(La prima parte di questo capolavoro antimilitarista di Stratìs Myrivilis è stato pubblicato la Domenica 17 Aprile, Pasqua Latina)

 

Nel bosco

Indovina dove sono stato? Nel bosco! E sono ancora emozionato. Ecco, per scrivere mi sono appoggiato lo zaino sulle ginocchia e lo zaino è ancora pieno di fili d’erba calpestati mentre le coperte sono piene di terra. Il mio corpo profuma di bosco, i miei abiti sono ancora impregnati del respiro sacro della natura. Chiudo gli occhi e me lo sento ronzare, soffiare e gridare nelle orecchie. Grida come un mostro dalle mille gole. Nella gavetta ho messo un mazzolino di fiori selvatici, da cui proviene un profumo amarognolo. Non so che fiori siano so soltanto che sono bellissimi e che trascorrerei ore intere a guardarli. Solo che, ecco, tutto questo non so come scrivertelo. I capelli sono cosparsi di gocce di rugiada cadute dai rami degli alberi più alti, e adesso il mio ricovero profuma di resina, menta selvatica e origano fresco. La situazione sembra idilliaca ma neanche stavolta manca la sofferenza e il sangue versato dagli uomini, da cui riuscirei a liberarmi soltanto se mi decidessi finalmente a scrivere. Devo scrivere per non trascinare anche te nel virente abisso del mio stupore, che mi riempie l’anima come un oceano e mi stordisce con mille voci.

Occorreva una ventina di uomini per una missione speciale e hanno preso me come capo. Il capitano mi convocò nel suo ricovero, con lui c’era anche il capitano del genio, e mi disse:

«Prendi venti uomini e seguite il caporale qui presente. Vi porterà in un bosco e vi procurerete la legna necessaria per rinforzare la trincea e la barriera di filo spinato. Vi porterete provviste per una giornata e non tornerete qui prima che si faccia buio. Quelli sono gli attrezzi…».

Abbozzò un sorriso, poi disse di nuovo:

«Spero che siate soddisfatti».

Non credevo alle mie orecchie. Mi sentii travolgere la nuca da un’onda di calore, le orecchie me le sentivo bruciare. Se non ci fosse stato il caporale, avrei baciato la mano del capitano. Borbottai qualcosa, mi sentivo soffocare di riconoscenza, lui se ne accorse.

Fu così che mi allontanai dalla trincea e che trascorsi in missione una giornata intera, piena di luce naturale, di ombre arboree, di terra e d’acqua e di fiori. Una giornata sotto il cielo! Un cielo altissimo e infinito, la cui volta si sollevava oltre le stelle e che permetteva agli uomini di alzarsi in piedi, di smetterla di strisciare come lucertole, di tenere la schiena diritta senza il timore di sbattere la testa contro il soffitto di roccia o di trasformarsi in bersaglio per i nemici. Quando uscimmo dal dedalo delle trincee, a circa mezz’ora di strada dietro la nostra linea difensiva, presso la cucina da campo dove si prepara il nostro rancio sopraffino, finalmente potei sollevare la testa verso Dio. Le mie articolazioni rattrappite scricchiolarono come cardini arrugginiti.

Un crepaccio dopo l’altro sbucammo infine in un pianoro brullo, completamente piatto e nudo, pieno di silenzio e di note sommesse. Il cielo brillava di stelle proprio come quando nel mondo regna la pace. I puntini luminosi brillavano festosi luccicando come se fossero nuovi di zecca, come non avevano luccicato neppure la prima notte della Creazione, vividi di gioia. Camminavamo in silenzio e senza fumare, e cercando in mille modi di soffocare il clangore dell’equipaggiamento. Intorno a noi la quiete regnava sovrana, soltanto una volta fu interrotta dal sibilo di un razzo. Con un gesto istintivo ci buttammo per terra e rimanemmo immobili come statue in attesa che il candido bagliore si dissolvesse sopra le nostre teste. Quando il buio della notte riuscì a inghiottire quest’occhio proditorio, ci rialzammo in piedi, sempre senza far rumore, e ci incamminammo dietro il caporale del genio. Il pianoro continuava a essere agevole e piatto, sembrava che qualcuno l’avesse livellato con il rastrello.

A un tratto fummo al cospetto del bosco. Era quella la linea scura che vedevamo all’orizzonte! Mi pareva strano di averlo lì davanti, enorme, con il fitto fogliame degli alberi e la voce misteriosa che usciva dai recessi delle sue viscere. Cominciava così, all’improvviso: da una parte il pianoro brullo e liscio, e dall’altra il bosco, un fiume verde che scorreva verso il cielo con un fragore assordante che imponeva un silenzio atterrito… A Lesbo non esiste niente del genere.

Da un momento all’altro, da un silenzio cimiteriale fummo scaraventati nei fondali di un oceano di suoni inimmaginabili e innumerevoli, che correvano e si incrociavano in alto, sopra le nostre teste, e si agitavano frenetici nell’aria umida, reticolo occulto di voci, fischi, rintocchi, gemiti, e poi schianti, scrosci e vocalizzi prodotti da flauti invisibili. Immagina migliaia di musicanti folli che decidano di provare tutti insieme i loro strumenti oppure migliaia di uccelli, scimmie, serpi, insetti e animali selvaggi che gridino, litighino e fischino…

Ho detto prima che ci sembrava di essere precipitati in fondo a un oceano perché era questa la sensazione che provammo quando ci addentrammo nel bosco. Eravamo davvero sul fondo di uno strepitante abisso profondissimo e verde. Come dicevo prima, sulla nostra isola una cosa del genere è del tutto inconcepibile. A Lesbo gli elementi naturali si fondono con serenità e armonia con l’esistenza degli uomini. Al massimo nei boschi di casa nostra è possibile appendere corone di fiori e bende azzurre presso le are erbose erette in onore di vezzose divinità. Il bosco in cui ci trovavamo noi, invece, era un luogo vergine, primigenio, che risaliva ai primi istanti della creazione, e in cui dimorava una divinità malvagia che si poteva ammansire soltanto offrendo sacrifici umani.

A impressionarci furono in primo luogo le proporzioni. Appena ci addentrammo in esso, ci sentimmo pervadere da una sofferenza indicibile. Gli alberi, addensati in fitte macchie, erano così alti che di sicuro non ci vedevano. I rampicanti avevano proteso le loro braccia fiorite e agitavano i festoni variopinti da un ramo all’altro tenendo sospesi in aria archi e ghirlande di frutti, e grandi e curiose infiorescenze, simili a uva e a piccole trombe. Ci fermammo con tutte le nostre armi e l’attrezzatura, travolti da quel prodigio. All’inizio ci eravamo stretti senza accorgercene uno accanto all’altro, in silenzio, come se presentissimo un pericolo.

A un certo punto qualcuno si azzardò a dire:

«Una cosa così non l’ho mai vista in vita mia».

In quel momento tutti ci mettemmo a parlare e a gesticolare in modo frenetico, cercando di non fare rumore. Ma il risultato era patetico perché i nostri sussurri a malapena si udivano nel fragoroso cinguettare e ciangottare degli uccelli sopra le nostre teste. A un tratto la nostra presenza assunse una nota di ridicolo e le nostre accette parvero poco più che giocattoli. E quando Angheletos, che pure era il soldato più alto della compagnia, per raggiungere la cima di un faggio che svaniva nella densa cupola di foglie sollevò la testa facendosi cadere l’elmetto, a noi sembrò un piccolo soldatino di piombo messo sotto l’albero di Natale.

In quel momento ci accorgemmo che il bosco era un mostro feroce di natura vegetale, dotato di volontà, che respirava, viveva, sospirava e gridava nel suo modo di esistenza indistruttibile ed eterno. Un immane essere vivente che ruggiva fino a renderci sordi. Il verde sangue che lo percorreva, circolava impetuoso nei tronchi robusti simile a una fonte indomabile di selvaggia giovinezza. La sua voce poi, una voce piena e dalle mille modulazioni, simile ma anche molto diversa dalla voce sconfinata del mare, la voce del bosco dunque, che non avevo mai sentito prima in vita mia, mi parve uno spaventoso e insopportabile urlo che non aveva in sé nulla di conforme alla misura umana. Il nostro cuore fu colto da una paura indescrivibile.

Ma in realtà l’anima del bosco non si era accorta di noi. Gli uccelli non smisero di cantare, gli animali non smisero di emettere i loro versi, nessun insetto aveva deviato dal suo cammino. E quando noi uomini, atomi del male, prendemmo le accette e cominciammo, zak-zak-zak, ad abbattere i primi alberi, dalle ferite fresche e aulenti vedemmo sgorgare una linfa simile ad acqua santa. Neanche in questo caso però il bosco parve accorgersi di noi, evidentemente la nostra presenza non aveva alcuna importanza se confrontata con l’immensità della sua esistenza. La sorgente indomabile di vita che zampillava da sotto il terreno presto avrebbe generato mucchi di novelli rametti flessuosi pronti a soppiantare gli alberi che avevamo ucciso.

Quando un tronco cominciava a vacillare sotto i nostri colpi, una decina di soldati gli avvolgevano intorno delle funi e lo tiravano giù ululando. Questi tronchi a me parevano che gemessero per il dolore, il momento in cui stramazzavano al suolo trascinandosi dietro e spezzando i rami degli altri alberi che incontrava era carico di una tragica magnificenza.

Poi c’erano gli scoiattoli, torme di scoiattoli con gli occhietti castani e le splendide code folte folte, che amoreggiavano sui rami e si interrompevano un istante prima che il tronco toccasse terra. Allora abbassavano la testolina, guardavano costernati i soldati, gli assassini del loro albero, e con un balzo fendevano l’aria simili a lanuginosi batuffoli di pelo per raggiungere i rami dell’albero di fronte, dove ricominciavano i loro giochi senza curarsi più di noi.

Il caporale del genio non si lasciava sfuggire l’occasione di esercitarsi al tiro al bersaglio con questi graziosi animaletti, che senza scomporsi giravano la testa a destra e a sinistra, e individuavano la minaccia con i loro occhietti lucidi come il vetro. Ma era sempre troppo tardi. Il colpo di fucile rimbombava secco nell’aria, veniva assorbito dalla voce immensa del bosco, e la sventurata bestiola cadeva ai nostri piedi morta stecchita, costernata per l’accaduto.

Quello che mi è rimasto dopo la nostra catabasi nel bosco è una sensazione inspiegabile di animalità. Mi sembra di essermi aggirato per un giorno intero sul virente vello di una bestia mitologica, che da migliaia di anni vive laggiù, ai margini del pianoro, chiudendo l’orizzonte con la sua mole. È un essere immortale con innumerevoli, tozze zampe che sprofondano nelle viscere della terra. Dalle fauci gli esce un verso spaventoso, dal corpo gigantesco si sprigiona un intenso afrore arboreo di cui ancora adesso sono impregnati i miei abiti.

Questa sensazione di possente animalità soffiava ovunque nel bosco e intrideva l’aria umida come un respiro tossico, che si impadroniva lentamente dei soldati. Questi ultimi, passati i primi istanti di smarrimento, cedevano a poco a poco al fatalismo dell’accettazione. Si lasciarono inghiottire dal mostro verde e cominciarono a muoversi disinvolti dentro il suo ventre immenso. E il bosco li digerì e li assorbì di buon grado.

Così a un certo punto anche i soldati si misero a gridare a squarciagola, come gli uccelli, per farsi sentire dai compagni a dieci passi di distanza. Finché, in modo incomprensibile e inesorabile, li travolse il furore erotico che smaniava ovunque laggiù. A stordirli come una boccata di hashish fu il languido e arcano soffio che giungeva dai recessi del bosco, la cui selvaggia anima fecondatrice spargeva su di loro un liquor genitale gocciolante dagli alberi stretti uno all’altro in un titanico abbraccio, e dall’amplesso dei rami popolati da animali in calore e da migliaia di uccelli che strepitavano di ineffabile gaudio. Tale, ininterrotto delirio dei sensi mandava i soldati in estasi e si iniettava in loro come un veleno filtrato direttamente dal cuore del bosco, ansante di foia possente in ogni fibra. Pur non essendone del tutto consapevoli, i soldati erano già succubi del potere infinito della bestia verde, che li trattava come tutte le altre migliaia di vite in essa ospitate, travolte da un irresistibile furore riproduttivo.

Allora cominciarono a scambiarsi lazzi osceni, si misero a ciangottare anche loro come uccelli selvaggi rimpallandosi l’un l’altro gesti e parole volgari. Non li avevo mai visti in quello stato. Nella trincea il culto morboso del sesso proibito si traduceva in comportamenti intimi, misteriosi e fitti di sensi di colpa, sia per l’ombra insopportabile della morte che incombe senza tregua laggiù sia per il silenzio e l’immobilità forzata. Invece laggiù, in mezzo al bosco, l’impeto degli istinti si sprigionò in tutta la sua veemenza. I soldati scherzavano, si rotolavano sul manto erboso, strofinavano con voluttà il volto barbuto sull’erba come se volessero mangiarla, lottavano eccitati come satiri. Addirittura scaraventarono a terra un compagno, lo denudarono dalla cintola in giù e gli coprirono i genitali di ortiche. E il malcapitato rideva, fingeva di arrabbiarsi, si mordeva le mani e scalciava nell’aria mugghiando come un animale. Poi, quando i compagni smisero di tormentarlo, lui anziché alzarsi, giacque ancora qualche minuto disteso al suolo, con i pantaloni ammucchiati alle caviglie. Alla fine balzò in piedi e si mise a ballare con le gambe divaricate, come Priapo, prendendosi il membro in mano e ancheggiando in modo lascivo.

Consumato il rancio di mezzogiorno, ci sdraiammo sull’erba a fumare e a chiacchierare. Accanto a me c’erano gli amici del soldato scelto Bilios. Questo Bilios era un giovane posato e taciturno, che non aveva mai avuto problemi con nessuno. Quella volta invece diventò senza volerlo il pomo della discordia. I suoi amici erano Angheletos e altri cinque o sei soldati, ma soprattutto Angheletos. I due erano inseparabili e avevano stretto amicizia perché erano i più alti della compagnia e li avevano messi entrambi in prima fila. In breve tempo erano diventati molto amici, erano sempre pronti a darsi una mano l’un l’altro, insieme mangiavano, insieme bevevano e condividevano anche lo stesso ricovero.

«Che ne direste di raccontarci qualche storia per passare il tempo?», propose Stefanìs, il caporale del genio, anche lui molto amico di Bilios e di Angheletos, sbadigliando come un cane.

«Ho un’idea!», saltò su a dire Mitrellis, il ragazzino biondo e rachitico di cui ho già parlato prima, che pur spazzolando tutti gli avanzi del battaglione, ogni giorno appariva sempre più pallido ed emaciato. «Propongo che ognuno di noi racconti nei dettagli la scopata più bella della sua vita. Che ve ne pare?».

«Sì, sì, ottima idea!», esultarono tutti all’unisono.

«Angheletos, comincia tu», disse il caporale Stefanìs.

«Sì, comincia tu», ripeté Bilios, che era sdraiato accanto a lui e gli diede una manata sulle spalle. «Tu sei il ragazzo più bello della compagnia e ci scommetto che sei uno sciupafemmine».

Angheletos si grattò la testa con il mignolo e fece una smorfia divertita.

«Se è questo quello che volete, ci sto», rispose. Poi tirò fuori una sigaretta e l’acciarino, e l’accese, mentre gli altri si sedevano più comodamente sull’erba per vederlo meglio. Lui intanto si era messo a sbuffare volute di fumo dalla bocca e dalle narici, e socchiuse i grandi occhi sovrastati dalle sopracciglia diritte.

«La storia che sto per raccontarvi avvenne l’inverno di un paio di anni fa, al mio villaggio. La cartolina di precetto non mi era ancora arrivata e detto tra noi, quello fu proprio un inverno divertente. Di operai specializzati nella bacchiatura delle olive non ne era rimasto quasi nessuno, i migliori se li era portati via l’esercito, così noi pivelli ne approfittammo per racimolare qualche soldo. Costringevamo i padroni a pagarci a peso d’oro. Uno dei padroni per cui lavoravamo si chiamava Kakurellis, il dottor Kakurellis, che produceva tremila orci d’olio all’anno e possedeva un macchinario che macinava per tutto il villaggio. Eppure era uno spilorcio come pochi, non c’era verso di spillargli un quattrino. Il suo podere stava a Longhì, a un’ora dal nostro paese. Ci aveva messo a disposizione una baracca per cucinare e mangiare. Alle dipendenze del medico c’erano una trentina tra donne e ragazze più giovani, forestiere e compaesane. Quell’inverno, ricordo, fu molto piovoso, se non pioveva tre giorni di fila ci veniva da piangere per la gioia. Il lavoro al podere ebbe inizio ai primi di novembre, ma ogni volta che le raccoglitrici si mettevano al lavoro, dal cielo cominciavano a cadere le prime gocce, e nel giro di qualche minuto una pioggia torrenziale ci sferzava la faccia. Il padrone ci aveva ordinato di non fermarci per nessuna ragione, neanche per la pioggia. Avevamo soltanto diritto a un intervallo a mezzogiorno per mangiare e riposare un po’.

