprensione del film, una sorta di dissipazione e allontanamento dal significato delle immagini, ma pure l’unico modo per scoprire quegli aspetti inconsueti che si avvicinano a tessere il valore artistico, mentre il secondo va inteso come la definizione dell’immagine in oggetto, tesa a collocarsi dentro l’ambito della conoscenza, dell’utilità e del riconoscimento. Atteggiamenti comunque complementari: se spesso guardare non basta, vedere comunque non soddisfa del tutto.

Proprio a partire dallo sguardo, nella sintesi delle funzioni simultanee dell’atto visivo, cioè del vedere e del guardare, possiamo connettere quelle linee paradigmatiche su cui si incentrano le attività teoriche dell’estetica e della semiotica. Solitamente si studiano il diegetico e l’iconico, ci si occupa del visivo e del narrativo, si analizzano il raccontare e il mostrare, ma non si mette in evidenza fino in fondo la peculiarità di questo doppio legame, originato proprio dalla simultaneità delle funzioni sistemiche di occhio e cervello dove la rappresentazione visiva (di primo grado) è reciproca all’ulteriore rappresentazione linguistica, di secondo grado. Vi sono momenti in cui è lo stesso guardare a dover essere una fonte di piacere, altrimenti perché mai si va a visitare mostre d’arte o si va al cinema? Ma non solo, esiste un piacere anche nell’essere guardati. Freud [7] chiamava scopofilia quel piacere che associa gli oggetti a uno sguardo di curiosità e controllo. Un desiderio di vedere autoerotizzante e perverso la cui soddisfazione: sta nell’oggettivizzare lo sguardo, trattando la persona come una cosa da possedere, cioè usando l’altro da sé come oggetto di stimolazione sessuale attraverso la vista. Lo schermo offre tutte le condizioni perché lo sguardo dello spettatore vada non solo alla ricerca del proibito da vedere, ma alla ricerca di una fascinazione o di uno specchio in grado di proporre il riconoscimento e l’identificazione. Nel primo caso abbiamo una separazione dell’identità erotica del soggetto dall’oggetto sullo schermo (la scopofilia attiva), nel secondo l’identificazione dell’Io con l’oggetto della visione e il riconoscimento della similarità, sebbene in modo parziale. Meccanismi non separabili dentro di noi poiché diretti dalla percezione a un mondo d’immagini e d’immaginario che dà forza alla nostra stessa esistenza irridendo la realtà empirica e materiale.

