Il cinema: lo schermo del capitale

 

Sarà soltanto l’A. I. a fare i film nel futuro?

Non si può ignorare il fatto che la catena di montaggio, che svolge un ruolo così importante nel processo della produzione, è in certo qual modo rappresentata dalla pellicola in quello del consumo.

Sono apparsi per così dire contemporaneamente. L’importanza sociale dell’una non può essere compresa pienamente senza quella dell’altra.

(Walter Benjamin)

 

Dove si vedono i film nell’ultimo lustro? Non più in sala, ma su uno schermo domestico o portatile. Il terremoto delle serie o della serialità del prodotto – compresa la logica del remake – credo abbia modificato per sempre la ricezione del dispositivo cinematografico. Negli Stati Uniti la percentuale tra produzioni destinate alle piattaforme sta superando il 70% rispetto alla prima distribuzione nei cinematografi, in Italia siamo al 35-40 % rivolta all’esclusività dello streaming, il restante in prima battuta nelle sale, sperando di riversarlo in meno di tre mesi in Tv o in streaming… Secondo le ultime ricerche gli scarsi frequentatori per fasce d’età che acquistano un biglietto, si sono ridotti a meno di uno su due. Il 23% ha più di 60 anni, il 15% quello tra i 50-59 anni, scendendo al 10% tra 25-34 anni. Il dispositivo cinematografico quale tecnologia, merce e macchina corre veloce lungo i binari del capitalismo così non può che rinnovarsi incessantemente per fare profitti. Produrre film o serie destinate alle piattaforme riduce drasticamente gli investimenti, un capitale finanziario e circolante quasi sicuro rispetto a un significativo intervento produttivo per un film dove occorre “scommettere” se sarà in grado di portare la folla a vederlo e a riempire i cinematografi, poiché l’incasso già determinato alla fonte. Ora anche l’estrazione del plusvalore si è esteso alla circolazione senza più limitarsi alla sola produzione di beni o servizi, users o viewers viaggiano sul pianeta del link e dei software nella tempesta perfetta dei social network.

La nascita delle sale cinematografiche nel primo decennio del Novecento, e non solo in Italia, fu dettato da fattori strettamente economici. Se dal 1896 al 1905 lo spettacolo cinematografico si svolgeva nei teatri o nelle piazze, grazie al baracconi cinematografici (lo spettacolo foraneo) fu una particolare condizione economica a portare i capitali necessari a investire nella produzione di film e nella costruzione di luoghi necessari alla loro visione.

Verso la fine degli anni Novanta dell’Ottocento il PIL pro capite italiano era al 38% rispetto alla Gran Bretagna (dal 45% nel 1870); nel 1913 raggiunse quasi il 54%. Per la prima volta dal XVII secolo, invece di restare indietro, la penisola fece un balzo in avanti e ridusse il divario di reddito con il paese economicamente più̀ avanzato del tempo. Tra il 1901 e il 1911, durante la cosiddetta «età̀ giolittiana», la produttività del lavoro ebbe un incremento del 2,5% annuo nell’industria e del 2,2% nel settore dei servizi. In questo processo svolsero una funzione importante le grandi banche, in testa la Banca Commerciale Italiana, dove vi era una grossa partecipazione del capitale tedesco e venivano capitalizzate le ingenti rimesse in valuta dell’emigrazione italiana oltreoceano. Grandi imprese italiane erano sorte con i mezzi di questa banca. Dal 1907 la “Terni” e la Banca Commerciale Italiana assoggettarono al proprio controllo molti cantieri navali e le maggiori compagnie di trasporti marittimi. In alcuni settori industriali (metallurgia, motori a vapore, elettricità̀ ed elettromeccanica) la produzione crebbe a tassi di due cifre con un vantaggio competitivo nei settori chiave della seconda rivoluzione industriale: la FIAT nell’auto, la Pirelli in cavi e pneumatici, Ansaldo nella cantieristica navale e Falck, Piombino e Terni nella produzione di acciaio. Con l’aiuto del capitale straniero e sotto la tutela dei dazi protezionistici si sviluppò rapidamente la grande industria nel cosiddetto “triangolo industriale” Milano-Genova-Torino. Nel 1911 le aree di Milano, Torino e Genova producevano già il 55% del valore aggiunto della nazione. Ma non fu il grande capitale a far decollare il cinema italiano, ma la borghesia che si stava formando (agraria, commerciale, delle professioni) che vide un’occasione per far crescere i propri redditi in un settore che “prometteva guadagni facili”, quello dello spettacolo cinematografico, già grande attrattiva per le classi più povere e popolari, mentre all’inizio la borghesia cittadina o di provincia era ancora attratta dallo spettacolo teatrale o dalla lirica, biglietto d’ingresso a una società ancora aristocratica e tardo feudale, in particolare nel sud del paese. Non fu certo un caso se i primi investitori si distribuirono geograficamente in questo modo:

 

1904 – Napoli, “Monopolio Lombardo” di Gustavo Lombardo, poi Titanus;
1905 – Roma, “Albertini & Santoni”, poi Cines nel 1906;
1905 – Palermo, “Lucarelli film” consorziata con la francese Pathé;
1906 – Torino, “Ambrosio”;
1906 – Napoli, “Partenope film” dei fratelli Troncone;
1907 – Torino, “Aquila film”;
1907 – Torino, “Carlo Rossi & C. “;
1908 – Torino, “Itala film”;
1908 – Torino, “Pasquali film”;
1908 – Milano, “Milano films”;
1911 – Torino, “Savoia film”;
1911 – Torino, “Società anonima Pittaluga”;
1914 – Roma, “Caesar film” di Giuseppe Barattolo.