»“Ma, padrone, sta per piovere!”.

»“E con questo? Avete qualche problema?”.

»“Noi no, ma le donne?”.

»“Le donne sono fatte come voi, mica si sciolgono sotto l’acqua. Vorrà dire che a mezzogiorno, nella baracca, accenderanno un fuoco per riscaldarsi visto che, grazie a Dio, la legna non ci manca”.

»Così quelle poverette erano costrette a lavorare curve sotto la pioggia. L’acqua colava dai fazzoletti che avevano in testa, scorreva lungo la schiena e defluiva dalle maniche. A mezzogiorno si ritiravano tutte nella baracca per il pranzo, quasi sempre un’aringa sotto sale, e per asciugarsi i vestiti. Di legna ce n’era davvero in abbondanza. Si chiudevano ben bene a chiave e accendevano il grande camino. Ogni tanto qualche favilla guizzava fuori dall’imboccatura lambendo le mattonelle.

»Io per fortuna non mi bagnavo perché avevo con me un impermeabile. A mezzogiorno, per il pranzo, mi rifugiavo in un crepaccio roccioso che noi chiamavamo spelonca, proprio di fronte alla baracca. Aprivo la bisaccia e mangiavo, poi mi rollavo una sigaretta. Dalla spelonca sentivo le grida e le risate delle donne, e vedevo il fumo uscire dal comignolo. Con la mente volavo dentro la baracca immaginando quello che vi succedeva. Un giorno mi venne la curiosità irresistibile di vedere che cosa combinassero le donne là dentro. Riuscii ad aprire una fessura nel muro esterno della baracca che era rivestito da una folta pianta d’edera. L’allargai sempre più e un bel giorno, raggiunte le dimensioni desiderate, senza farmi vedere, mi aggrappai all’edera, accostai l’occhio e spiai dentro la baracca.

»Ragazzi, quello che vidi là dentro non ci sono parole per descriverlo. Le donne avevano messo le brache e i camicioni ad asciugare davanti al fuoco e loro erano praticamente nude. Stavo quasi per svenire. A parte certe vecchie avvizzite e raggrinzite che a pensarci mi vengono ancora i brividi, c’erano delle creature che quando le vidi, rimasi senza fiato, ragazze fragranti e sode come mele cotogne, che il riverbero del fuoco faceva sembrare tutte rosa. C’era una ragazza in particolare che aveva le guance rosse rosse e una grossa treccia bionda che le cadeva sulle spalle. Era alta quasi quanto me ed era completamente nuda. A un certo punto appoggiò le tette sulle braccia conserte, le porse al fuoco ora l’una ora l’altra e il bagliore rossastro le faceva sembrare due grosse melegrane. Vidi anche un’altra ragazza, molto giovane, che aveva due tettine a punta e le amiche si divertivano a pizzicargliele fino a farla piangere. Ma la ragazza più bella di tutte, che quando l’ho vista nuda mi ha fatto perdere la testa, era una che veniva da fuori, una profuga, che aveva già perso il marito pur essendo molto giovane. Aveva un paio d’occhi rugiadosi e una bocca tutta da mordere, e un modo di fare tra il malizioso e l’innocente che mi faceva salire il sangue alla testa. Sta di fatto che da quel giorno ho cominciato a sognarla sia di giorno sia di notte perché quella non era una ragazza ma una dannazione.

»Al podere di Kakurellis era venuta a cercare lavoro assieme a un’amica più anziana che era brutta come la morte e che aveva il coraggio di dipingersi le labbra e di darsi la tinta ai capelli ma alla fine veniva fuori un misto di marrone e di rosso che metteva paura. Un giorno la presi in disparte, le misi uno scialle nel paniere e le dissi: “Comare Kanelliò, com’è bella la tua compaesana, lo sai che mi ha fatto perdere la testa?”. La vecchia nascose in fretta lo scialle e rispose con un sorriso malizioso: “Anche tu, mio caro, sei un bel pezzo di figliolo. Ci penso io a parlarle di te e vedrai che anche a lei piacerai, sta’ tranquillo”. Ebbene, che ci crediate o no, la vecchia ruffiana mantenne la promessa e da quel giorno per la ragazza ogni scusa era buona per guardarmi di nascosto. La vecchia intanto non la lasciava in pace, continuava a parlarle di me tanto che alla fine si arrese. Così mentre all’inizio quando mi accorgevo che mi guardava, lei volgeva subito gli occhi da un’altra parte arrossendo come un peperone, a un certo punto ha cominciato a ricambiare i miei sguardi cercando soltanto di non farsi notare dalle compagne. Io poi a volte, mentre bacchiavo le olive, accennavo il motivo di qualche canzone allusiva e lei sollevava gli occhi, piegava appena la testa sulla spalla e sorrideva con dolcezza per farmi capire che aveva colto il messaggio. Quello sguardo aveva un che di tenero e di malizioso che mi faceva ribollire il sangue. Allora mi mettevo a sbattere a casaccio il bastone sui rami facendo cadere tutte insieme le olive, le gemme e le foglie sulle teste delle raccoglitrici. Una sera tramite la vecchia le mandai in dono una cuffia e un braccialetto. Lei accettò il regalo e da quel giorno non ho fatto altro che cercare un pretesto per parlare con lei. Nei paesi anche i muri hanno occhi e orecchie, la gente mormora in continuazione e per avvicinare una ragazza occorre un vero e proprio piano operativo. Finché un giorno il tanto agognato colpo di fortuna è arrivato. Era l’ora di pranzo, le raccoglitrici si diressero alla baracca mentre la ragazza, siccome le mancava poco per riempire completamente la cesta, si trattenne ancora un po’. Allora comare Kanelliò le disse ad alta voce per farsi sentire dalle altre: “Mi raccomando, prima di mangiare riempila tutta la tua cesta”. “Sta’ tranquilla, certo che la riempio”, rispose lei piegando ancora di più la testa tra le ginocchia. Frattanto le altre raccoglitrici erano andate alla baracca, seguite dalla vecchia, e io dissi alla ragazza: “Lasciala perdere, svuota anche tu la cesta nel sacco e va’ a riscaldarti assieme alle altre”. Il sacco si trovava vicino alla cosiddetta Tumba, una torre di vedetta posta ai margini dell’oliveto, da dove nei tempi antichi le sentinelle scrutavano il mare per timore dei corsari. Accanto alla Tumba c’era anche la spelonca che vi ho detto prima. Così l’accompagnai alla Tumba, l’abbracciai e la feci sdraiare per terra. All’inizio faceva la difficile: “No, ti prego, ho paura che ci veda qualcuno…”. Ma ben presto divampò come l’erba secca e non ci fu verso di spegnere l’incendio. Quant’è vero Iddio, una femmina così focosa non mi è più capitato di conoscerla. A partire da quella volta cominciammo a frequentarci soprattutto nei giorni di festa. Lei e la vecchia prendevano un paniere e un coltello, e andavano in campagna a raccogliere l’insalata dirigendosi appunto verso la spelonca. La ragazza vi si fermava con me mentre la vecchia ci reggeva il moccolo e andava in giro a raccogliere l’insalata riempiendo tutte e due le ceste. Io intanto accendevo il fuoco e ammiravo il corpo splendido della ragazza, uno di quei corpi che ne viene fuori uno ogni mille anni. Ricordo che sulla coscia aveva una voglia marrone. Sua madre, mi disse, aveva preso la padella per friggere proprio il giorno di san Simeone e quando se ne accorse era ormai troppo tardi. Così la ragazza era nata con quella voglia sulla coscia che mi faceva impazzire».

A questo punto della storia Bilios, che stava sdraiato sull’erba ad ascoltare Angheletos e aveva affondato nervosamente le dita nel terreno come se volesse scavarlo, senza sollevare la testa domandò con voce soffocata:

«Angheletos, ancora non ci hai detto il nome della tua puttana».

«Si chiamava Stilianula», rispose Angheletos.

Udendo il nome, Bilios balzò in piedi come una furia, con gli occhi iniettati di sangue e la barba piena di fili d’erba. Prese da terra una scure e sferrò un colpo verso la testa di Angheletos.

Angheletos riuscì a evitare il colpo e la scure gli ferì soltanto di striscio la spalla destra. Noialtri allora ci alzammo e bloccammo Bilios, che schiumava di rabbia e si capiva che stava per colpire di nuovo Angheletos. Fummo costretti a legarlo mani e piedi con le corde che usavamo per pulire i fucili. Lui gridava e digrignava i denti come un cane rabbioso. Eravamo esterrefatti, soprattutto Angheletos, che era pallido come un lenzuolo. La ferita gli sanguinava e gli doleva, e un paio di compagni gliela stavano fasciando. Era vivo per miracolo, sarebbe bastato un centimetro e la scure di Bilios gli avrebbe spaccato la testa in due.

«Bilios, sei impazzito? Proprio me volevi uccidere? Me?».

Frattanto a Bilios per la rabbia si erano riempiti gli occhi di lacrime.

«Liberatemi, maledetti, che voglio bergli il sangue a questa canaglia! Liberatemi vi dico!».

Imbruniva. Le tenebre sembravano uscire dal ventre stesso del bosco. Mandai Angheletos all’infermeria da campo più vicino e pregai i compagni di non fare parola dell’episodio al comando della compagnia. Non volevo che un ragazzo buono e onesto come il soldato scelto Bilios fosse deferito alla corte marziale. Bilios era amato di tutti e nessuno ebbe da eccepire. Dopo la partenza di Angheletos, io mi avvicinai a Bilios, lo liberai, lo feci sedere accanto a me dietro un cespuglio di more selvatiche e gli chiesi di promettere che non avrebbe fatto mai più una scenata del genere.

«Non posso, signor caporale», rispose sottovoce, con la testa piegata tra le ginocchia. Intanto si strofinava le braccia indolenzite dalle corde. «Piuttosto chiedimi di mandarmi da solo all’assalto dei bulgari. Angheletos deve morire. Oggi, domani, tra un anno, tra due, non lo so quando. So soltanto che prima o poi lo ucciderò. A meno che… Non sia lui a uccidermi per primo. È l’unico modo per lavare il disonore».

«Almeno promettimi, per il bene che ti voglio, che finché alla compagnia ci sarò io, ti comporterai bene. Sappi che te ne sarò infinitamente riconoscente».

Trascorsero alcuni istanti di silenzio. Si udiva soltanto la voce, profonda e grave, del bosco. Poi Bilios alzò la testa, si tolse l’elmetto e disse sottovoce, con dolcezza:

«Va bene».

Gli appoggiai una mano sulla spalla.

«Me lo giuri sul tuo onore?».

Ne indovinai il sorriso amaro.

«Il punto è proprio questo, caporale. Che io di onore non ne ho più. L’unico modo per ricuperarlo è terminare l’opera che in modo tanto maldestro ho cominciato poco fa…».

Gli strinsi la grossa mano pelosa tra le mie e gli dissi:

«Qualsiasi cosa sia accaduta, ti considero uno dei miei migliori e più cari amici. Oggi ho capito che c’è un cruccio segreto che ti tormenta e da oggi ti voglio ancora più bene. Bilios, voglio che mi consideri sempre come un fratello».

«Grazie…», rispose con voce rotta.

Nel buio sentii una calda lacrima gocciolarmi sulla mano.

In alto, molto in alto, una potente raffica soffiava sopra la nera chioma del bosco, increspata come l’acqua del mare. Le stelle che erano spuntate, giocavano a rimpiattino in mezzo al diuturno movimento degli alberi fronzuti. Il bosco andava a poco a poco colmandosi di notte. Migliaia di insetti sublimi dal dolce riverbero verdastro si intersecavano nel buio come se mani invisibili intrecciassero una rete fiammeggiante sopra un telaio nascosto. Dal cuore del bosco giungeva un brusio prodotto da mille brusii, simile al respiro concitato di milioni di esseri umani o addirittura del mondo intero.

Ci incamminammo verso la trincea, curvi e in silenzio sotto i nostri elmetti di ferro. Quando uscimmo dal bosco, la sua voce ci appariva ormai come il respiro di un mare lontano. Tirammo un sospiro di sollievo. A un tratto non ci sentivamo più incombere sul petto la sua ombra immane e ci parve di essere usciti da un abisso opprimente di angoscia.

Appena tornati alla trincea, corsi a fare rapporto al capitano. Mi promise che non avrebbe preso altro provvedimento se non quello di trasferire a un’altra compagnia, ed eventualmente anche a un altro reggimento, uno dei due commilitoni e amici che nel bosco si erano rivelati acerrimi nemici. La notizia mi riempì di gioia perché in tal modo esisteva la speranza che non si reincontrassero mai più.

Mi ritirai nel mio ricovero e cercai di riposare un po’. Inutilmente. La mente pullulava di pensieri stravaganti che aleggiavano come le lucciole del bosco senza riuscire ad assumere alcuna forma definitiva. Alcuni pensieri spiravano ancor prima di nascere, altri invece avevano un aspetto spaventoso, disgustoso, e mi strisciavano nell’anima come orribili serpi. Continuavo a sentirmi prigioniero della giornata trascorsa nel bosco e del sangue in procinto di essere versato, e tutta quella storia mi appariva un fatto del tutto naturale. Fui colto dal desiderio invincibile di conoscere la storia di Stilianula, la cui luce sinistra era balenata sopra una scura pronta a trasformarsi in uno strumento di morte. Mi sentivo assalire dalla curiosità morbosa di ascoltare la versione dei fatti del soldato scelto Bilios, tanto che, nel cuore della notte, decisi di raggiungere carponi il suo ricovero. Mi presentai con la scusa di consolarlo ma in cuor suo doveva immaginare che in realtà volevo saperne di più, che desideravo placare l’appetito della mia curiosità anche a costo di cibarmi dei brani sanguinolenti di un’anima straziata.

Bilios era ancora nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato quando eravamo tornati, con addosso l’elmetto e le giberne. Non senza un pizzico di ipocrisia, gli chiesi di accompagnarmi al parapetto della trincea. Il settore era immerso nel silenzio, amici e nemici dormivano della grossa sotto il cielo trapunto di stelle, simile a un palazzo con mille finestre illuminate per una festa destinata soltanto alle persone più care. Solo ogni tanto, da lontano, si scorgevano i razzi, gli sfolgoranti fiori delle trincee, spuntare sopra la terra.

Chiesi a Bilios di raccontarmi la sua storia. Feci ricorso a tutte le arti più sottili per aiutarlo a ricordare i dettagli, le parole e i protagonisti della tragedia il cui ultimo atto si era svolto il giorno prima sotto i nostri occhi. A questo poveraccio non rimase altro che aprirmi l’anima come un libro, nelle cui pagine lessi segreti nefasti. Adesso sento di aver placato l’appetito della mia curiosità ma provo anche qualche rimorso perché ho l’impressione di aver frugato di nascosto in un cassetto pieno di carte segrete che non mi appartengono. Ma se non altro sono più tranquillo ed era proprio quello di cui aveva bisogno la mia anima.

Ma torniamo a Bilios, che era nato a Mitilene e aveva conosciuto Stilianula, una profuga originaria di Ayvalık, nell’Asia Minore. Ai tempi lui faceva il fabbro e aveva una bottega molto ben avviata. Stilianula viveva nel suo stesso quartiere, ed era una ragazza molto industriosa e gentile. Lui era rimasto colpito dalla bellezza di lei, tanto che aveva deciso di sposarla anche senza dote. Stilianula però aveva un difetto, del quale peraltro Bilios si era accorto: adorava far perdere la testa agli uomini e d’altronde proprio per questo lui l’aveva sposata in quattro e quattr’otto. Stilianula aveva il diavolo in corpo, aveva assoluta consapevolezza della sua avvenenza e con essa giocava in modo spericolato come con una spada affilata. A peggiorare le cose era il modo di fare della ragazza, la sua aria smarrita e innocente, e lo sguardo ammiccante che sembrava promettere il paradiso, ma in pratica donava soltanto un arido deserto dei sensi. Ciononostante Bilios aveva deciso di sposarla. Sperava così di farla maturare, di domarla, per usare le sue stesse parole. Lui aveva creduto di poterla convincere a smettere di fare gli occhi dolci a tutti i bei ragazzi che incontrava. In fin dei conti, pensava, era abituato a lavorare con il ferro e sarebbe riuscito anche a plasmare il carattere di Stilianula. Fu così che la prese con sé in casa sua. Bilios viveva con la madre, un dolcissimo angelo del focolare com’era nella migliore tradizione di Mitilene.

