Giacobbe

Da circa una settimana è arrivato un drappello di matricole, arruolate per colmare i “vuoti” aperti dalle granate nelle nostre file. A quanto pare in altri reggimenti della nostra divisione si è verificata una terribile catastrofe. Un grande ricovero della quarta compagnia è stato colpito dai nemici e in un colpo solo sono rimasti uccisi ben dodici soldati più il sergente. Nessuno è sopravvissuto. Questa guerra somiglia a un pestello di pietra e a noi soldati non resta che aspettare il pestello che ci schiaccerà. Il fatalismo con cui accogliamo la notizia della morte dei nostri compagni ci getta a tal punto nello sconforto, che riesco quasi a comprendere le ragioni dei disertori. Io però, se proprio non è possibile tornare a casa, preferirei almeno una battaglia in campo aperto. Sempre meglio di questa morte lenta.

Due dei nuovi arrivati sono un ebreo e un ragazzo di Salonicco arruolato presso la divisione di Serres. Quest’ultimo è appena uscito dall’ospedale e si chiama Dimitratos. È un tipo molto simpatico ed è un gran chiacchierone. L’ebreo invece Dio solo sa come sia finito in un reggimento di Lesbo. È un ragazzo alto e molto magro. Ha gli occhi castani e piccoli come due chicchi di caffè, e ricci capelli rossi. Ha la carnagione molto pallida e le guance ricoperte di lentiggini rossastre. La sua pelle delicata sembra che abbia l’eritema e si ha persino paura a toccargliela nel timore che si possa strappare come una cartina di sigaretta.

Giacobbe presenta un’incredibile somiglianza con il fantoccio di paglia raffigurante il “giudeo” che in molti villaggi viene dato alle fiamme la sera del Venerdì Santo. Per rendere il falò ancora più spettacolare, il fantoccio viene riempito di fuochi d’artificio e di bengala accesi mediante una miccia nascosta nel didietro del fantoccio. Quando ho visto Giacobbe, confesso che senza volerlo gli ho dato una sbirciatina al sedere per controllare se c’era la miccia! Quanto al carattere, Giacobbe è un giovanotto molto umile e disponibile, e sempre pronto a svolgere i compiti più gravosi. Ciononostante non riesco a trovarlo simpatico. Ci sono persone antipatiche per natura, con cui a dispetto di tutta la buona volontà di questo mondo risulta impossibile diventare amici. L’anima le rigetta come lo stomaco rigetta l’olio di ricino e a quanto pare anche la maggior parte dei nostri commilitoni nutre nei suoi confronti lo stesso atteggiamento. Qualche volta ho provato a mettermi nei suoi panni, a immaginare tutta la rabbia che deve celarsi nella sua anima smarrita, ma neanche in questo caso sono riuscito a compatirlo. L’antipatia che provo per lui è evidentemente una questione di pelle.

Ecco perché, senza alcun motivo, ieri ho fatto i salti di gioia quando ho saputo che Giacobbe era stato incaricato dai francesi di preparare il rancio e uno dei suoi compagni, Jorgalàs (del quale ti parlerò in un altro momento), ubriaco fradicio, lo ha fatto nero di botte. Ci tengo a sottolineare che non ce l’ho affatto con i figli di Israele. Quando ero di stanza a Salonicco ho conosciuto molti ebrei e ho apprezzato soprattutto la bellezza delle ragazze, che si contrappone, inspiegabilmente, all’incredibile bruttezza delle vecchie ebree. Come che sia la notizia che Giacobbe era stato preso a botte mi ha riempito di felicità e adesso questa storia è giunto il momento che la racconti anche a te. (A rifletterci meglio, forse a rendermelo antipatico sono quei suoi occhietti castani che ammiccano in tutte le direzioni.)

Jorgalàs, insomma, non ha fatto altro che esternare la nostra comune e inspiegabile avversione per Giacobbe. A un tratto lo afferrò per la spallina con le quattro dita della mano sinistra, laggiù, nella vallata dove si trova la nostra cucina da campo. (Il mignolo glielo ha mozzato da un siluro esploso durante una battuta di pesca.)

«Giacobbe», gli disse mettendo la faccia barbuta sotto il naso adunco dell’ebreo. «Ehi, Giacobbe, si può sapere che cosa vi è venito in mente di torturare e inchiodare alla croce Nostro Signore come un delinquente qualsiasi?».

Giacobbe, disgustato dall’alito puzzolente di vino di Jorgalàs, capì che il compagno era ubriaco e cercò di stemperare la tensione scoppiando a ridere a crepapelle. Ma Jorgalàs non scherzava. Scosse di nuovo Giacobbe come un fuscello e gli fissò gli occhi iniettati di sangue nelle perline castane.