La prima regola dell’immagine riprodotta è che qualsiasi siano linguaggi e codici attraverso cui qualcosa viene ripreso, proprio per il fatto stesso di essere fissato su pellicola o su nastro magnetico, non sia altro che rappresentazione, cioè messa in scena della realtà fisica e materiale. Vale a dire trasformazione, dissimulazione o cancellazione di ogni realtà primitiva e originaria perché è di riproduzione che si tratta, ovvero di una rappresentazione sempre, comunque e per definizione altra rispetto alla realtà. La seconda è che le immagini rifuggono dall’essere la verità, tantomeno alla pretesa di oggettività (cara all’esordio del cinema e oggi a tanta televisione), distante pure al verosimile caro alle teorie artistiche del secolo scorso. Anzi, ogni rappresentazione è sempre più falsificabile, è sempre più soggetta al subliminale, il fatto che non sia la realtà lo si deve infatti alla sua completa immaterialità: fascio di luce o pixel, onda sonora o risonanza magnetica, i risultati sono gli stessi. Le moderne tecnologie hanno quasi abbattuto un limite apparso a lungo quasi invalicabile: quello del tempo con cui avveniva la rappresentazione, oggi arrivato molto vicino alla contemporaneità della cosa rappresentata, ma ancora non basta perché siamo sempre e inevitabilmente di fronte a un modello teorico e astratto – anche se il nostro debole occhio o la nostra mente frastornata, può gridare alla verità o supposta uguaglianza – rispetto alla realtà primaria. Ed è certamente lo spettatore il regista del proprio inganno: l’impressione di movimento provata al cinema è una nostra debolezza retinica visto che non esiste alcun movimento, né prima della proiezione meccanica e né dopo, si tratta – come sappiamo – comunque e solo di una successione di immagini statiche separate le une dalle altre. Ulteriore abbaglio è anche la cosiddetta impressione di profondità, vera e propria invenzione della mente di chi, crede a ciò che appare, dato che sullo schermo non scorrono altro che immagini bidimensionali. Ma la sua magia non si ferma qui: il cinema fa riconoscere allo spettatore ciò che supponeva fosse indifferente o sconosciuto, gli fa ricordare ciò che non aveva mai pensato di aver potuto dimenticare, gli fa rivedere ciò che non aveva mai pensato di aver già visto. Più di una madeleine o di un déjà-vu lo spettatore solo apparentemente si è recato al cinema per vedere un nuovo film, in realtà si trova nelle condizioni di rivedere sempre le stesse immagini per quel meccanismo di coazione a ripetere che abita il desiderio, che spinge il bambino sempre allo stesso giocattolo, l’adolescente allo stesso disco, l’amante a cercare in donne diverse la stessa e unica donna; è proprio la ricerca del perduto che contiene l’illusorietà del ritorno, luogo non lontano quindi da una malattia del desiderio. Così l’effetto della visione prolungando immagini, fantasmi e desideri imprigionati fin dentro chi guarda, rinnova sensazioni, ricordi, bisogni o sentimenti che però fanno già parte di quel terreno antropologico, storico, immaginario, archetipo, appartenente sia alla sfera del soggettivo e sia alle manifestazioni del collettivo: è qualcosa che lo spettatore già conosce, già ha visto, sentito, sognato o sperato, inconsciamente o in piena coscienza, nella sua memoria dimenticata o rimossa. Altrimenti rimarrebbe impassibile, cieco e sordo davanti alle immagini che prendono vita sullo schermo, invece è pronto a recepirle come terribilmente reali perché di esse ha già fatto in qualche modo esperienza. (Sono ben noti gli esperimenti condotti sui ciechi alla nascita in cui, in alcuni casi fortuiti si è data la vista per la prima volta, i loro occhi non riconoscevano affatto gli oggetti…)

È accaduto a tutti di porsi davanti alla macchina fotografica o alla macchina da presa e di cambiare atteggiamento o di cambiare espressione, perché di fronte al mezzo che ci rappresenterà, la nostra mente si immagina la nostra immagine, giunge a desiderarla o a prevederla a tal punto che connettendosi con nostro corpo finisce per immobilizzarlo e irrigidirlo nel cercare l’esatta rappresentazione di sé, correndo il rischio di percepire la trasformazione della propria immagine da corpo reale in statua. E così avviene anche per ciò che sta per essere filmato: ogni ambiente viene preparato, trasformato, illuminato, cioè da reale diventa profilmico, termine inventato proprio per sottolineare come la realtà, quando sia posta davanti alla macchina da presa, non sia più tale, ma una copia, una rappresentazione o l’effetto di qualcos’altro.

Il modello della visione cinematografica incatena così lo spettatore al dispositivo della rappresentazione: diventa un gioco cui lo spettatore non può sottrarsi, pena la perdita del piacere, infatti lo smettere di sognare a occhi aperti impedisce di prolungare il proprio Io nell’altro. E senza l’immersione nell’immaginario è preclusa la via alla soddisfazione della pulsione scopica il cui piacere si fonda sulla rappresentazione più che sulla mera materialità del reale.

Non siamo lontani dal paradigma con cui Freud spiega la psicologia umana: sì lo so (che è un’impressione) ma (sembra la realtà)…

Vedere allora non basta, se ciò che percepiamo ci consente di riconoscere gli oggetti e le persone, o di dare nome alle cose vedute o percepite, manca ancora qualcosa alla visione cinematografica: il guardare come apertura di senso al mondo e a noi stessi quando l’occhio si apre sul visibile, sulle infinite possibilità di essere, su quell’indeterminato nascosto e sotteso in ciò che appare preciso e determinato, ovvero nei lati oscuri del visibile. Chi siede nella sala contribuisce attivamente a costruire ciò appare sullo schermo quando connette degli indizi sparsi per ricomporre un carattere o per ricostruire un luogo dal cumulo di dettagli a partire dai quali si completa uno spazio, quando fornisce una cornice ai dati per mettere in chiaro il loro vero valore per cogliervi l’essenziale e scartare l’accessorio. Basta pensare alla flessibilità dell’attenzione nel soffermarsi su delle figure e nello scivolare via da altre, o quando riempie i buchi del racconto per restituire alla vicenda tutta la sua compiutezza o alla frequenza con cui un elemento non visto viene chiamato a spiegare quel che è apparentemente palese.