Stilianula, come abbiamo detto, aveva il diavolo in corpo ma Bilios si sentiva al settimo cielo. Le piaceva molto stare con lei, la prendeva tra le sue braccia nerborute, lei agitava le gambe e insieme scoppiavano a ridere a crepapelle.

Nel 1915 arrivò la lettera di precetto e Bilios dovette partire per la guerra in Macedonia. Il fabbro fu costretto a mettersi lo zaino in spalla con il cuore gravato dai peggiori presentimenti. Temeva, non a torto, la povertà e la civetteria della giovane moglie, che non aveva avuto neppure il tempo di mettere incinta.

Trascorso il primo inverno, Stilianula fu costretta a mettere mano ai risparmi per far fronte alle spese e alla fine dovette mettere in vendita tutti gli utensili della bottega di Bilios.

«Mamma, non ho altro scelta, vado a fare la raccolta delle olive», disse un giorno alla suocera. Quest’ultima cercò di dissuaderla, inutilmente. Ogni giorno che passava le spese aumentavano, i morsi della povertà si facevano sentire e nessun appello alla pazienza e alla cautela trovava terreno fertile in Stilianula. Un giorno la ragazza decise di unirsi a un’anziana compaesana e di andare con lei a fare la raccolta delle olive.

Quando Bilios tornò dal fronte, pieno di felicità e di amore, si accorse subito che c’era qualcosa che non andava. Né la moglie né la madre, per esempio, avevano il coraggio di guardarlo negli occhi. Inoltre il ragazzo aveva notato che la madre e la moglie ogni tanto parlottavano sottovoce, come se avessero dei segreti da condividere, e se lui compariva all’improvviso, loro si interrompevano subito, terrorizzate, oppure si inventavano goffamente delle scuse. Un giorno tuttavia la situazione precipitò. Stilianula aveva gli occhi gonfi di pianto e in casa c’era un’aria sempre più mefitica e irrespirabile. Senza dubbio era accaduto qualcosa di molto grave e nessuna delle due donne aveva il coraggio di parlargliene.

«Volete dirmi che cosa succede una buona volta?», domandava ogni sera Bilios quando tornava, stanco e sudato, dalla nuova bottega in cui aveva trovato lavoro. «O credete che non vi veda bisbigliare i vostri segreti tutto il tempo? Di questo passo mi manderete al manicomio», aggiungeva rivolgendo un’occhiata interrogativa alle due donne.

«Niente, figliolo, non è successo niente, sei tu che da quando sei tornato ti sei messo strane idee in testa», rispondeva ogni volta la vecchia. Stilianula confermava le parole della vecchia ammiccando con i suoi occhi rugiadosi, ed entrambe si sforzavano di sorridere. Ma più che un sorriso, veniva fuori un ghigno orribile. Intanto Bilios continuava a rodersi il fegato nel tentativo di capire quale fosse il segreto delle due donne.

Una sera Bilios rincasò dal lavoro prima del solito e vide una vecchia molto alta, con un cappuccio nero annodato sotto il mento, uscire da casa. Lei si accorse di lui e, per la paura, imboccò in fretta il primo vicoletto svanendo nel nulla.

Bilios fu assalito da un brutto presentimento. Entrò in casa e salì a due a due la scala di legno che scricchiolava in modo sinistro.

«Mamma, chi era la vecchia che ho appena visto uscire da casa nostra?», domandò sforzandosi di non perdere la calma.

«Be’, ecco…», cominciò a balbettare la vecchia. «Si chiama Uraniò, è una vecchia amica della madre di Stilianula, di quando stavano ancora ad Ayvalık. È venuta a trovarla per leggerle i fondi di caffè».

Stilianula, pallida come un lenzuolo, annuì per confermare le parole della suocera.

«Lo sapete che in casa mia non voglio stregonerie», tuonò Bilios sbattendo il pugno sul tavolo. «Ditele che se rimetterà piede qui, il caffè glielo faccio andare di traverso».

Si misero a tavola per la cena. Regnava un silenzio di tomba finché Stilianula, morso il primo boccone, si mise a gridare.

«Ohhh! Mamma, aiuto, mamma!».

Un dolore terribile le straziava lo stomaco e i visceri, e cominciò a vomitare, un vomito che non finiva più. La vecchia, che stave sulle spine, non sapeva che pesci pigliare. Si alzò da tavola, andò in una stanza, poi in un’altra, a un certo punto si mise le mani nei capelli per la disperazione.

«Si può sapere che cosa ti prende?», gridò Bilios.

«La strega, quella strega mi ha avvelenato», rispose Stilianula con gli occhi sgranati per il terrore.

Bilios comprese. L’afferrò per i capelli staccandola quasi da terra, avvicinò al suo il viso stravolto della ragazza, poi lo avvicinò alla lampada appesa alla parete come se in quegli occhi vitrei volesse scoprire la terribile verità.

La fissò a lungo, lo sguardo di Bilios affondò negli occhi di Stilianula come un coltello affilato, finché la verità entrò in lui attraverso quegli occhi pieni di orrore, una verità che lo illuminò e che nel contempo lo arse come una saetta.

«Sgualdrina!», gridò. «Sei una sgualdrina, altro che fondi del caffè, quel brutto ceffo era una mammana!».

Sempre tenendola per i capelli, cominciò a sbatterle la testa contro il muro.

«E mia madre ti reggeva il moccolo mentre io ero mi facevo ammazzare in guerra… Puttana, puttana, puttana!».

«Perdonami… Perdonami… Perdonami…», piagnucolava lei, impossibilitata a muoversi e straziata dalle coliche che la facevano guizzare come un serpente.

«Chi è il padre del bastardo, eh? Da chi è che ti sei fatta montare? Parla, maledetta! Parla… Parla… Baldracca!».

Continuava a tenerla schiacciata contro il muro prendendole a calci il ventre con la punta della scarpa e sbattendole la testa contro la parete.

A un certo punto la ragazza smise di piagnucolare e di opporre resistenza, e si abbandonò a un gemito sommesso e incessante come quello di un bambino. Dalla nuca le scorreva un rivolo di sangue che macchiò di rosso il fresco intonaco bianco finché anche il gemito sommesso non si udì più. Il corpo di Stilianula penzolava come una marionetta, gli arti superiori giacevano accanto al busto, privi di vita, e degli splendidi occhi rugiadosi si vedeva ormai soltanto il bianco del bulbo.

Quando Bilios si rese conto che non aveva più alcun senso sbattere contro il muro quel fagotto senza vita, quel fagotto che era stata la sua Stilianula, si sentì svaporare all’improvviso tutto l’inferno della sua rabbia. Un brivido gli percorse la schiena e un calore inspiegabile gli travolse il corpo, come se qualcuno gli appendesse le viscere a un filo sottile. Lasciò andare i capelli della ragazza, imbrattati di sangue e di sudore, e il corpo scivolò sul pavimento, su un tappetino variopinto. La fronte ampia e brillante della ragazza andò a sbattere sul bordo del caminetto con uno schianto, lo stesso prodotto dal vasellame che va in mille pezzi. Bilios rimase a guardarla. Era costernato, incredulo.

«Assassino, l’hai uccisa! Assassino!», gridò la vecchia madre gettandosi sul corpo immobile. In quel momento Bilios si rese conto che di quella ragazza tanto bella e vanesia era innamorato più di qualsiasi altra cosa al mondo, che senza di lei non poteva vivere e che assieme a Stilianula, si era spenta anche qualsiasi speranza di trascorrere in letizia il resto della sua esistenza. Quel giorno pianse lacrime amare, lacrime che ancora non ha smesso di versare. Di lì a poco anche la vecchia madre morì, con il cuore gonfio di pena. Da allora nel cuore di Bilios alberga una tomba in cui giace morta qualsiasi aspettativa di gioia e davanti alla quale tiene acceso in perpetuo un lucignolo, quello della speranza, un giorno, di poter avere vendetta, che la sua anima ferita anelava di suggere come un pugno di sangue scarlatto. Una vendetta a cui era pronto ad abbandonarsi anima e corpo per assaporarla fino all’ultimo briciolo. Una vendetta in cui intendeva tuffarsi a capofitto come ci si tuffa nel mare. Ed ecco che il colpevole se l’era trovato davanti quando meno se l’aspettava, nella persona di un commilitone con cui condivideva ogni giorno le stesse privazioni e lo stesso cibo. Un commilitone che Bilios, ormai, nella sua coscienza aveva condannato a morte. Perché di una cosa era certo: prima o poi Angheletos sarebbe morto per mano sua.

La clessidra

Contrordine. Quella notte, ci hanno detto, non avremmo scavato la trincea ma dovevamo tenerci pronti alla partenza, in attesa di ricevere ordini. I sergenti furono convocati al comando e quando tornarono ai reparti, la trincea si riempì di mormorii, di ombre fugaci e di parole a mezza bocca.

Ci ordinarono di preparare l’equipaggiamento, di caricarcelo sulle spalle in silenzιο e di riprendere posto nella trincea senza parlare e senza muoverci. Poi giunsero i sottufficiali per trasmetterci il segnale della partenza. Dovevamo stare molto attenti a non far sbattere le gavette e il resto dell’equipaggiamento, e fumare era tassativamente proibito. Ci mettemmo in marcia entro una trincea di raccordo lunga e interminabile. Camminavamo alla cieca dentro un budello contorto come una serpe, che svoltava, si arrampicava, scivolava lungo le pendici della collina prima di prolungarsi nella pianura. La destinazione finale era ignota. L’unica cosa chiara era che ci stavamo avvicinando sempre di più al Monte Pelister.

Sebbene a noi non giungesse neppure un alito di vento, il cielo era agitato e un pallido spicchio di luna giocava a rimpiattino con le nuvole che correvano in senso inverso al nostro, silenti, frettolose, instancabili, e non si fermavano mai a guardare quello che succedeva dietro e sotto di loro. Sembravano in fuga da una terribile minaccia e da una sciagura prossima ad avvenire, o già avvenuta, oltre la linea dell’orizzonte. Anche noi marciavamo concitati, in silenzio e senza porci domande. In certi punti la trincea era così angusta che ci scorticavamo le ginocchia sugli spuntoni aguzzi che sporgevano dalle pareti. A volte qualcuno inciampava e cadeva (il rumore della caduta ci metteva in grande allarme), e allora tutta la linea si arrestava. Nessuno nelle retrovie si domandava il motivo della sosta né quando sarebbe ripresa la marcia. Ciascuno di noi attendeva i movimenti del compagno che lo precedeva per imitarlo. Alle svolte della trincea si vedevano i cartelli bianchi con le sigle A1, A2, A3, A4. Erano i nomi delle strade. Ogni tanto passavamo davanti a un ricovero. In fondo si scorgeva un soldato francese con tanto di pipa. Il puzzo di tabacco e il bagliore della brace giungevano fino a noi. Quando lui si accorgeva finalmente di noi, ci guardava ma senza riuscire a oltrepassare l’alone di luce generato dalla fiamma della candela che gli stravolgeva il volto.

A un certo punto ci fermammo in una trincea detta “viva”, ossia operativa. La nostra compagnia doveva sostituire la compagnia francese. Ricevute le consegne, i colleghi ci fornirono tutte le spiegazioni del caso con calma e pazienza. I francesi e la cortesia, si sa, sono una cosa sola, ma nella loro voce non era difficile cogliere una nota di malcelato sollievo. Sembravano scolaretti all’ultimo giorno di scuola. Era naturale che si sentissero sollevati, stavano per tornare indietro, alla larga dal fronte operativo, e li aspettava un “campo di riposo”. Ci mostrarono le postazioni di artiglieria, le torri di vedetta, le casematte (una cosa orribile) e gli ingressi posti lungo il reticolo di filo spinato, protetti da una specie di porta fatta di punte d’acciaio acuminate, che noi chiamavamo appunto “il riccio”. Infine ci condussero agli alloggiamenti dei soldati. Una volta partiti, stabilimmo i turni di guardia e dormimmo fino al pomeriggio del giorno seguente.

Qui la trincea è molto più profonda e ospitale, tanto che possiamo percorrerla quasi tutta in piedi. Inoltre è una trincea abitata. Ma la cosa più importante è che la maggior parte di noi ha a disposizione un angolo abbastanza riparato e ben tenuto scavato nella terra, in cui riposare. Anche stavolta il mio ricovero, un ricovero davvero strano, lo condivido con mio fratello.

Per raggiungere il mio ricovero occorre scendere quattro scalini di legno al termine dei quali ci si trova di fronte a una tomba oscura in grado di ospitare comodamente soltanto una persona. La tomba in questione è frutto di una paziente opera di scavo condotta dentro una roccia molto dura, che adesso protegge le nostre vite. Qua dentro è così buio che anche in pieno giorno bisogna tenere la candela accesa. Avvicino la fiamma al soffitto della grotta e ovunque scorgo le tracce levigate dello scavo. Penso alle decine di uomini e al tempo occorso per la realizzazione di quest’opera e provo per loro un’affettuosa riconoscenza. Che Dio li protegga, ovunque si trovino in questo momento.

Sul pavimento del nostro rifugio ci sono tre tavole di legno dipinto di verde, probabilmente i resti di un portone. Sopra una tavola ci sono ancora i segni del batacchio. Chissà quante volte è stato bussato dalla gioia della pace prima di essere strappato dall’orrore della guerra…

Sotto le tavole c’è un canale di scolo dell’acqua che scorre dalle polle sotterranee della roccia, le cui pareti sono impregnate di umidità. Nel ricovero ho anche trovato alcuni oggetti utili: il bossolo di un proiettile fissato alla parete che funge da sostegno per la candela che è necessario tenere accesa giorno e notte quaggiù; alcune pasticche di chinino, due scatole di fiammiferi, una cassetta di legno, quattro chiodi e un pacchetto di tabacco da pipa. In cuor mio continuo a ringraziare l’ignoto commilitone che mi ha fatto questo dono. Mi rassetto le coperte, fisso la candela e mi sdraio sul pavimento. Mio fratello, di spalle, è ancora immerso in un sonno profondo, ristoratore. Per il caldo si è tolto la giubba e si è tirato su le maniche della camicia. Il braccio muscoloso, bianco e nudo, si protende accanto a lui. La luce si riverbera sulla lanugine bionda. Vedo pulsare soltanto un’arteria, poco sotto la clavicola. La si potrebbe chiamare il cuore ausiliario del braccio. La candela gli illumina, sul braccio, la cicatrice dell’antivaiolosa, che ho anche io nello stesso punto. Ecco. Mi metto le braccia sotto la testa, chiudo gli occhi e mando all’indietro i ricordi. Litigavo spesso con mio fratello e qualche volta ci azzuffavamo. E mentre galleggio nel flusso dei miei pensieri, l’orecchio coglie per la prima volta, a intervalli regolari, i goccioloni che scivolano in segreto dalle guance scavate della roccia, e che mi cadevano addosso, acqua su acqua, cosicché la roccia appariva una specie di clessidra della vita. Questo rimbombo che proviene da sotto il pavimento comincia a riempirmi di angoscia. Rifletto sul fatto che la Morte sta qui in agguato, nascosta da qualche parte, paziente e sicura del fatto suo. Tiene appoggiato il mento sul pugno e osserva questa clessidra, che calcola la vita mia e di mio fratello. In attesa dell’ultima goccia, dell’ultima molecola d’acqua che suggellerà la fine della nostra esistenza a mo’ di punto fermo. Allora uno di noi due morirà. O forse tutti e due insieme, che è la cosa più probabile.