 

Da allora il cinema (lo si chiamava cinematografo) fece parte di quella costellazione di dispositivi e sistemi discorsivi dove il capitalismo riproducendo sé stesso mobilita lo spettatore quale consumatore ai fini dell’estrazione del plusvalore e all’asservimento di dominio e controllo sociale. Un monotono processo di riproduzione del capitale, senza alcuna distribuzione della ricchezza, in quanto il prodotto è immaginario. Al tempo stesso, si realizzò un processo di ideologizzazione e depoliticizzazione delle masse, ridotte a voyeur di immagini – di cui il cinema oggi è solo una parte, una componente, non più largamente maggioritaria come era stata in passato (dal secondo dopoguerra agli anni Settanta), quando si poteva parlare di industria culturale separatamente dal resto dell’industria, come se una fosse distinguibile l’una dall’altra. L’industria culturale di questi anni vuole e può profilare i suoi consumatori producendo immagini e bisogni intenzionalmente personalizzati. Ancor più la cultura non è più un regno separato dall’economia. Chiunque ha avuto accesso a qualsiasi piattaforma (Amazon, Netflix, Disney o altro) si sarà accorto quanto sia difficile vederne il catalogo, poiché un algoritmo ti ha profilato nei tuoi gusti o scelte, e ti offre titoli simili (basta averne visto uno o due e il meccanismo si replica all’infinito). Lo spettatore ridotto a tecno-consumatore è stato registrato, archiviato e canalizzato nei flussi di immagini e consumo attraverso quei facilitatori invadenti fin dall’istante dell’accensione dello schermo-dispositivo. In più costretto a fare un abbonamento e a “acquistare” un film, felice di spendere poco: in media, il costo in streaming rispetto alla sala è del 70-80% in meno. Le lamentele dell’esercizio, cioè degli esercenti, inizia con l’arrivo della televisione nel 1954, considerata la causa di tutti i mali, poi con le Tv libere dal 1975, lo scontro Rai-Mediaset dagli anni Ottanta. In realtà non hanno compreso che l’andare al cinema era stata in passato un’abitudine popolare e collettiva – in altri tempi forse l’unica occasione di tempo liberato dal lavoro – in seguito con le trasformazioni sociali, oggi rimane una consuetudine mediata dallo schermo domestico. Basta osservare questi dati:

 

ANNO SPETTATORI CINEMATOGRAFI
1949 616 milioni 7.545
1955 819 milioni
1975 513 milioni
1980 241 milioni
2021 24 milioni
2023 18 milioni 1.000 schermi nelle multisale (7-9 ognuna)

 

Ciò che gli esercenti dimenticano è che col regredire del flusso del pubblico, (le sale di paese e di provincia non sopportando lo spopolamento e il costo del rinnovamento tecnologico sono scomparse) per avere ancora l’incasso “d’oro” del passato, proporzionalmente hanno sempre aumentato il biglietto d’ingresso, contemporaneamente al calo del pubblico, arrivato oggi a 10-12 euro in diverse città. L’offerta di film è sempre stata più o meno la stessa, dalla fine degli anni Novanta sono nati multiplex e multisale fino a 10 schermi, si è avuto un concentramento di capitale e di sale, ma senza più il pubblico.

Eccoci al rituale dal sapore funebre di ogni anno: la “Festa del cinema”, promossa con soldi pubblici, fissando per una settimana a Giugno il prezzo del biglietto in tutte le sale a 3 euro e 50 (rimborsando gli esercenti del prezzo intero), quando in programmazione c’è il fondo del barile: i titoli rimasti dell’annata – quelli esclusi o ritenuti deboli per farli uscire nel pieno della stagione – si presenta come l’ennesima beffa. Il capitale mostrando i denti sa anche sorridere.

A quasi 150 anni dalla sua nascita, il cinema non arride nemmeno a Hollywood e al suo modello economico: i nuovi padroni del capitale finanziario fino a qualche decennio fa si erano limitati a spremere i lavoratori accaparrandosi una quota sproporzionata di profitto, secondo una ricerca di Bloomberg nel 2013 le principali aziende cinematografiche e televisive dichiaravano oltre 20 miliardi di attivo. Ma nel 2022 (come riporta lo studio di Daniel Bessner della Washington University) la cifra si era dimezzata: dal 2021 al 2022 la crescita dei ricavi nel settore è scesa del 49%, alla fine del 2023 – in un solo anno – gli incassi del cinema erano scesi del 22% rispetto al 2019. Al botteghino nei locali cinematografici si contavano 11 miliardi di dollari nel 2020, scesi a 8 nel 2023. Nemmeno le piattaforme riuscivano a fermare un’onda di crisi se nel 2023, soltanto Netflix, Warner Bros e Discovery Channel avevano avuto degli utili. Dopo lo sciopero degli sceneggiatori dell’estate 2023, si è aperto il taglio dei dipendenti: uno su 4, con un calo occupazionale del 26%. Sarà soltanto l’A. I. a fare i film nel futuro?


https://www.asterios.it/catalogo/linginocchiatoio