«Che cazzo ridi, stronzo di un ebreo? Voglio sapere perché avete messo in croce Nostro Signore! Che cosa vi aveva fatto per trattarlo in questo modo, eh?».

«Ma… Non sono stato io a metterlo in croce», rispose Giacobbe tutto tremante. «Qualcuno avrà voluto prenderti in giro».

Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Gli occhi di Jorgalàs per poco schizzarono fuori dalle orbite per l’indignazione, i baffi presero a vibrare come gli aculei di un riccio.

«Ma davvero? La morte di Nostro Signore sarebbe una presa in giro? Li hai mai letto i Vangeli? Hai mai letto la storia di Giuda?», proruppe Jorgalàs, che con una mossa a sorpresa gettò a terra Giacobbe e cominciò a dargliele di santa ragione. Alla fine quel poveraccio era proprio malridotto tanto che si recò dal capitano per chiedere di essere trasferito. Il capitano lo consolò promettendogli che avrebbe punito severamente Jorgalàs ma Giacobbe sgranò gli occhi e pregò il capitano di lasciar perdere. In caso contrario, disse, sarebbe stato ancora una volta lui, Giacobbe, a pagarne le conseguenze. Il capitano lo rassicurò. Fece venire Jorgalàs nel suo ricovero, intrecciò le mani dietro la schiena, si mise a passeggiare su e giù, e infine gli domandò:

«Perché hai picchiato Giacobbe?».

Jorgalàs era ancora ubriaco. Si sforzava di stare sull’attenti e di non perdere l’equilibrio sopra le gambe chiuse con i talloni uniti con l’unico risultato di far dondolare avanti e indietro il suo corpo segaligno. Finché a un certo punto dagli occhi cominciarono a sgorgargli calde lacrime, le lacrime incontenibili degli ubriachi.

«Signor capitano… Ho l’onore, signor capitano… Ecco, capitano, che cosa gli è venuto in mente di mettere in croce Nostro Signore? Che cosa gli aveva fatto? Lui li aveva guariti, lui li aveva liberati dagli spiriti immondi… Perché gli hanno fatto tanto male? Perché?».

 

Balafaras in prima linea

Stamattina alle dieci faceva già molto caldo e abbiamo ricevuto una visita sgradita. A Balafaras è venuta l’idea di convocare lo Stato maggiore e di ispezionare tutti insieme il nostro settore. Assieme a lui c’erano Kondulis, il maggiore del genio, Politis, l’interprete, l’ufficiale francese del settore e naturalmente il nostro capitano. Durante queste esibizioni del suo incomparabile coraggio Balafaras si compiace di portare soltanto il berretto e le spalline con i fregi dorati. Quando gli viene il ghiribizzo, si mette a gironzolare in pieno giorno in mezzo alle trincee per rendersi conto di persona di “come se la passano i suoi ragazzi”. Il disprezzo ostentato da questo imbecille nei confronti della morte è qualcosa di impossibile da spiegare a parole. Esplora le trincee sereno e tranquillo, impettito come il torrione di un castello, con la testa che gli sporge dal bordo della trincea. Avanza borioso come se si trovasse a una parata militare. Vedendolo nessuno sa se ammirarne prima l’incoscienza o il coraggio. Ovviamente i disgraziati ufficiali che lo accompagnano non osano dirgli una parola. Al contrario, lo seguono ovunque e con il cuore in gola sono costretti a camminare fieri e impettiti come lui dentro la trincea.

L’ufficiale francese quando vede comportamenti del genere va su tutte le furie perché sa che ad andarci di mezzo potremmo essere noi. Dalla trincea nemica, infatti, appena i soldati di vedetta scorgono il berretto tutto fregi dorati di Balafaras, ne danno comunicazione telefonica all’artiglieria affinché apra le danze. Allora la trincea comincia a essere bersagliata dalle granate. A Balafaras però non importa niente. Lui continua imperterrito le sue ispezioni lisciandosi la punta dei baffi con il dorso delle mani.

«Non è niente, semplice cortesia internazionale», dice con la sua voce strascicata, che scandisce le sillabe a una a una come se le passasse in rassegna. «È il nemico che spara a salve in onore del generale…».

Sentendo queste facezie, gli ufficiali che accompagnano Balafaras sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco per non mostrarsi meno coraggiosi e intrepidi di lui. È un miracolo che sia ancora vivo e che nessuna palla di cannone o granata l’abbia ancora fatto a pezzettini. Forse il segreto consiste nel fatto che non si ferma mai, che costituisce un “bersaglio mobile”. Balafaras dal canto suo ritiene di essere invulnerabile. Non è mai stato ferito, neppure durante le guerre balcaniche, dove invece a rimetterci la pelle sono stati i suoi uomini, passati uno per uno a fil di baionetta.

«La morte dà la caccia a quelli che cercano di sfuggirle», ripete fino alla noia. «Un po’ come le donne…».