I nostri poveri vecchi, a Lesbo, lo verranno a sapere soltanto quando riceveranno la “bella lettera” di Balafaras con la medaglia al valore. Nostro padre si sarà appena seduto al caffè della piazza, sotto la pergola di alloro, al termine di una lunga e faticosa giornata tra i campi. Si è seduto nel suo angolo preferito, vicino all’acacia, per godersi il suo idromele e sorseggiare sereno il caffè. Ma ecco Barbadimitris fare capolino nella piazza con il borsone a tracolla e trascinandosi dietro il somarello. I presenti lo accolgono con calore e lui lega la cavezza a un anello di ferro. Si fruga nel borsone, ne tira fuori una busta e va a consegnarla a mio padre. «Barbatheòdoros, questa è per te», gli dice porgendogli la busta. «Sarà una lettera dei miei figli, che Dio li benedica!», risponde lui sorridendo di felicità e prendendo la busta tra le mani frementi di impazienza. «Però», dice mio padre sorridendo e mettendosi a palpeggiare la busta con le mani nodose. La busta è coperta di bolli rossi di ceralacca e grandi sigilli rotondi della divisione. «Però», ripete mio padre. È il suo intercalare preferito. Poi offre da bere a Barbadimitris e agli altri compaesani, che si congratulano con lui per il ritorno dei figli dal fronte.

La stessa cosa accadde nel 1912, durante le guerre balcaniche. Avevo abbandonato la scuola per arruolarmi come volontario. I bulgari mi avevano ferito a una gamba. Ero in ospedale, a Salonicco, e gli scrissi che ero stato ferito. Mio padre scoppiò a piangere e disse al cameriere asciugandosi gli occhi con quel suo fazzoletto azzurro: «Mio figlio è stato ferito, versa da bere a tutti quanti».

Sotto le palpebre abbassate cominciarono a scorrermi le immagini di tutto quello che sarebbe accaduto se in casa mia fosse arrivata una delle “belle lettere” di Balafaras con la notizia della morte mia e di mio fratello. Erano immagini molto vivide, perfette in ogni dettaglio, al punto che mi sembravano eventi reali più che fantasticherie. A imporsi era soprattutto l’immagine di mia madre, straziata dal dolore. (Per strano che sia, te non sono mai riuscito a immaginarti sconvolta dal dolore per la mia scomparsa.) Mi sento nelle orecchie il grido inconsolabile di mia madre che mi chiama, la vedo dimenarsi straziata dalla sofferenza. La vedo sollevare le braccia, scandire il nostro nome, modulare il tono della voce, sospesa tra il cordoglio e il rammarico. Poi la vedo cercare gli abitini che portavamo da bambini, stringerseli al viso, graffiarsi le guance per la disperazione e cantarci la nostra ninna-nanna preferita.

Se una cosa del genere accadesse, di noi rimarrebbe soltanto un mucchio di carne sanguinolenta dentro una tenda, con i capelli imbrattati di sangue e incollati alla roccia. Mentre le nostre dita… Quando ci penso, mi sento il cuore gonfiarsi di rammarico, provo una pena insopportabile e un’amarezza infinita per la mamma, tanto che dagli occhi cominciano a sgorgarmi le lacrime e piango, piango, mentre la voce di lei mi rimbomba nelle orecchie, tra i singhiozzi. Questo pianto è per me una liberazione, un’amara, singolare voluttà. Mi siedo a gambe incrociate, raddrizzo la schiena e mi abbandono al piacere del compianto. Le lacrime mi scorrono tra i peli della barba e me le sento gocciolare sulla pelle del braccio, da dentro la manica.

Mio fratello apre gli occhi, solleva il busto, spaventato, e avvicina il viso al mio.

«Che cosa c’è? Perché piangi?».

Allora mi rendo finalmente conto di offrire uno spettacolo ridicolo.

«Niente, niente», rispondo io sorridendo di vergogna per quelle lacrime nate da un parto della mia fantasia. «Ho fatto un brutto sogno e mi sono svegliato piangendo».

«Anche a me è successo qualche volta», commenta lui prendendo una sigaretta.

Io tiro fuori uno dei fiammiferi che ho trovato e provo ad accenderlo, senza riuscirci. Ne tiro fuori un altro, e poi un altro e un altro ancora. Niente da fare. L’umidità li ha resi inutilizzabili. Ormai sono da buttar via. Lui la sigaretta se l’accende con la candela e la luce gli getta intorno al volto un alone dorato che gli incendia la folta chioma di seta. Gli prendo la mano e comincio ad accarezzargliela. Anche se mio fratello è più giovane di me, le mie mani rispetto alle sue sembrano bianche, magre, morbide e affusolate come quelle di una ragazzina. Mi sono sempre vergognato delle mie mani.

Il silenzio è assoluto. Lo vedo sputare il tabacco. A un tratto sotto di noi sento cadere una goccia d’acqua. Pluf!

«Fratellino», gli dico. «Lo sai che dobbiamo separarci per quanto riguarda il giaciglio e la mensa?».

«Lo so che questo ricovero ti opprime», risponde lui. «È anche colpa mia, che quando mi sdraio, occupo quasi tutto lo spazio. Ma sappi che un ricovero altrettanto solido e ospitale qui nella trincea non riuscirai a trovarlo. So quello che dico, li ho visti tutti».

Vorrei rispondergli che non è questione di ricoveri e che se potessi vorrei cambiare compagnia, addirittura reggimento, per evitare di essere insieme il giorno in cui cadrà l’ultima goccia della clessidra. Ma mi trattengo, non ho il coraggio di dirglielo. Penso ancora alla mamma e mi sento montare dentro una nuova ondata di commozione.

Sì, lo so. Non sono altro che un ridicolo visionario, alla mercè dei miei fantasmi.

 

Gli asceti della lascivia

Qualche giorno fa mentre frugavo le pareti del ricovero, dietro una pietra ho scoperto un foro che sembra quasi un armadietto. Dentro vi ho trovato due sigari, del chinino (quanto chinino c’è da queste parti!) e un libriccino francese. Con quanta trepidazione l’ho preso in mano!

Erano mesi che non vedevo un libro. Più che un libro era un opuscolo pornografico, di quelli che vanno per la maggiore tra gli adolescenti, e in cui con il pretesto della divulgazione scientifica vengono descritte le peggiori perversioni dell’istinto sessuale. Questo opuscolo mi ha fatto pensare che anche per i soldati francesi, come per noi e per quelli di tutto il resto del mondo, le fantasie erotiche sono il modo migliore per ammazzare il tempo in trincea. Stiamo parlando di milioni di giovani maschi, lerci, con la barba lunga e tormentati dai parassiti, che parlano di donne dentro la tomba in cui sono stati seppelliti vivi!

Il ritrovamento di questo opuscolo mi ha fatto fare i salti di gioia ma mi ha anche riempito di vergogna. Ciononostante dal momento in cui l’ho trovato, non faccio altro che leggerlo e rileggerlo, e più lo leggo, più sento il bisogno di rileggerlo. All’inizio ridacchiavo da solo. Mi dicevo che era soltanto un libro. I libri sono pensieri oggettivati mediante la stampa e la mia anima aveva un bisogno disperato di un po’ di parola scritta. Adesso però mi rendo chiaramente conto che a fare i salti di gioia nell’acciuffare al volo quest’osso marcio lanciato dal caso, che mi sono messo a leccare come la più squisita delle prelibatezze, non era la fame di libri ma bensì la fame di “carne femminile”, che i discorsi scurrili rinfocolavano senza sosta. L’istinto indomabile che, appena trovato un cantuccio in cui acquattarsi, veniva stanato da una fantasia scatenata e tornava a bruciare lanciando intorno faville corrusche. In altre parole, a tormentarmi era una passione che più cercavo di soffocarla e più quella si accresceva divorandomi le carni. Gli ufficiali e persino i sottufficiali, quelli che si recano in visita ai ricoveri del settore francese sulla collina accanto, hanno portato un mucchio di disegni colorati provenienti da riviste parigine e li hanno attaccati alle pareti dei rispettivi rifugi per renderli più ospitali. Prima di domire, prima di desinare, e ogni volta che si svegliano, si segnano tra il serio e il faceto, poi si mettono a baciare con lascivia i seni, le gambe e il ventre delle donne nude disegnate sulla carta. Mentre questo accade, di solito tengono gli occhi chiusi per la voluttà. Quante volte anch’io ho fatto ricorso a mille pretesti pur di recarmi al ricovero del sergente con la segreta intenzione di occhieggiare di nascosto i disegni delle donne nude.

Tutti noi strisciamo sulla terra come serpenti, il volto deformato dallo spasmo del piacere e del dolore, sovrastati dall’ombra della morte. Tutti la sentiamo incombere sopra le trincee, invisibile, nell’aria che respiriamo e che ci entra dentro i polmoni. Tutti noi siamo posti sotto il suo dominio, viviamo nel suo regno per sua gentile concessione, e tutti sappiamo che in qualsiasi momento potrà insufflare nelle nostre celle sotterranee il suo alito ghiacciato. Allora a tutti questi corpi giovanili, snelli, travolti dalla furia di eros, non rimarrà altro che giacere immobili, freddi e privi di vita, mettendosi “sull’attenti” in quel modo ultimativo che assume un corpo al cospetto della fine. Le dita non si piegheranno più, le mandibole non si chiuderanno più e gli occhi non vedranno più. E anche i desideri svaniranno, dal primo all’ultimo…

 

Il rampicante della guerra

I giorni che scorrono sempre uguali riescono quasi a convincerci che la nostra sia la migliore di tutte le vite possibili. L’incessante ripetizione degli stessi gesti contiene in sé la sostanza di una disperante e immobile eternità. Una situazione che potrebbe durare anni. Non è neppure escluso che la vecchiaia e quindi la morte ci colgano prima che finisca l’attesa. L’attesa di che cosa, poi? Di quello che ciascuno attende quando lancia occhiate fugaci nel vento e si stringe nervosamente nelle spalle. La granata che ne conterrà il destino. Un paio di giorni fa una granata è caduta appunto sopra un ricovero provocandone il crollo. Due soldati sono riusciti a liberarsi del mucchio di terra e di pietrisco mentre un terzo è rimasto ucciso da una trave che gli ha fracassato il cranio. Per fortuna il nostro ricovero è capace di resistere persino ai grossi calibri, me lo ha detto il francese che ispeziona il settore. Nondimeno ogni molecola del corpo, ogni fibra, non fa che vegliare e attendere di continuo. Anche durante il sonno, basta sentir rotolare una gavetta per scattare in piedi obbedendo a un allarme interiore. “Attenzione!”. Dal che si deduce che il corpo, diffidente, sta sempre allerta, che tiene sempre l’orecchio teso e veglia anche durante il riposo dello spirito. È qualcosa che agli uomini può far perdere il lume della ragione.

Infilati nel nostro rifugio, teniamo la candela accesa tutto il giorno per poterci vedere l’un l’altro. Il vento è umido, appiccicaticcio, si fa fatica a respirare. Il buio è sudicio e puzzolente di muffa. Il soffitto del ricovero è basso e non ci consente di stare comodi. È costellato da acuminati spuntoni di roccia coperti di viscido muschio, simile a rame ossidato, che minacciano continuamente di ferirci la testa. Per questo non ci togliamo mai l’elmetto di ferro. Fuori invece splende il sole di luglio che avviluppa gli esseri umani nel suo bagliore sfolgorante e fa sfrigolare la terra. Quando fa così caldo a Lesbo si vedono i pesci saltar fuori dall’acqua, tutti allegri, simili a lame d’argento che una mano invisibile tira fuori e poi lascia cadere di nuovo nell’acqua.

Mi domando che fine abbia fatto il nostro entusiasmo di un tempo. Sarà morto di noia o forse è stato ucciso dallo scudiscio di Costantino Paleologo? Una volta qualcuno ebbe a dire: «L’entusiasmo somiglia alle ostriche, che sono buone soltanto se sono fresche». Aveva ragione. L’entusiasmo è lo stimolo, la forza motrice. Indispensabile per far girare la ruota. Dopodiché… Dopodiché al suo posto subentra la Necessità, che si mette a colpire a destra e a manca con lo scudiscio. Il punto è che noi greci, in un mondo in cui la guerra è diventata una professione, non abbiamo ancora imparato a combattere senza entusiasmo. Qui bisogna scavare, collocare il filo spinato e aspettare le granate. Così scaviamo e collochiamo il filo spinato, migliaia di rocchetti appuntiti. Colline intere. Lavoriamo di notte, migliaia di soldati lavorano ogni notte per cingere di filo spinato le colline, le montagne e le pianure sconfinate.

Il filo spinato è un arbusto selvatico nato dalla guerra, che ha avvolto tutto il mondo. Esso è un’erba metallica, un rampicante privo di fogliame ma fornito di denti e di unghie, che per crescere ha bisogno di essere irrigato col sangue. Esso cresce soltanto di notte e avvolge tutta la Terra come una corona di spine. Laddove germoglia il filo spinato, i fiori appassiscono, gli alberi perdono le foglie, i meli coperti di boccioli avvizziscono e i meligrani ingialliscono. Al posto loro mettono radici le spine, che dominano il territorio dissodando i campi e i cuori. E tutti noi, migliaia, milioni di operai, scaviamo tutta la notte e versiamo il sangue del nostro cuore, per irrigare il filo spinato, farlo prosperare e far sì che getti nuovi germogli, tutti costellati di unghie e di denti.

Lo so che tutto questo sembra incredibile. Eppure è la verità.

La pura verità.

 

L’attesa della morte

Da ieri il volto dei soldati si è incupito. Nessuno guarda più negli occhi nessuno, e tutti, nascosti nelle rispettive tane, mezzo nudi e sporchi più che mai, parlottano con un’aria patetica di cospirazione. Tutti bisbigliano con le dita affondate nel terreno e le palpebre coperte di polvere rivolte al suolo. Ma appena si avvicina un graduato, essi cambiano subito discorso oppure si chiudono in uno sdegnoso silenzio. L’anima afflitta si acquatta nel cuore smarrito per spiare il mondo attraverso gli occhi, simili a due finestrelle con i vetri appannati. Ma lo sguardo è carico di diffidenza, quasi di ostilità. Che cosa è accaduto? Che cosa ha gettato in una tale frustrazione la disgraziata accolita dei soldati in trincea? Un plotone inviato in missione a Monastir non è più tornato indietro. Era composto da otto uomini più il caporale. Si sono dati alla macchia e sono scappati nella Grecia meridionale, dove i sostenitori della monarchia accolgono con tutti i riguardi i disertori consentendo loro di rientrare liberamente nella vita borghese. Basta raggiungere la parte di Paese controllata dai fedelissimi del re.

Questo è il primo caso di diserzione e per i soldati è un duro colpo. Continuano a parlarne, a discuterne, a esaminare i vari aspetti della questione, a valutarne i pro e i contro. Non ne odo i discorsi ma riesco a immaginarne i pensieri e le opinioni. Pur nutrendo stima nei miei confronti so che in mia presenza non possono far altro che stare sulle loro sia a causa del mio grado sia perché mio fratello, che è sottufficiale e fanaticamente attaccato alla religione della patria, non esiterebbe a sacrificare la nostra parentela in nome della lealtà all’esercito.

Michalis Gigantis mi invitò con un cenno a raggiungerlo nel suo ricovero.

Forse ti ricordi di lui. È quel ragazzo molto pallido e magro che abitava in una camera in affitto presso la signora Therapia, di fronte alla casa di tua sorella. Era impiegato alla Banca Nazionale e se non sbaglio devo averti parlato di alcune sue poesie piene di compassato sarcasmo pubblicate sui giornali di Mitilene. A dispetto del nome, Gigantis è sempre stata la classica mezza cartuccia, come dicono i soldati. Adesso è dimagrito ancora di più. In testa ha una folta zazzera nera che sembra nutrirsi della linfa del suo corpo tutto pelle e ossa. Anche così tuttavia continua a essere un bel ragazzo, con la pelle bianca e lucente e un paio di splendidi occhi scuri, pieni di un’affranta costernazione. Ma la cosa più bella sono le mani, degne di una madamigella del romanticismo. Le mani di Michalis sono esili, bianche e sempre molto curate. Come faccia a prendersene cura qui in trincea per me resta un mistero. Quando eravamo ancora a Lesbo lo conoscevo soltanto di vista, qui al fronte invece siamo diventati molto amici. Michalis è un ragazzo molto simpatico, eccentrico e orgoglioso, ricco di fantasia ma anche assai apatico. Quando posso non manco mai di fare una capatina nel suo ricovero. Lui invece non viene mai nel mio a causa di mio fratello. Io e lui siamo come il giorno e la notte, ciononostante le mie ore più spensierate sono quelle che trascorro con lui.

Essendo incapace di realizzare qualsiasi cosa richieda un minimo di sforzo, il suo rifugio non è altro che una fenditura nel terreno, stretta e lunga come una tomba. Sopra vi ha steso la tenda e vi si è infilato sotto. Tutto qui. Quasi tutto il giorno lo trascorre appisolato in quella tomba che a malapena gli consente di sdraiarsi. Di solito è sdraiato supino e fuma senza sosta una grossa pipa francese con lo sguardo fisso sulla tenda in attesa della morte. Il fumo esce dalle fessure della tenda simile a volute d’incenso. Devo dire che il suo fatalismo a volte mi fa rabbia.