Eppure il sogno – come il cinema – inchioda il soggetto di fronte a se stesso: è chiaro che si è autori dei propri sogni, ma anche palese che il sogno ci giunge come un messaggio oscuro da parte di un Altro. Se Freud parla del realizzarsi di un desiderio è perché si riferisce a un bisogno di completamento che il sognatore rivolge alla sua alterità. Il sogno, secondo J. Lacan, non è poi molto diverso da un’immagine allo specchio, poiché durante l’attività onirica il soggetto diventa l’oggetto di una visione, di uno smascheramento dell’immagine, trovandosi nella posizione di chi credendo di guardare è in effetti guardato.

L’esperienza del film è una allucinazione poiché chi guarda confonde due distinti livelli di realtà che di norma le regole percettive hanno ben chiari, in più poi le immagini appaiono realmente sullo schermo, così lo spettatore allucina quello che vede realmente, trasforma in sogno ciò che effettivamente percepisce. Si trovano così davanti allo schermo due atteggiamenti psichici opposti: la prova di realtà prodotta dall’Io, caratteristica dei processi secondari compiuti dalla coscienza; e l’allucinazione, prodotto dai processi primari, caratteristico invece dell’inconscio; Il film è dunque una specie d’allucinazione cosciente, uno slittamento fra la parte desta e la parte sognante dello spettatore simile al sogno ad occhi aperti di cui parla Freud, in cui il soggetto elabora un fantasma cosciente. Eppure sia nel sogno che nella rêverie mancano i caratteri d’impressione sensibile da cui lo spettacolo filmico invece è costituito. La rêverie, dal punto di vista psicologico, è uno stato di veglia in cui ci si allontana temporaneamente dall’esperienza sensibile mentre, nel caso del film, questo sogno ad occhi aperti è prodotto da reali esperienze sensibili.

Così il XX secolo non è stato il secolo dell’immagine, come si pretende, ma quello dell’ottica ma soprattutto dell’illusione ottica e degli analfabeti dell’immagine. Pare che in molti abbiano seguito i consigli del mago Houdini: trarre profitto dai limiti visivi del testimone attaccando la sua capacità innata di distinguere tra il reale e quanto si crede vero e autentico, portandolo così a credere fermamente a ciò che non esiste. Va però considerato e sono parole di Sorlin che “la nozione di immagine ci permette di superare l’opposizione tra realtà e rappresentazione. Le immagini non sono la realtà, ma il nostro unico accesso alla realtà. Le immagini sono il medium comunicativo tra noi e la realtà; sono il frutto delle nostre esperienze e della società in cui viviamo che ce ne fornisce la maggior parte e in tal modo le rende effettivamente comuni a tutti i membri del gruppo“. Il luogo comune che la nostra è la civiltà dell’immagine non è soddisfacente se è il buio della mente o che sta fuori campo a significare la visione e poi le parole non hanno perso il loro potere e restano ancora l’unico mezzo a disposizione per esprimere le immagini e soprattutto per dargli e attribuirgli senso.

[1] R. Debray, Vita e morte dell’immagine, Il castoro, Milano, 1999.

[2] J. Starobinski, L’occhio vivente, Einaudi, Torino 1975.

[3] W. Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Milano,1992.

[4] R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, 2008.

[5] R. L. Gregory, Occhio e cervello – La psicologia del vedere, Milano, Cortina, 1998.

[6] R. L. Gregory, Occhio e cervello – La psicologia del vedere, Cortina, Milano 1998.

[7] S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905, ed. Italiana, Boringhieri, Milano.


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