Ebbene, di questa “cortesia internazionale” siamo stati oggetto anche oggi in occasione appunto della visita di Balafaras. I nemici si sono accorti del suo arrivo e ci hanno dato dentro a più non posso. Appena vide Balafaras, il capitano ci ha ordinato di chiuderci tutti dentro i nostri rifugi e un attimo dopo un colpo di cannone esplose proprio dalla parte del generale. Una scheggia andò a conficcarsi in un sacco di terra facendogli schizzare il terriccio sul berretto. Gli uomini del seguito rimasero a bocca aperta mentre Balafaras si fermò per fare una lavata di capo al nemico:

«Si può sapere che storia è questa? È così che mostrate rispetto per i vostri superiori?».

Poi si tolse il berretto, lo pulì soffiandoci sopra, con un’unghia tolse il terriccio infilatosi nei cordoni dorati e disse con pacatezza all’aiutante di campo:

«Per cortesia, tu che sei più giovane e veloce, fa’ un salto fuori dalla trincea a prendermi quel pezzo di proiettile. Voglio capire di che calibro è».

Gli ufficiali impallidirono e si scambiarono uno sguardo terrorizzato. L’aiutante di campo salutò come i gladiatori romani e balzò fuori dalla trincea. Per sua fortuna l’ufficiale francese, in tono rispettoso ma fermo, fece notare al generale che in base alle leggi militari è tassativamente proibito mettere a repentaglio senza motivo la vita dei soldati aggiungendo che in caso di violazione avrebbe dovuto fare rapporto allo Stato maggiore.

Balafaras gli diede una pacca sulle spalle. «Guarda che stavo soltanto scherzando, dov’è finito il tuo senso dell’umorismo?», rispose gesticolando. Poi invitò Politis, l’interprete, stravolto dalla paura, a tradurre in francese le sue parole.

«Digli che noi greci e quelli là lì di fronte siamo vecchi amici e che non ci facciamo il sangue amaro».

Per nostra fortuna la visita di Balafaras si è conclusa senza vittime se si eccettua un soldato ferito a un occhio da un sasso schizzato in seguito a un’esplosione. Le cannonate invece sono durate tutto il pomeriggio e la notte l’abbiamo trascorsa in bianco a riparare i danni dei bombardamenti e a maledire Balafaras, compresi tutti gli ascendenti e discendenti.

 

Per tutta la durata del bombardamento io provai una stretta al cuore. Poi è scesa la notte e sono andato anch’io assieme agli altri a riparare i danni trascinandomi la gamba dolorante. Ho raggiunto l’estremità della trincea e mi sono sistemato presso la cosiddetta “uscita” del reticolo di filo spinato. Poi mi sono trascinato carponi verso la zona della trincea con i sacchi di terra nell’intenzione di sollevarmi sulle punte e, con l’animo di un ladro o di un innamorato, allungare un braccio e accarezzare con la punta delle dita il papavero nascosto. Già pregustavo di nascosto la mia gioia.

In quel punto la trincea è distrutta. I sacchi sono sventrati e la terra è sparsa ovunque come se vi sia passato sopra un uragano. Del mio papavero non c’era nessuna traccia. L’aveva trovato e divelto la brutalità della guerra. Sono tornato indietro al mio ricovero e sono scoppiato in lacrime non so se perché ho ripensato a Gigantis o a causa di questo povero fiore, purpureo e delicato, che ha deciso di spuntare proprio sopra una trincea di fronte all’artiglieria del Pelister.

Balafaras invece se ne va sempre in giro, impettito e carico di decorazioni, senza alcun danno, compiaciuto e invulnerabile…

 

La grande notizia

La vita non riserva soltanto disgrazie ma anche, ogni tanto, qualche momento di gioia. Ieri il capitano mi ha confidato una grande notizia che mi ha riempito di entusiasmo: domani sera lasciamo la trincea e torniamo indietro al villaggio, in un “campo di riposo”! Le diserzioni, le perdite continue e la dissenteria (causata dal consumo di margarina e di carne in scatola) hanno gravemente compromesso il morale della divisione. Così hanno deciso di concederci un periodo di riposo per rimetterci in sesto e ricuperare le forze.

Questa è la grande notizia. Ho promesso al capitano di non parlarne con nessuno e questo rende quasi insopportabile la mia felicità. Non riesco a prendere sonno e non riesco neppure a mangiare.

Vedo i nostri soldati trascinarsi nella trincea con lo sguardo intorbidito, e il viso stravolto dalle sofferenze e dalla sporcizia. Mi verrebbe voglia di abbracciarli uno per uno e di rivelare anche a loro la grande novità. Ma ho dato la mia parola.