«Scusa, ma non potevi scavarti un rifugio vero come tutti gli altri?», gli dico.

«Ci ho provato», risponde. «Anzi, quando sono arrivato, ne ho trovato uno già pronto ma poi due soldati grandi e grossi mi hanno detto che l’avevano occupato loro, mi hanno dato un pugno in faccia e mi hanno cacciato in malo modo. Ma non m’importa, se proprio dobbiamo morire, meglio morire per la Grecia che per chiunque altro».

«Non hai paura a stare sotto questa tenda?».

«Certo che ho paura», risponde. Poi, dopo qualche minuto di silenzio, si toglie lentamente la pipa dalla bocca e mi guarda con i suoi occhi scuri e inquieti. Infine aggiunge lentamente, come se si trattasse di una verità assoluta:

«Sai, è solo questione di abitudine. Lo so che devo morire, lo so che prima o poi una bomba mi scoppierà proprio qui, sopra la testa o che il pilota di qualche bombardiere deciderà di giocare a tiro a segno con la mia tenda. Per non parlare di uno scenario ancora peggiore. Per esempio mi potrebbero lanciare una saetta. Una mattina all’alba mentre tornavo qui ho visto trasportare dei soldati francesi con la schiena e la nuca trafitte dalle saette. Li hai visti, tu?».

«No, è la prima volta che ne sento parlare».

«Io li ho visti con i miei occhi e ti dico che è uno spettacolo che atterrisce più della morte. Le saette sono dardi d’acciaio. Gli aviatori tedeschi le scoccano dall’alto ed esse vanno a conficcarsi con violenza inaudita nella schiena o nel cranio dei soldati, che così vengono infilzati come porchette allo spiedo. Ecco, questa è la mia paura più grande, morire con uno spiedo conficcato nel cranio o nella schiena…».

Tira fuori la pipa, la riempie di tabacco e riprende:

«Anche le schegge sono terribili. A volte le granate scoppiano a cento metri di distanza e le schegge arrivano fin qui. Quando passano, fanno zziiinnnn, sembra un vibrato di chitarra, e si conficcano nel terreno. Lo so che prima o poi una di queste schegge di ferro mi cadrà sulla tenda e mi staccherà la testa dal collo, e allora tutto sarà finito. Lo so talmente bene che ho smesso persino di avere paura».

«Hai smesso di avere paura?».

«Sì. All’inizio me la facevo letteralmente sotto, sentivo lo scoppio delle granate o il rombo degli aeroplani e mi veniva la pelle d’oca, cominciavo a battere i denti per il terrore e tremavo come una foglia. Crampi terribili mi straziavano la pancia e lungo la spina dorsale mi sentivo percorrere da un brivido. Per reazione allora chiudevo forte gli occhi, mi nascondevo la testa tra le braccia e cercavo di rinchiudermi il più possibile in me stesso. Ricordi i tre vestiti di Cenerentola che stavano dentro tre nocciole? Ecco, in quei momenti anch’io mi nascondevo in una nocciola grande così sperando di sottrarmi alle minacce del mondo. Ciononostante avevo sempre l’impressione di occupare un sacco di spazio e morivo d’invidia al pensiero che le formiche riescono a stare in un forellino grande quanto una capocchia di spillo. Questo è successo una, due, tre, cinque, dieci, cento volte, finché… piano piano ci ho fatto l’abitudine. Adesso la morte mi passa sopra la tenda e fugge via. Mi sembra che non voglia farsela con qualcuno che si è praticamente trasformato in un insetto e che si acquatta nel terreno come un millepiedi terrorizzato. O forse è perché il mio rifugio assomiglia a una tomba già occupata. Ecco perché ho smesso di avere paura. So che un giorno la morte verrà a trovarmi ed entrerà da me come un ospite maleducato che entra senza bussare».

«Con questo telone semitrasparente non c’è da stupirsi», osservo io. «Quello che mi sorprende è che nonostante la desolazione che ci circonda, tu te ne stai qui tranquillo sotto la tua tenda a discettare di vita e di morte. Ma forse fai bene a non preoccuparti troppo, in fin dei conti in guerra la morte è un evento molto più presente che in tempo di pace».

Lui mi guarda negli occhi e riprende con la sorpresa nella voce e nello sguardo:

«Forse non mi sono spiegato. Non ti racconto queste cose per farmi consolare da te, io lo so che Lesbo non la rivedrò mai più, anzi, sono sicuro e arcisicuro di appartenere alla schiera dei condannati. Sono pronto a morire, sono pronto da tutti i punti di vista, la morte l’aspetto da un momento all’altro, e ogni giorno che passa lo considero un giorno guadagnato, per cui…».

«Per cui?».

«Ecco, a volte penso che al punto in cui siamo, tanto vale farla finita il prima possibile. Sai, io non sono nato per fare l’eroe. Qui in trincea tutto quello che ho sono i pidocchi che mi divorano e i miei piedi puzzolenti, per non parlare della fame, della sporcizia, della noia e della solitudine, la cosa più insopportabile di tutte. Così a volte penso che ci penseranno loro a uccidermi ancor prima delle granate. Guarda, ho praticamente smesso di nutrirmi, sono ridotto pelle e ossa. Sono tre giorni che mangio soltanto una fetta di pane con sopra un po’ di zucchero e caffè. Oggi però ho vomitato anche questa, il mio stomaco non tollera più niente. Ho soltanto un’arsura implacabile, mi berrei come niente una cisterna intera d’acqua fresca, anzi, vorrei tuffarmici dentro. Quando chiudo gli occhi e mi addormento, sogno subito fontane, pozzi, polle e sorgenti. E un mare lucido e trasparente, così trasparente che somiglia al soffio del vento, con tante alghe azzurre sul fondale».

La sua voce assume una tonalità calda, appassionata, fremente di commosso entusiasmo. Gli occhi gli si velano di lacrime.

Mentre parla, solleva un braccio e spalanca la mano. Un fascio di luce penetra attraverso l’apertura della tenda illuminandogli la mano delicata con le unghie lunghe e curate. Con sorpresa mi accorgo che i raggi attraversano la palma sottile, simile a una velina rosa. Anche se non lo sa, questo ragazzo è consumato da una febbre segreta. Temo quasi che abbia la tisi. Anche le sue orecchie sono sottili e trasparenti come una cartina da sigaretta rosa. Mi assale una tristezza incredibile.

Lui ricomincia a sproloquiare.

«Questa vita mi fa orrore. La notte, quando esco per servizio, le ginocchia mi si piegano come se fossero uno straccio e la vista mi si appanna. Barcollo come un ubriaco e a volte inciampo e cado a peso morto per terra».

«Perché non marchi visita?».

«Vorrai scherzare. E se poi il medico dice che non ho niente? Come faccio a tornare indietro e ad affrontare lo scherno di quelli che diranno che ho marcato visita per vigliaccheria? No, meglio morire di paura che sotto il peso del ridicolo. Ovviamente queste cose le dico soltanto a te, è un modo per sgravarmi dal peso dei brutti pensieri. La notte, quando mi mandano di ronda o al posto di ascolto oltre il reticolato, ho una fifa terribile. Ma nessun sottufficiale o ufficiale di servizio dovrà mai saperlo. Quante volte cerco di farmi un po’ di coraggio, di non sobbalzare per la paura al primo scricchiolìo che sento. Oppure mi sforzo di confortare il mio cuore, che mi sembra che si fermi ogni volta che, mentre sono in giro di notte, alle mie spalle sento frusciare un cespuglio, ululare uno sciacallo o rotolare un sassolino».

«Ma questa sensazione di paura la proviamo più o meno tutti…», protesto io.

«Sì, ma sono sicuro che nel mio caso è diverso. Quando mi sento un razzo esplodere all’improvviso sopra la testa, ho la sensazione che la sua luce bianca mi cada addosso come l’acqua gelida. Sento la luce spietata ferirmi la pelle. Allora vorrei tapparmi le orecchie, chiudere gli occhi, la bocca e il naso, anche i pori se fosse possibile, per non sentirmi travolgere da questo bagliore al calor bianco. Intanto il cuore si mette a battere forte e mi sembra di morire in attesa che torni il buio, a sua volta pieno di minacce occulte. Persino delle nostre sentinelle ho paura quando ne scorgo la sagoma immobile nel buio, con il fucile carico e il dito nell’anello della bomba a mano. Lo so che sono i nostri commilitoni, sono i nostri, ripeto in cuor mio. Com’è possibile non riconoscere Zacharìu e Zurelis? Niente da fare, provo una paura che non riesco a controllare e penso che la morte sarebbe un rimedio per sottrarsi a questo inferno. Vedrai, per me è soltanto questione di tempo. Ormai ne ho la certezza. Ma adesso sono pronto. E per il resto, accada quel che accada…».

Si può facilmente immaginare il martirio di questo ragazzo, uno dei più infelici tra quanti vivono “all’ombra della morte”.

Del resto in questo ambiente innaturale in cui la vita ci si manifesta soltanto mediante le forze dell’istinto e del fatale, non è difficile sprofondare nel gorgo delle ossessioni. Persino io ho quasi finito col credere che Gigantis sia davvero in procinto di morire! Ogni volta che sento un’esplosione dal mio ricovero di roccia, mi sento quasi in colpa per il fatto che è tanto robusto e subito la mente corre terrorizzata al mio povero compagno. E quando brancico carponi per infilarmi in quella sua specie di fossa, mi batte forte il cuore nel timore di trovarlo morto stecchito. Già mi vedo quei suoi grandi occhioni sbarrati in direzione della tenda, persi nell’immensità di laghi oscuri, bisbigliarmi sottovoce:

«Amico, lo vedi che avevo ragione? La morte è venuta a prendermi».

Ma per fortuna lo trovo sempre vivo e il mio cuore si rasserena. A volte prima di di sgattaiolare nel suo budello, infilo un braccio nel pertugio della tenda e frugo a tentoni.

«Allora non sei ancora morto», dico tra il serio e il faceto sforzandomi di ridere appena le mie dita percepiscono il calore del suo corpo. Lui allora ribatte in tono ironico, con la sua voce posata e sarcastica:

«Coraggio, signor caporale, entra dentro, non aver paura. Neanche oggi vi ho abbandonato!».

Sguscio attraverso il pertugio e striscio accanto a lui. Sono davvero strane queste visite. Chiacchieriamo rintanati dentro il crepaccio con il viso quasi incollato l’uno all’altro.

«Ecco, questo è appunto quello che i francesi chiamano un tête a tête», commenta.

In questi momenti non siamo granché diversi da due serpenti nascosti sottoterra con i corpi intrecciati. Ieri ho scavato tutto il giorno per ricavare un po’ di spazio e stare un po’ più comodo anch’io. Si tratta di una manovra pericolosa: raddoppiare la superficie della fossa significa raddoppiare anche le probabilità che una granata del nemico centri in pieno il bersaglio.

«Non è molto saggio da parte tua abbandonare i tuoi agi e venire qui a rischiare la vita con me», osserva con affettuosa ironia.

«Hai paura che la morte, quando verrà, ti trovi in compagnia?».

Mi rivolge uno sguardo affettuoso, in silenzio.

«Niente paura, ho qui il mio portafortuna», dico ancora io. «Nessuno può farmi del male, sono meglio di Balafaras, io».

Sorride di nuovo e mi domanda:

«Ci scommetto che è un pezzo della Santa Croce e che è stata tua madre a dartelo la sera in cui ci siamo imbarcati. E assieme alla croce ti ha sicuramente dato anche un sacco di baci roventi e salati di lacrime, e molti altri buoni consigli del tipo: “Figliolo, sta’ attento a non buscarti un raffreddore”! Mio caro, conservalo con tutto l’amore di cui sei capace. Non certo perché possa salvarti davvero la vita ma perché oggetti come questo leniscono la solitudine dell’anima. Nei momenti difficili, accanto a lei c’è un pegno d’affetto a confortarla e a sorreggerla. Dai retta a me, che la mamma non l’ho mai avuta…».

Le ciglia brune vibrano per trattenere una lacrima in procinto di cadere. È la prima volta che accenna alla sua vita privata. Allora prendo il fagottino di carta, lo svolgo e ne tiro fuori il medaglione d’oro che mi regalasti per l’onomastico. Lo apro e ne tiro fuori la ciocca dei tuoi capelli, legata ancora con i fili ritorti bianchi e rossi del braccialetto che mi inviasti la prima estate che ci siamo conosciuti.

«Ah, una ragazza!», dice sorridendo. «Dunque c’è una ragazza che ti ama e che tu ami».

«Sì, ho intenzione di sposarmi», rispondo.

«Complimenti. L’amore di una donna è una cosa ancora più seria dell’amore materno perché è un amore proiettato verso il futuro e in esso sono racchiusi i germi della creazione. L’amore materno invece è rivolto al passato. Ma è proprio per questo che non ti saresti mai dovuto arruolare nell’esercito. Il tuo è stato un grave errore».

«Amico, sta’ certo che se ho scelto di arruolarmi non è per morire», rispondo. «Sono assolutamente sicuro di tornare a Lesbo, di sposarmi e di mettere al mondo un mucchio di bambini. Piuttosto dimmi di te. Possibile che non ti sei mai imbattuto in un paio d’occhi capaci di insegnarti il valore della vita? A me sembra che Dio abbiamo il dovere di benedirlo e che la vita ce la dobbiamo godere con foga soltanto per il fatto che ha creato la donna».

«Con foga! Dici bene, tu, tu sulla vita hai il diritto di avanzare qualsiasi pretesa. Io invece non ho mai avuto la gioia di conoscere una donna tale da convincermi al grande passo del matrimonio, come è successo a te. Per quanto mi riguarda, il mio approccio con le donne è sempre stato carnivoro. È questione di fortuna. Ma mi piacerebbe sperimentare una bella sorpresa il giorno in cui dovessi conoscere una donna da amare non soltanto per il suo corpo».

«Sì. Ricordati che per ogni spada c’è un fodero e che per ogni uomo c’è una donna che lo aspetta».

 

Oggi Gigantis mi sembra diverso. Sotto la pelle diafana arde un fervore misterioso e gli occhi mi scrutano con ansia. Ha avvicinato il suo viso al mio, quasi a sfiorarlo, tanto che mi sono sentito sulla guancia il calore del suo respiro. Mi ha rivolto uno sguardo febbrile e mi ha preso un braccio.

«Ascolta», mi dice senza perdere tempo. «Voglio confidarti una cosa importante. Ieri ho visto alcuni compagni e dopo aver discusso a lungo sono giunto a una decisione. Che voglio andarmene. La fuga è fissata per domani, con una squadra che partirà per il rifornimento di viveri. È tutto pronto, anche la guida che ci condurrà attraverso le vie più impervie per riportarci nella Grecia meridionale. Abbiamo trovato una cartina abbastanza dettagliata».

Sono rimasto a bocca aperta.

«Hai deciso di disertare…».

«È da amico che ti ho parlato e tu mi rispondi come caporale. Comunque sì, quello che sto per fare puoi anche chiamarla diserzione. Il punto è che io voglio vivere, ma vivere davvero, come l’erba sotto la volta del cielo o come gli insetti. Credo di averne il diritto, anzi, puoi considerarlo il supremo dei doveri. Voglio vivere come tutte le altre creature e a suo tempo morire in modo sereno e naturale. Con il corpo pulito e le guance rasate. Senza essere divorato dai pidocchi. E morire una volta sola. Perché in questo posto di merda invece si muore mille volte al giorno. La mia anima, il mio corpo e la mia mente si ribellano, hanno deciso che non ne possono più. In ogni caso si tratta di una decisione irrevocabile», risponde infervorato.

«Se hai deciso, fa’ quello che ti pare. Non hai considerato però che disertare significa affrontare un’operazione militare in piena regola che avrà inizio qui in Serbia e si concluderà soltanto all’altezza del Monte Olimpo. Significa ingaggiare una serie di battaglie estenuanti e subire un’incessante e spietata caccia all’uomo, con il coinvolgimento di plotoni, gendarmi, partigiani, truppe speciali di montagna nostre e degli alleati. In altre parole stiamo parlando di una battuta di caccia con tanto di cani. Ma soprattutto stiamo parlando di un coraggio da leoni. Quelli che scelgono la diserzione sono perlopiù contadini abituati alla vita stentata dei campi, che l’istinto di sopravvivenza e la viltà spinge a compiere le gesta più audaci trasformandoli in eroi. La diserzione equivale alla salvezza se non del corpo, almeno dell’anima».

Gigantis nel frattempo ha abbassato gli occhi. Le guance scavate si sono colorate di rosso.

«Ti auguro buona fortuna», aggiungo.

Lo bacio in segno di congedo e lui mi guarda di sottecchi per capire quanto sono sincero.

Non ho detto niente a nessuno ma avevo la coscienza tranquilla. Gigantis non avrebbe disertato, ne ero certo.

Così è stato. Quando si è diffusa la notizia che la squadra addetta al rifornimento di viveri non era tornata, tra i nomi dei disertori quello di Gigantis non c’era.

Povero, debole cuore! Credo che passerà qualche giorno prima che andrò di nuovo a trovarlo nel suo rifugio. In caso contrario mi sembrerebbe di umiliarlo.

 

Dodicimila anime

Ti ricordi di Costantino Paleologo? Ebbene, stamattina in trincea è venuto un caporale della sesta compagnia che ce ne ha raccontate delle belle sul conto del signor capitano.

La loro compagnia si era accampata dietro le colline, nel burrone dove era stata allestita anche la cucina da campo. Per essere meno esposto agli attacchi dell’aviazione tedesca, Paleologo aveva piantato la sua tenda in un angolo appartato, lontano dall’accampamento principale. Trascorreva tutto il giorno a scrutare il cielo con il binocolo alla ricerca di aeroplani colorati che sorvolassero le linee difensive. Invece adesso che anche la sesta compagnia si è trasferita nella trincea, si è stabilito in un bel ricovero di solida roccia e da lì non si è mosso più, e il suo attendente, dicono i soldati, fa la spola avanti e indietro per procurargli scatolette di cibo pronto. All’inizio, increduli di fronte a tanta voracità, tutti hanno creduto che fosse stata l’aria della trincea a mettere tanto appetito al capitano. In seguito però si è sparsa la voce che Costantino Paleologo quelle scatolette le usasse per cacarci e che per la paura delle granate non avesse neppure il coraggio di raggiungere la latrina della trincea.

Anche Balafaras è sempre lo stesso. A riassumerne il carattere è stato un sottufficiale francese che ha trascorso un mese assieme a lui presso la stessa divisione.

«Quando lo vedi tutto impettito e ringalluzzito, la prima cosa che pensi è: “Ecco finalmente un generale vero”. Ma basta scambiarci due parole per capire che è soltanto uno sbruffone».

Adesso siamo venuti a sapere che gli è venuta l’idea di spingere la fanfara della nostra divisione fin dentro la trincea della prima linea, affinché suoni, ci ha spiegato, la sua canzone preferita proprio sotto il naso dei bulgari.

 Entro nella vigna come brava comare!

Ma arriva il padrone e me le dà col bastone!

Questa canzone è una vera ossessione per lui. La fanfara la batte sui tamburi da mane a sera e il generale cerca di insegnarla a tutti gli ufficiali di passaggio negli uffici della divisione. E adesso ha pensato bene di insegnarla anche ai bulgari. L’idea l’ha annunciata ai suoi collaboratori una sera, durante il rancio.

«Propongo di andare laggiù con tutti gli ottoni al completo e di suonargliela proprio sotto il naso!».

Ovviamente nessuno ebbe il coraggio di opporre un rifiuto. Gli ufficiali rimasero con le posate sospese a mezz’aria e si scambiarono uno sguardo perplesso senza dire una parola. Al direttore della fanfara invece andò di traverso il boccone, tossì e quando ebbe ripreso il controllo, osò farfugliare:

«Ma… Ma, generale, non so se una cosa del genere è consentita dai regolamenti».

Balafaras voltò lentamente la testa verso di lui guardandolo in cagnesco.

«Come ha detto, direttore? Re-go-la-men-ti? Quali regolamenti? I miei ordini sono i regolamenti».

Quella sera al direttore della fanfara il rancio rimase sullo stomaco. Ma il bello doveva ancora venire. La nostra banda è composta da suonatori della domenica, di quelli che si esibiscono nelle sagre o nei matrimoni di campagna. Sono quasi tutti piuttosto anziani, persone che non hanno nulla né contro i bulgari né contro il re Costantino, e a maggior ragione contro i tedeschi. Quando la cartolina di precetto era arrivata, colui che adesso è il direttore della banda, assieme a un altro povero cristo che durante l’estate suonava il violoncello nel giardino comunale, propose agli altri di arruolarsi nella divisione per garantirsi calzature e abiti nuovi, un vitto decente e un minimo di salario. Al termine del periodo di addestramento, a Salonicco, sulle maniche si cucirono i galloni e sulle falde della giubba alcune sterline d’oro, mentre il direttore fu promosso prima al grado di sottufficiale e poi addirittura di sottotenente. Di quest’accolita di sbandati il più anziano è Barbaiakumìs, il suonatore di clarino, detto anche Barbasergente, che ha il vezzo di indossare il berretto inclinato sull’orecchio sinistro, come fosse una bombetta. Quando sentirono che il generale aveva deciso di mandarli a suonare nelle trincee della prima linea, si abbandonarono a un lamento funebre e poco mancò che linciassero il capobanda, colpevole di averli messi in quel pasticcio. Per loro fortuna l’idea di Balafaras fu riferita in segreto all’esercito francese, che bloccò sul nascere quella balzana iniziativa.

In questi giorni però a Balafaras è venuta anche un’altra idea: tradurre nella nostra lingua tutte le denominazioni geografiche francesi della zona. Secondo lui era un’umiliazione profonda per noi essere uccisi al Quadrilatère, al Ravin des Italiens, all’Arbre Noir, al Point O e… accidenti! Con una storia come la nostra era assurdo utilizzare il francese! Qualcuno ha cercato di spiegargli che, se avesse fatto una cosa simile, si sarebbero dovute modificare tutte le carte geografiche, sia nostre sia dello Stato maggiore alleato.

Un giorno diede un ricevimento alla divisione, in occasione di una festa nazionale. Il generale francese di tutto il settore, un vecchietto molto intelligente, basso e con un pancione così, si presentò al ricevimento in alta uniforme, accompagnato da tutto lo Stato maggiore. Balafaras schierò la fanfara, ordinò che fosse eseguita la sua marcia preferita e si premurò di spiegarne ai francesi il senso profondo.

«C’est un air populaire, vous savez!».

Poi ordinò che stappassero lo champagne, «une chose excellente» che avevano acquistato per ordine della divisione con il contributo obbligatorio di tutti i poveri ufficiali al fronte, che però non avevano avuto il diritto di assaggiarne neppure un goccio.

Gli ufficiali francesi, dunque, presero i bicchieri. Il generale ospite fece il brindisi di rito, bevve e un istante prima che appoggiasse il bicchiere sul tavolo, Balafaras gli gridò dandogli una pacca amichevole sulle spalle.

«Tiens! Tiens! Tiens! Buvez, mon général, nous en avons beaucoup!».

Questo aneddoto mi ricorda un modo di dire proverbiale di Lesbo: “Mangia sereno, compare, tanto domani è Quaresima e butteremo via tutto”. Quando penso che questo inetto ha la responsabilità di dodicimila anime, mi vengono i sudori freddi. Se accanto a lui non ci fossero stati il capo di Stato maggiore e l’aiutante di campo, entrambi ufficiali molto assennati, e il Comando Supremo che è in mano ai francesi, niente impedirebbe a Balafaras di schierare tutte le dodicimila anime, vessili dei Reggimenti al vento, con in testa la fanfara di Barbaiakumìs e lui in persona in groppa al suo cavallo, e di marciare all’assalto del Pelister.

So che ne sarebbe assolutamente capace.

 

Duelli di artiglierie

Con il tempo ci si abitua a tutto. Ho notato che gli esseri umani hanno riserve inesauribili di resistenza alle avversità, indispensabili per proteggersi dalle sventure e soprattutto dalla follia. La vita in trincea è diventata quasi sopportabile. A volte penso che se l’inferno esistesse davvero, i dannati avrebbero tutto il tempo di abituarvisi, cosicché un bel giorno potrebbero fumare tranquilli la loro sigaretta accendendola direttamente dalle fiamme del loro supplizio. Di giorno restiamo sdraiati nel buio, a pancia in giù, e passiamo il tempo chiacchierando e giocando a carte con la candela accesa. Ma questo accade sempre più di rado. Quasi nessuno ha più voglia di parlare, al massimo ci scambiamo le comunicazioni di servizio oppure diciamo le parolacce e ci insultiamo a vicenda. Poi ti viene un sonno da farti star male. Un sonno pieno di stanchezza, popolato da incubi e da sogni lascivi. Al risveglio sei tutto ricoperto di sudore e di secrezioni appiccicaticce.

Ma basta che le tenebre calino e il mondo si rianima di vita.

Una folla di uomini coperti di tenebra sbucano in fila dai fossati, carichi di attrezzi da lavoro, e camminano allo scoperto. Avanzano con indolenza cercando di non far rumore e senza fumare. Si muovono così, per istinto, e il loro compito è scavare, stendere il filo spinato e ascoltare il nemico dalle postazioni apposite. Altre volte, invece, tendono imboscate. Ogni tanto qualcuno non torna indietro. In questi casi il comando li “rimuove dal contingente in forza nella compagnia” e Balafaras si accinge a inviare le sue famigerate lettere.

Nel buio la piramide del Pelister si erge ancora più nera e più spaventevole, avvolta di mistero. La cima sembra toccare il cielo. Il silenzio che si sprigiona da questa montagna corazzata è più terribile di mille cannonate.

A un tratto dai crinali della montagna balena una sottile linea rossa e gli uomini si buttano subito a terra, dove capita. Di lì a poco dalle estremità di questo gambo luminoso che si va spegnendo, si schiude un fiore splendente, un piccolo sole. È un razzo. Brilla in alto, nel cielo, con un bagliore accecante, tremola e dondola sospeso nel vuoto. Io lo chiamo l’occhio semidesto del Pelister. Spalanca la sua palpebra nella notte, accigliato e severo, per capire chi siamo e che cosa facciamo. La luce del razzo illumina il cielo a giorno in un raggio di molti chilometri. Sembra un faro che una enorme mano invisibile tiene sospeso sopra il terreno. Poi comincia a scendere piano verso il suolo e infine scompare o si nasconde da qualche parte. Nel frattempo è bene che i soldati restino acquattati sull’erba, immobili, senza neppure respirare. Nel giro di pochi secondi nel cielo si profila il bagliore di un altro razzo, poi di un altro e di un altro ancora. I razzi adesso provengono da entrambe le parti. Se non sapessi che siamo in guerra, questa profluvie di luci la scambierei per una festa. L’altra sera uno di questi razzi è caduto su un villaggio abbandonato a metà strada tra la nostra linea e quella dei bulgari centrando in pieno una casa che è andata a fuoco. L’incendio si è propagato ad altre due case e infine si è spento da solo, senza l’intervento di nessuno. Il villaggio deserto si è ammantato di una luce sinistra e metteva paura vedere le finestre delle case spalancate, piene di buio.

Altri razzi invece cadono in mezzo all’erba secca e nel campicello, tra le spighe mature che attendono vanamente di essere falciate. I mietitori sono al fronte anche loro, nell’aria non risuoneranno più le loro canzoni né si agiteranno le loro falci. Le spighe bruciano finché non ne rimane più nulla.

A volte avviene una sortita, un’imboscata, un colpo di mano in qualche settore dei dintorni. Lo spettacolo che ne nasce è incredibile. Assieme ai razzi bianchi se ne accendono anche di colorati, verdi, rossi, gialli, scarlatti. Nel cielo somigliano a bruchi variopinti, a draghi fiammeggianti che cadono storditi strisciando tra le stelle. Si accende fischiando un bocciolo vermiglio che esplode in cima. Dallo scoppio zampilla una fontana intera di astri variopinti, che cadono a pioggia e si spengono precipitando. Sono i segnali che annunciano l’artiglieria e le altre armi da fuoco.

Subito dopo comincia il rombo del cannone. Prima dal Pelister e poi dalle nostre linee. A volte da entrambe nello stesso momento. Le batterie cercano di annientarsi a vicenda. Si tratta dei cosiddetti “duelli di artiglierie”. Durante questi duelli avviene qualcosa di terribile e di meraviglioso. Proprio così, meraviglioso. È la cosa più straordinaria a cui abbia assistito in vita mia. Quando il nostro settore è inattivo, striscio fuori dalla trincea e incollo il viso sulla barriera di protezione. Allora divento un occhio e un orecchio, una cosa sola con l’ambiente circostante e un’anima che si agita in quelle onde frementi.

Alle falde dei monti si dispiegano nel buio festoni di diamanti che lampeggiano in fila e poi si spengono. Sono le batterie che sparano a raffica. Allora si ode l’urlo delle vallate. Piangono, gemono, supplicano e abbaiano con grida strascicate. Il silenzio assoluto si trasforma in un pandemonio. Il vento soffia facendo schioccare la lingua e fischia furibondo infilandosi le dita in mille bocche. Intere masse d’aria si spostano. Il cielo si strappa in due come una tela. Il vuoto è trafitto da saette invisibili, simili a vipere incollerite. L’aria e le colline sono sferzate da colpi di scudiscio, per il dolore si stringono nelle spalle. Le spelonche ruggiscono e mugghiano. Mille Titani si mordono le dita con ostinazione esasperata. L’aria vibra intorno in modo strano, di paura e di sorpresa. Mentre i cuori degli uomini tremano come foglie di pioppo.

Dove vadano a finire le granate non è chiaro. Il corpo però ne avverte la presenza. Sa dove si trovano, dove sfrecciano, dove sono dirette. Alcune sembrano solcare la superficie di un placido lago. Con uno scroscio secco gorgogliano come se corressero sul velo sereno dell’acqua. Altre invece fanno un baccano d’inferno. Sembra che nell’oscurità, dal Pelister fino a noi vengano gettati giganteschi ponti d’acciaio sopra i quali passano treni carichi di ferraglia. Alcune fischiano con allegria. Sono quelle che i soldati chiamano “usignoli” perché somigliano a uccelli scappati dalla gabbia, che volano in alto verso il cielo zufolando un canto di libertà. In mezzo a questo caos di rumori e di grida sfrenate della notte, si ode il boato furente delle esplosioni.

Quando esplodono, le granate squarciano l’aria con un impeto di vendetta. Sono un mostro vivente che si avventa sulla terra per lacerare col suo rostro e per sbranare con le sue unghie di ferro la terra. Una belva meccanica nel cui ventre milioni di persone hanno condensato il loro odio prima di inviarla a seminare la morte. Quando una granata esplode, questo concentrato d’odio, formato da tanti singoli odi nascosti a mo’ di feti nell’utero d’acciaio, si sprigiona come un branco di cagne affamate che gridano con versi che sembrano voci inquietanti, sconcertanti, sconvolgenti.

Sì, ogni volta che sento l’esplosione di una granata, mi sembra di sentire delle voci piene di odio implacabile. Voci di esseri umani che gridano e digrignano i denti con la bava alla bocca. Dentro le esplosioni si riconosce il grido isterico dell’assassino che conficca il pugnale nelle carni ancora calde. Il grido vittorioso di colui che affonda la lama nel petto del nemico e la rigira nella ferita tenendolo per il manico. L’odio finalmente appagato si traduce in un mugolio di piacere e beve in silenzio l’agonia della vittima, che cerca disperatamente di liberarsi dalla morsa del carnefice, mentre, riversa al suolo, vomita tremando oltre che il sangue, anche la sua anima.

Quando cominciano a sparare contro di noi, corriamo a ripararci nei ricoveri in attesa degli ordini. Nella trincea restano soltanto gli osservatori, che si danno il cambio molto più spesso del solito.

Il bombardamento è l’emozione più estrema che un essere umano possa sopportare.

Si sta rannicchiati sul fondo della trincea oppure dentro il ricovero sotterraneo. L’anima è stretta nella morsa di una disperazione profonda, da un terrore che annichilisce. In un certo senso è come rannicchiarsi in se stessi. Si cerca protezione nel nucleo della propria esistenza, e questo nucleo lo vuoi piccolo come un nocciolo di ciliegia ma nel contempo duro e resistente come il diamante. L’anima cade in ginocchio, meravigliata e sgomenta, raccolta in fervente preghiera. Le parole di questa preghiera sono incomprensibili, nessuno le ha mai sentite, neppure tu, e sono rivolte a un dio la cui esistenza non si sospetta neppure. Somiglia alla flebile luce di un cero, a una tremolante fiammella che si agita nello sforzo di staccarsi dallo stoppino.

Il bombardamento è una cosa disumana e nel contempo maestosa. Gli uomini si trasformano in Titani che colpiscono la Terra facendola gridare, in altrettanti Enceladi e Tifoni che sollevano le montagne, scagliano fulmini e gettano lo scompiglio nelle forze naturali, atterrite come gatti randagi presi a bastonate.

Durante i duelli di artiglierie ho l’impressione che Jahvè faccia capolino da una finestrella del cielo per rivolgere un’occhiata alla Terra che si contorce dal dolore in un tripudio di bagliori e di esplosioni. E udendo questo trionfo dell’odio, Egli apre gli occhi stupito dalla sua creatura, che è capace di far tremare e gemere la Terra, e a cui basta sfiorare le montagne con un dito per ridurle in cenere. Allora me lo immagino mormorare al colmo dell’indignazione ma anche con un pizzico di orgoglio: «Ma guarda cosa mi combinano questi mascalzoni!».

 

De Profundis

A volte trascorro giorni interi dentro il ricovero. Senza uscire mai in trincea, nemmeno di notte per la ronda di sorveglianza. Una vecchia ferita alla gamba sinistra risalente alle guerre balcaniche mi dà delle noie, forse a causa dell’umido o dell’immobilità forzata. A volte me la sento indolenzita fino alla coscia e il dolore mi fa venire le lacrime agli occhi.

Dalla roccia sopra di me continua a gocciolare acqua. Ieri abbiamo tolto una tavola di legno dal pavimento e con l’aiuto di una scatoletta abbiamo vuotato tutta l’acqua che vi si era accumulata. Era un’acqua putrida e nera, come quella che si raccoglie d’inverno nei camposanti filtrando attraverso le tombe. Aveva odore di muffa, di pipa spenta e di mozziconi di sigaretta. L’umidità però non è certo diminuita. L’aria greve che io e mio fratello respiriamo qua dentro ne è sempre impregnata. È un’aria immobile che ingoiamo con disgusto come acqua sporca.

Certi giorni la gamba non mi fa tanto male, altri invece griderei di dolore. Allora il capitano (che conosco da prima che ci arruolassimo) mi manifesta il suo affetto senza tener conto delle formalità e dell’ordine gerarchico.

Gli raccontai la storia della mia gamba e lui mostrò vivo interesse. Mi propose di marcare visita. Io rifiutai e pensai a Gigantis. Anch’io gli avevo proposto di marcare visita e lui si era rifiutato. Il capitano allora mi chiese – non era la prima volta che me lo chiedeva – se volevo essere trasferito negli uffici della compagnia come assistente del furiere. Nelle retrovie la qualità della mia vita sarebbe stata senza dubbio migliore. Anche in questo caso opposi un cortese ma netto rifiuto. L’idea di aver a che fare tutto il giorno con gli ufficiali e di calcolare le quantità di pane su quegli stupidi registri dei conti non mi allettava per niente. Questi conti della serva sarebbe meglio affidarli a un volontario! E poi mi dispiacerebbe lasciare solo mio fratello. Voglio stargli sempre accanto, non voglio perderlo di vista neanche un istante e sapere che è sano e salvo quando torna dalla ronda di sorveglianza o da un’imboscata. Ringraziai il capitano e gli dissi che preferivo restare dov’ero. Quanto alla mia gamba, gli chiesi di aspettare e lo pregai soltanto di esonerarmi dagli incarichi più gravosi. Lui acconsentì e mi diede un pacchetto di zucchero e dell’alcol solido per prepararmi il tè. Poi mi regalò un po’ di nafta per praticarmi dei massaggi alla gamba.

Nelle lunghe ore che trascorro rannicchiato sulle tavole di legno, come un vero relitto umano se non addirittura un morto vivente, l’anima mi si affolla di pensieri lugubri. Tutto comincia molto piano. Un’idea iniziale si presenta come un filo che la mia mente afferra e dipana come una matassa. La mente dipana, dipana, dipana ma alla fine resto impigliato nel groviglio dei pensieri come un pesce preso dentro una rete, incapace di tornare libero. Quando sono solo, questi pensieri mi avviluppano tutto quanto. Allora chiudo gli occhi oppure spengo la luce con la speranza di interrompere la febbrile attività della mente. A questo punto però le cose precipitano perché i pensieri lugubri mi si mettono a turbinare in testa come uno sciame di mosche e la testa me la sento grande e vuota come un barile che se lo sfiori rintrona tutto. Nugoli di mosche mi ronzano in testa gettandomi nella disperazione. A volte il ronzio cessa per qualche minuto. Accade quando le mosche smettono di volare per affondarmi nel cervello le proboscidi pelose. In questi momenti ricorro all’aiuto dei miei filosofi preferiti. Il dolore del corpo cerco di separarlo dall’anima e di osservarlo da lontano. Cerco di staccare i pensieri dal corpo, la mente dai nervi, l’anima dal dolore fisico per giungere soltanto a una conclusione: che la filosofia è soltanto una teoria, un cumulo di sciocchezze scritte da solenni imbecilli nell’età in cui il vigore del corpo si trova all’acme. E ti verrebbe la voglia di prenderli a pugni sul naso questi animali che se ne vanno in giro ammantati di ipocrisia e di senso comune. Il dolore fisico! Non c’è niente che avvilisca di più l’anima e lo spirito. Anche questi infatti sono parte del corpo e quando il corpo soffre, tutta la vita sembra un inferno. Il mondo appare bello e gli esseri umani cordiali, generosi e fortunati, e le cose hanno un valore soltanto quando il corpo è sano. Il mondo esiste soltanto nel corpo.

 

Osservo con raccapriccio il fucile che mi giace accanto nel suo silenzio ipocrita. La baionetta si sta arrugginendo nel fodero in attesa di bagnarsi di sangue umano. Mi viene voglia di infilare la lama in una fessura della roccia e di spezzarne la punta, affilata come un dente. Penso ai giorni e alle notti che scorrono incessanti, uno dopo l’altro, fuori della trincea, rapidi come uno stormo di uccelli bianchi e grigi. Una teoria interminabile di gru che solcano il cielo svanendo all’orizzonte. Sono i giorni e le notti della mia vita, gli avvincenti giorni e notti della mia vita, che arrivano e fuggono fuori dal mio involucro di pietra. Io invece resto qui, con i miei venticinque anni, sdraiato nel buio, con il corpo ferito e dolorante. I begli uccelli volano verso l’inesistenza, verso il passato defunto, e non ho alcuna speranza di vederli tornare. Né mi sento abbastanza forte da allungare una mano per catturarli o almeno per costringerli a non volare più finché io ritrovi la luce. Sì, questi giorni e queste notti che volano via, non torneranno mai più, mai più. Eppure sono miei! Mi appartengono tutti e so quanto siano preziosi. Cerco di alzarmi, di strisciare carponi come un grosso verme. Vorrei raggiungere il foro dell’ingresso. Muoio dalla voglia di tirar fuori la testa dal budello della trincea e di vedere la luce del sole, di sentirmi i raggi riscaldarmi la nuca e scivolarmi dietro le orecchie come gocce d’acqua dorata. I raggi ho bisogno di sentirmeli tra i capelli, di avvertirne la carezza sulle guance scavate. Ma purtroppo, a causa della mia gamba ferita non è possibile. Mi duole come se un trapano scavasse nell’articolazione del ginocchio. Ma anche quando il dolore diventa sopportabile, ci sono i pidocchi che ti corrono sul corpo sudicio e che ti inducono a grattarti con le unghie lunghe e nere, in un’orgia di accanita voluttà che ti fa venire le lacrime agli occhi, finché la mano si stanca e tu te l’avvicini agli occhi per vedere le unghie rosse di sangue. Molti commilitoni sono finiti all’ospedale a causa delle infezioni causate da queste ferite purulente. Sono piaghe che si aprono sulle gambe, dalla caviglia fino al ginocchio, intorno ai capezzoli e sulla schiena. Per grattarci la schiena usiamo il ferro del fucile o la punta della baionetta perché le mani ovviamente non ci arrivano.

Il mio capitano è una persona straordinaria. È l’unico ufficiale di carriera per il quale nutra sentimenti di affetto e di stima.

Il mio capitano non è abituato alla riflessione intellettuale però è molto buono e generoso, come una fanciulla. Da buon cretese, è un uomo tutto d’un pezzo, di quelli che dicono pane al pane e vino al vino. Crede fermamente nella missione dell’esercito e non ha mai avuto alcun dubbio al riguardo. Gli voglio bene perché è un uomo onesto e assolutamente sincero. Crede nell’uniforme come ci crede mio fratello. E come una volta ci credevo anch’io.

Anche lui mi vuole bene e fa di tutto per rendermi meno gravosa la sofferenza di questi giorni d’inferno. A volte m’invita nel suo ricovero e se la gamba me lo consente, mi reco volentieri da lui strisciando carponi. Il ricovero del mio capitano è ampio e spazioso, ci si può stare persino in piedi. Beviamo il tè, fumiamo sigarette di prima qualità e chiacchieriamo liberamente del più e del meno approfittando di quel momento di solitudine. Per me si tratta di una grande felicità. Una volta gli domandai se avesse mai avuto il dubbio che gli “alti ideali” che ci avevano portato in quell’inferno fossero soltanto vuota retorica. Un tempo, aggiunsi, gli esseri umani si massacravano in nome della religione. Ai greci di Bisanzio, per esempio, bastava un aggettivo sbagliato, un “simile” al posto di “consustanziale” per darsele di santa ragione.

Il capitano rise di cuore mettendo in mostra una chiostra di denti forti e bianchi come mandorle fresche.

Allora io dissi che forse di lì a qualche anno sarebbero stati i fautori di ideali antipatriottici a ridere di noi e delle nostre guerre, e in un futuro ancora più lontano altri avrebbero riso di costoro e così via.

Lui addentò un pezzo di pagnotta, prese una matita rossa e tracciò una linea sulla macchia arancione che simboleggiava la trincea dei bulgari dicendo:

«Di tutto questo avremo la possibilità di discutere dopo che avremo scacciato il re e i suoi tirapiedi da Atene, e i bulgari dalla Macedonia. Ogni cosa a suo tempo. Per adesso fumiamoci una bella sigaretta».

Anche se il mio capitano calpesta mucchi di cadaveri, ho la sensazione che Dio lo manderebbe comunque in paradiso. Sono i miracoli della fede. Anch’io un tempo ero mosso dalla fede. Credevo nelle guerre balcaniche e non mi lamentavo mai. Ho continuato a crederci fino a qualche mese fa. Adesso ripenso con orrore a quando, ero ancora un ragazzino imberbe, inviai a casa mia come sanguinario trofeo il cinturone nero con tanto di borchie di bronzo e mezzelune appartenuto a un cavaliere nemico, il primo uomo che avessi mai ucciso in vita mia. Il mio era stato un atto di baldanzosa innocenza. Lui e il suo cavallo mi erano sbucati davanti senza che né io né lui ce lo aspettassimo. Senza perdere tempo, presi la mira e sparai. Lui alzò le mani sollevando le redini, scivolò dalla sella e uno stivale gli rimase impigliato tra i lacci della sella. Il cavallo imbizzarrito lo trascinò per alcuni metri poi si fermò e nitrì girando la testa verso il corpo senza vita del cavaliere. Mi avvicinai al cavallo con il cuore in gola. Il cavaliere nemico era un ragazzo biondo come mio fratello. Aveva la testa ricoperta di ecchimosi, dal naso e dalla bocca gli usciva un rivolo caldo di sangue. Le tempie mi pulsavano ma io in cuor mio ero compiaciuto di aver sfogato su di lui un briciolo almeno dell’odio secolare che la razza greca nutriva nei confronti della razza dei turchi. Quando inviai il cinturone ai miei, il rispettabile direttore della nostra scuola, il professor Anaghnostu, mi inviò una lettera che mi riempì di orgoglio. Il professor Anaghnostu era colui che, quando Lesbo si trovava ancora sotto il giogo ottomano, chiudeva a chiave il portone della scuola per infervorarci con i suoi discorsi patriottici. Noi ragazzini stavamo ad ascoltarlo stringendo i piccoli pugni sopra i banchi. Adesso di tutto questo non è rimasta alcuna traccia. Io non credo più a niente.

In questa guerra, purtroppo, i soldati hanno un mucchio di tempo per pensare. E questo non va bene perché più i soldati pensano e più perdono la fede. E non c’è niente di peggio che fare una guerra in cui non si crede ma senza peraltro essere giunti all’altro estremo, quello del dubbio totale, quello che convincerebbe i soldati a smettere di combattere incuranti delle conseguenze.

Così adesso la mia fede viene sbattuta qua e là come uno straccio legato in cima a un palo del telegrafo. I venti del dubbio lo colpiscono da ogni dove, senza pietà. Che cos’è il bene e dove comincia il male? Vorrei poter vedere il Signore e scongiurarlo di donarmi la fede. In qualsiasi cosa. In Lui, nel Bene o anche nel Male. La mia angoscia prorompe dal fondo del mio ricovero gridando fino alle lacrime.

«Signore, Signore, soccorri la mia incredulità!».

Ma il Signore non risponde e mi lascia con la malattia dello spirito più terribile che ci sia: il dubbio.

 

Barbastilianòs il Buono

È da stamattina che penso a Barbastilianòs detto il Buono. No, tu non lo conosci. Era un cacciatore di Lesbo e viveva in uno dei villaggi di montagna più isolati. Era alto e magro come un albero inaridito. Alla cintola teneva una cartuccera di cuoio costellata di borchie, un pugnale dal manico decorato e molti accessori in legno di ciliegio, di rosa, di pino e di gelsomino per il sigaro, lavorati abilmente con una lama sottile. Tutto era allineato con ordine nella cartuccera, compreso il sacchetto del tabacco e gli acciarini. Il sole di montagna gli aveva abbrustolito la pelle rendendolo rossiccio come il rame.

Aveva un corpo molto magro e asciutto. Estate e inverno portava sempre le stesse brache cenciose e la camicia aperta sul petto, che lasciava intravvedere un fascio di nervi e di muscoli percorso da un fitto reticolo di vene, che pulsavano, fremevano e vivevano sotto la sua pelle simili a serpi. Barbastilianòs era un vecchio solitario, non aveva moglie né figli. La sua unica passione, l’unica arte in cui eccellesse quest’uomo dal corpo snello e nodoso come un tronco d’ulivo era la caccia. Nutriva un amore particolare per gli uccelli e per gli animali che si dissetavano. Un giorno colpì Flox, uno dei suoi cani, alla zampa anteriore destra perché aveva attaccato uno stormo di quaglie fermatosi a rinfrescarsi presso una polla d’acqua. Poi appoggiò a terra la canna del fucile e rimase a sorvegliarle. Anche gli uccelli, pensava, sono creature di Dio e hanno il diritto di spegnere la sete. Tale consapevolezza riempiva la vita agra di Barbastilianòs di pietà e di rispetto. Gli uccelli, secondo lui, erano le creature più nobili di tutto il creato perché quando bevono, a ogni sorso sollevano la testolina al cielo per ringraziare Dio dei suoi doni.

Non so come mai mi sia tornato in mente il vecchio Barbastilianòs. O meglio lo so e lo scoprirai tra poco.

 

Uscendo dal mio ricovero e andando sempre a destra verso la trincea B1, a un certo punto, dopo aver oltrepassato varie diramazioni segnalate da altrettante tabelle progressive, si giunge al settore di trincea contrassegnato dal numero B14, che si trova in un crepaccio della montagna, ormai allo scoperto. In quel punto la trincea si è preferito non scavarla, in primo luogo a causa del suolo roccioso e poi a causa della notevole vicinanza del crepaccio alle falde del Monte Pelister. Le granate del nemico potrebbero colpirlo soltanto se interrompessero a metà la parabola discendente e cominciassero a cadere perfettamente in verticale, cosa evidentemente impossibile. Ecco perché secondo gli ufficiali questo è un crepaccio “imprendibile” o addirittura “inespugnabile” e chi più ne ha più ne metta.

Per noi questo crepaccio è una vera manna dal cielo perché vi sgorga una sorgente d’acqua trasparente come il diamante. Da questa sorgente attingono acqua tre compagnie greche e una francese. Così ogni giorno ce ne procuriamo una borraccia piena. Alcuni hanno pensato bene di trasformare l’approvigionamento dell’acqua in un affare redditizio. Si fanno pagare e rischiano la vita in pieno giorno per riempire le borracce altrui. In effetti bisogna essere completamente pazzi per uscire dal ricovero e percorrere tutti i quattordici settori e sottosettori della nostra trincea, molti dei quali giacciono allo scoperto e non offrono alcun riparo ai soldati neanche se avanzano strisciando come lucertole. Nella mia compagnia uno di questi venditori d’acqua si chiama Dimitròs Svingos, il marito di Paraskevì, la ragazza che ogni sabato veniva a farci le pulizie e che adesso è tutta dolorante a causa dell’artrite. Svingos non è un individuo particolarmente audace ma con tutte le borracce che riempie (una dracma l’una) ogni tanto riesce a mandare qualche soldo alla moglie.

Stamani all’alba sono andato anch’io alla sorgente più che altro per sgranchirmi un po’ le gambe. In cielo brillava ancora la luna e a oriente si scorgeva il primo riverbero dell’aurora. I soldati delle ronde notturne stavano appena tornando cosicché davanti alla sorgente non c’era quasi nessuno a parte Gigantis e gli attendenti di alcuni ufficiali francesi. Il silenzio era quasi assoluto, i vari settori erano ancora immersi nel sonno. Anche i cannoni dormivano sotto le protezioni. Soltanto il crepitio lontano di una mitragliatrice scosse l’aria immobile. Poco dopo sentimmo un tonfo a due metri dall’acqua e un’onda d’urto ci fece cadere a terra. Quando mi rialzai, dall’orecchio destro non ci sentivo più e mi faceva male lo stomaco. Gigantis era seduto a terra, con la testa piegata sulle ginocchia e le braccia penzolanti ai fianchi come ali tarpate. Con le dita bianchissime stringeva le cinghie di cuoio della borraccia.

Si era trattato di un cosiddetto “cucciolo”, ossia di un colpo di media potenza che i soldati chiamavano così perché invece di fischiare sembra che latrino. Lo avevano sparato i nemici dalle postazioni sul Pelister. Gigantis era rimasto ucciso sul colpo. Non doveva essersene neanche accorto, sembrava che dormisse. Invece Svingos, che addosso aveva una ventina di borracce, aveva riportato ferite molto gravi al naso e agli occhi. Mi bastò un’occhiata per capire che non ci avrebbe visto mai più.

Tutt’intorno vidi un’altra decina di commilitoni che erano già morti o rantolavano tenendosi i visceri con le mani. Un francese alto e robusto con la barba bionda come grano maturo era seduto a gambe incrociate e faceva dondolare il tronco avanti e indietro, in silenzio, come un arabo che legga il Corano. Intanto con un dito della mano destra si tastava un forellino sul cranio da cui fuoriuscivano cervella sanguinolente.

Adesso sai perché mi è tornato in mente Barbastilianòs il Buono, il rude cacciatore che non sparava mai agli uccelli mentre bevevano.

 

Plenilunio in trincea

Stasera c’è una luna meravigliosa. Sono qui nel mio ricovero, da solo, in compagnia della mia ombra spaventosa che la luce della lampada fa danzare sulla parete di roccia. Gli uomini sono tutti fuori in missione e la trincea è immersa nel silenzio. Stamattina la gamba mi doleva moltissimo ma nel pomeriggio la situazione è migliorata tanto che sono persino riuscito a mettere un po’ in ordine. Ho sollevato lo zaino che funge da guanciale e ho visto che a causa dell’umidità era tutto coperto di muffa. La muffa era una specie di sottile vello verdastro che quando lo si rimuove con il dito lascia una traccia umida. Tutto il pomeriggio l’ho lucidato con grasso vegetale. Poi sono passato al fucile, la cui canna, all’interno, aveva cominciato ad arrugginirsi. Ho fatto molta fatica a estrarre la baionetta dal fodero.

Infine mi sono trascinato fino all’ingresso del ricovero e ho visto la luna di agosto correre lungo la trincea come dentro un canale di luce. Mi è venuta in mente la leggenda della fanciulla che nelle notti d’agosto saliva sulla terrazza e si ricamava il corredo attendendo di scorgere la nave del findanzato all’orizzonte. Ho spento la candela che ho messo dentro la lattina e camminando carponi sono uscito nella trincea per rannicchiarmi in un angolo e godermi lo spettacolo del chiaro di luna.

Che pace! Tutte le cose sono immerse nella bianca luce della luna. Le linee, i volumi si stemperano con dolcezza nel bagliore d’argento che sgorga in silenzio dalla sorgente del cielo e irrora la terra con un fascio luminoso che splende da ogni parte. Non si ode alcun rumore. Nessuna mitragliatrice crepita, nessun fucile spara, nessun razzo fischia.

Stasera tutti si rivolgono uno sguardo estatico e sereno sotto la volta del cielo, e respirano la luce soave che palpita nell’aria immobile. Oltre la trincea il dorso delle colline circostanti si scorge in ogni dettaglio. Alcuni versanti sono bassi e giallastri, coperti di arbusti spinosi e di ciottoli, e il sole infuocato li incendia tutti i giorni. Le spine e i ciottoli aguzzi somigliano a scheletri scarnificati, alle ossa di creature viventi fatte evaporare dalla fiamma del sole.

A ogni passo si aprono buche che animali sconosciuti sembrano aver scavato con il muso e con le unghie per partorirvi i piccoli. In certi punti queste buche, piccole e grandi, sono così numerose che il terreno sembra un campo di patate. A scavare queste buche nel terreno sono le granate che da mesi, da anni, vi cadono sopra, ed esse stanno con la bocca spalancata verso il mistero del cielo saziandosi della gioia buona della luna, calici di terra che traboccano di miele rarefatto. Altre invece la luce della luna non riesce a illuminarle e sono colme di nera ombra. Con la stessa bontà la luce inonda anche le selve di filo spinato che si prolungano a perdita d’occhio nelle tenebre perlacee, interminabile ordito d’acciaio. Il chiaro di luna ha appeso paziente le sue gocce luminose sugli uncini di ferro affilati come unghie, aguzzi come zanne. Sullo sfondo la valle nera del Dragor, che si immagina soltanto. Ma se tendi l’orecchio, potrai sentirlo gridare trionfalmente nel suo scorrere. Sono i suoi volti ecquorei a celebrarne l’incontenibile libertà, a esprimere con una monodia sempre uguale la gioia del movimento.

In fondo si erge la piramide buia, muta ed enigmatica del Pelister. Nei dintorni il creato diventa un unico, grande orecchio, che ascolta in silenzio il rombo lontano del fiume festoso che scorre libero nelle pianure, si tuffa dai precipizi con lingue di rettile e ride fragorosamente sugli altipiani. Saltella sulle rocce gonfiando d’acqua come spugne il verde tappeto dei muschi vellutati. Spumeggia intorno agli alberi abbattuti e li scavalca come un agile puledro senza cavezza né finimenti, che gode la propria selvatichezza nitrendo libero verso il cielo con le nari dilatate.

Penso che prima o poi gli esseri uomini smetteranno di trucidarsi a vicenda, la guerra finirà e le trincee rimarranno vuote. Nei ricoveri troverà rifugio mamma orsa in procinto di partorire e sopra il filo spinato arrugginito cresceranno le ghirlande fiorite della vite selvatica.

Prima o poi qui, dove mi trovo adesso, nelle sacre notti d’agosto rischiarate dalla luna, si acquatterà qualche animale selvatico, che tenderà le orecchie verso la monodia lontana del fiume. Respirerà soddisfatto, con la lingua penzoloni, mentre queste montagne, conclusosi lo sconquasso della guerra che siamo stati noi a recar fin dentro le loro viscere, si ergeranno ancora maestose sul dorso magnifico della terra, pronte a un riposo sereno e ristoratore da far durare per l’eternità. Penso che per questa Natura dai mille occhi e dalle mille bocche, che nella sua solennità assiste con impassibile indifferenza al dramma degli uomini, non cambi nulla se sotto il plenilunio di agosto ci sia una bestia selvatica che respira con la lingua penzoloni o un essere umano dal cuore traboccante d’amore e di pena, che riflette su di essa e sui destini ultimi del mondo.

Tra qualche anno queste montagne saranno costellate dalle ossa bianche come la neve degli uomini giunti dagli estremi confini del mondo a morire in nome della “libertà dei popoli”, espressione altisonante di fatto priva di qualsiasi significato. Nelle orbite smarrite dei crani sparsi lungo i crinali, un tempo formicolanti di pensieri e di ideali, troveranno ricetto bruchi, lucertole e millepiedi di ogni specie mentre i raggi della luna penetreranno con celestiale candore fin dentro i fori svuotati degli occhi. E le montagne? Le montagne saranno imperturbabili come lo sono questa notte, in attesa paziente del Fato, con i fianchi rischiarati dal plenilunio d’agosto.

 

Il papavero nascosto

Stanotte la gamba mi fa meno male, tanto che avrei voglia di fare quattro passi nel silenzio della trincea deserta. È davvero strana la trincea con tutta questa luce. Sembra giorno ma non c’è da avere paura perché il chiaro di luna è pericoloso soltanto quando si riflette su una superficie metallica. Così posso passeggiare tranquillo sotto la pallida cappa dell’astro della notte, avvolgente come una tenebra d’argento. A un tratto ho la sensazione che questa solitudine sia reale, che i miei compagni abbiano deciso di andarsene lasciandomi qui da solo. Il cuore me lo sento trapassare da un brivido gelido come una lama. Piuttosto che restare da solo, preferirei sapere che intorno a me ci sono nascosti altri esseri umani, sia pure nemici.

Sono giunto fino all’estremità della nostra trincea, protetta dalla barriera di filo spinato. Lì si trova una porta segreta, tenuta chiusa da filo spinato avvolto intorno a un fuso. In quel punto il terreno è roccioso cosicché è impossibile scavare. Per proteggerlo hanno alzato un riparo con sacchi pieni di terra. Questi sacchi si trovano qui da molto tempo. Sono marci a causa dell’umidità, della pioggia e della neve, e cotti a causa del sole. Quando li sfioro con un dito, l’orlo si sfalda come gli abiti dei cadaveri riesumati, che si polverizzano al primo contatto con l’aria. Alcuni di questi sacchi sono pieni di terra soltanto a metà e la luce intensa della luna li fa somigliare a mucchi di carogne tumefatte o sventrate. Da qui la vista è più bella. Il grido lontano del fiume nascosto che scorre nel suo letto profondo si ode con maggior nitidezza. Mi verrebbe voglia di sporgere la testa oltre i sacchi ammucchiati per vedere che cosa c’è intorno. Mi verrebbe persino voglia di uscire dalla trincea. Appoggio il bastone alla parete, mi sollevo sulla punta dello scarpone del piede sano e mi aggrappo ai sacchi situati più in cima. Uno di essi si sbriciola all’istante e io vengo travolto da zolle di terra. Ma ecco che accade qualcosa di sorprendente. Il sacco vuoto e sgonfio mi prospetta una piccola felicità, un vero balsamo per la mia anima, tanto che vorrei gridare per la felicità.

Dietro il sacco c’è un fiore! Un fiore che è riuscito a spuntare dal sacco imputridito e mi appare all’improvviso in questa notte densa di prodigi. Mi avvicino con estrema cautela, lo sfioro trepidante, come quando ci si accinge ad accarezzare la guancia di un bambino. È un papavero. Un papavero gagliardo e robusto che schiudendosi ha assunto la foggia di una manina di velluto. Se qualcuno potesse ammirarlo alla luce del sole, ne vedrebbe il colore scarlatto, la croce nera sul cuore e il vellutato ciuffo di ciglia viola al centro. Questo fiore è un tripudio di gioia, di energia, di colori e di robustezza. Sulla punta turgida e pelosa del gambo si vede una gemma protetta dentro una guaina verde, in attesa del momento propizio per schiudersi. Di certo non manca molto e allora di fiori in trincea ce ne saranno ben due! Proprio di fronte al Pelister, in questo recinto di morte.

A un tratto provo una commmozione indescrivibile che mi sgorga dal fondo dell’anima. Agli occhi mi sento salire un pianto liberatorio. Resto a lungo con la testa sporca di terreno appoggiata sui sacchi marci mentre le dita sfiorano con cautela il papavero. A un tratto ho una paura terribile che a questo fiore, con cui Dio mi si è rivelato stasera, capiti qualcosa di brutto. Allora decido di nasconderlo di nuovo dietro un sacco ancora pieno di terra. Poi mi sollevo di nuovo sulla punta del piede sano e allungo il braccio verso l’esterno per tastare di nuovo il fiore. La sensazione vellutata dei petali tra i polpastrelli mi fa tremare di felicità. La gioia inattesa procuratami dal tatto si trasmette lungo il braccio con un dolce formicolio che mi sale fino alla schiena. È come sentirsi sulla pelle il battito di ciglia della donna amata. Mi bacio i polpastrelli e dico sottovoce:

«Buonanotte… Buonanotte e che Dio ti benedica».

Torno subito indietro al mio ricovero. Accendo la lampada e lo spazio angusto si riempie completamente della mia incontenibile felicità. La mia anima si mette a danzare. Mi sdraio sulla schiena e nel cuore sento levarsi un canto. Che balsamo è stato per me l’inattesa comparsa di questo fiore selvatico nella trincea! Mi ritorna in mente Gigantis e gli occhi mi si velano di lacrime. Se fosse vivo, soltanto a lui rivelerei il mio felice segreto. Mio amico diletto! Se tu fossi ancora vivo, io coglierei questo fiore, lo metterei in una tazza piena d’acqua fredda e te lo porterei sotto la tua tenda per regalartelo. Ma purtroppo non ci sei più. Sono nello stesso tempo triste e allegro. Dio mio, un papavero è spuntato per me da un sacco pieno di terra marcia della trincea. È come se sentissi uno scheletro gridare “evviva!”. È lì, presso il reticolato davanti all’uscita della trincea, vicino al cartello con la scritta B1, e io rifletto. Questo fiore è un messaggio inviatomi dalla vita, è una promessa. Questo fiore, mio Dio, è un segnale di buon auspicio. È l’orlo della Tua veste di porpora! Mi avvolgo nella coperta e chiudo gli occhi per godermi in solitudine la mia gioia. Il cuore mi batte allegro. Stasera sono più consapevole della morte di Gigantis. Stasera ho voglia di versare calde lacrime. Però la mia anima è gonfia di gioia perché è a conoscenza di un dolce segreto. La mia anima è viva.

Mi alzo ancora una volta con cautela e circospezione. Mi sporgo fuori dalla trincea e sbircio l’uscita con la sensazione che ad attendermi ci sia un appuntamento con la felicità, a cui tuttavia stasera non mi recherò. Da domani invece ho deciso che tutte le sere trascorrerò qualche minuto in compagnia del papavero. E ogni volta che vi passerò accanto assieme ai miei commilitoni durante un turno di ronda o per sovrintendere alle opere di fortificazione, in cuor mio riderò perché i miei compagni ignoreranno il mio segreto. Io invece rivolgerò mentalmente un saluto al fiore rosso, al fiore segreto che è un messaggio inviatomi dalla vita. E soltanto io saprò della tua esistenza, che dietro quel sacco ci sei tu, mio dolce papavero!

Adesso mi auguro di cadere in un sonno profondo e sereno. In cuore mi sento traboccare una struggente tenerezza. Stasera Dio mi ha sfiorato con il Suo dito e il cuore mi vibra di dolcezza. Vorrei poter credere per un istante alla favola bella della Divina Provvidenza per potermi inginocchiare e rendere grazie a qualcuno per la gioia che mi ha donato. Per poter spalancare le braccia e levarle verso il cielo, e sollevare il mio corpo nuovo e nudo come un cero nella gloria della luna per sentirmi addosso lo sguardo benevolo di Dio. Vorrei recitare una di quelle preghiere antiche che ci insegnavano da fanciulli. Anche se ne ignoravamo il significato, noi le recitavamo senza farci domande, terrorizzati all’idea di omettere qualcuna di quelle parole misteriose. Se a nessuno di noi è mai venuto in mente di chiederne il significato è perché sospettavamo che questo fosse il linguaggio segreto di Dio, l’idioma ufficiale del cielo, e che soltanto in questa lingua Dio si degnasse di ascoltare i Suoi servi. Stasera vorrei poter recitare una di queste preghiere di cui ignoravo il significato. Perché soltanto così sento che potrei esprimere il senso infinito e le emozioni indescrivibili che mi sgorgano dall’anima inaridita, come le acque che scaturirono impetuose dalle rocce roventi del deserto dopo che Mosè le toccò con il bastone. Perché stasera l’anima mia trabocca come una sorgente copiosa e trasparente che non ha a chi donare la propria acqua e il proprio canto.

Stasera Dio me Lo sento incredibilmente, straordinariamente vicino. Ma purtroppo neanche stavolta sono in grado di parlare con Lui…