Fino a domani sera conterò tutti gli istanti che ci separano dal campo di riposo. Si tratta di una vera e propria agonia. Per fortuna la mia gamba va meglio. La massaggio energicamente con la nafta fin sulla coscia. Piego il ginocchio, stendo e allungo la gamba, contraggo i muscoli. Lo tratto come gli ingranaggi di un meccanismo da lubrificare con cura se si vuole ottenere il massimo rendimento.

 

Tre notti…

Tre notti di marcia. Tre notti intere. Un vero martirio. All’inizio credevo che la gamba non mi avrebbe dato problemi. Il capitano mi domandò se volevo consegnare lo zaino al servizio di trasporto bagagli. Con noi c’era anche il sergente maggiore, che in attessa della mia risposta ammiccava con aria canzonatoria. Questo sergente maggiore è un viscido sottufficiale di carriera che pensa soltanto a ottenere le spalline e con una cordiale avversione per i soldati con un certo grado di istruzione. In quello sguardo sprezzante leggevo chiaramente il seguente pensiero: “Eccolo il volontario Kostulas, lo studente Kostulas, che non è buono nemmeno a portare lo zaino. Le conosco io, le pappemolli come te!”.

Così ringraziai il capitano e risposi che lo zaino lo avrei portato io. Poi cominciai a marciare assieme a tutti gli altri. Ben presto però mi resi conto di aver sopravvalutato le mie forze. Già la prima notte fui costretto ad abbandonare la mia fila e a unirmi ai soldati più lenti.

Alla fine però non riuscii a sostenere neppure il loro ritmo cosicché a un certo punto rimasi completamente solo in una vallata selvaggia. Era la seconda notte di marcia e temevo di perdere la strada. Allora cercai di andare più in fretta nonostante le fitte terribili alla gamba, che mi costringevano a mordermi le labbra per il dolore. Decisi allora di trovarmi un angolino riparato in cui accamparmi in attesa dell’alba e proprio in quel momento scorsi un edificio diroccato nascosto dietro un fitto fogliame. Mi trascinai fin lì ma a un tratto fui bloccato da un fischio penetrante, che squarciò la notte e fu deformato grottescamente dalla vallata trasformandosi in un violento colpo di scudiscio.

«Altolà!».

Obbedii e rimasi ad aspettare, paralizzato dalla paura. Il fischio si ripeté per la seconda volta, altrettanto penetrante e pauroso. Sembrava che fosse stata la vallata stessa a starnutirlo assieme all’umidità della sera.

Io intanto continuavo ad aspettare. Avevo il cuore in gola e la gamba mi faceva un male d’inferno. Silenzio assoluto. Attesi ancora alcuni istanti, senza muovermi. Poi udii di nuovo la voce. Mi diceva qualcosa da lontano e proveniva dall’edificio. Non sembrava una voce umana, somigliava piuttosto allo schiamazzo di un gallo che si sforzava di diventare parola. Pensai che fosse uno straniero e così risposi in francese:

«Ami!».

Udii il famigerato scatto secco dell’otturatore che spinge una cartuccia nella canna del fucile, poi vidi una sagoma informe stagliarsi nell’oscurità e avvicinarsi con aria minacciosa. Giunto a una decina di passi da me, si fermò. Era un soldato basso come un nano, con una pelle di montone sulla palandrana, legata in vita dalla cinghia della giberna. Continuava a tenere il fucile puntato su di me con la baionetta in canna. Appoggiai a terra il fucile, sollevai le braccia e presentai le mie generalità in francese. Lui allora si accostò, abbassò il fucile sfiorandomi con la baionetta, tirò fuori una torcia elettrica, l’accese e mi aiutò a raggiungere le rovine. Colà accese una candela e finalmente ci guardammo in silenzio.

Era un cinese e con sé aveva un carro con due cavalli che brucavano l’erba. Anche se non potevo vederli, sentivo il fruscìo dell’erba strappata. Il cinese aveva due occhietti obliqui e due manine di bimbo che spuntavano appena dalle maniche della palandrana. Anche il resto del suo corpo facevz pensare a un bambino. L’edificio in rovina un tempo era stato un mulino ad acqua raso al suolo dalle granate o dalla bomba gettata da un aereo. Ne restava soltanto un sedile di legno circondato da un grosso muro semicircolare. Io mi slacciai lo zaino, me lo sfilai dalle spalle e mi gettai a terra, sopraffatto dal dolore e dalla stanchezza.

Il cinese intanto faceva di tutto per mettermi a mio agio. Diceva qualcosa indicando la sua borraccia e la sua gavetta, e ancora una volta mi sembrava un gallinaccio che si sforzava di parlare come un essere umano. Non mi andava di mangiare, accettai soltanto una tazza di vino che mi rimise in forze. Siccome il cinese conosceva soltanto la sua lingua, per farmi capire dovetti fare il mimo.

Il paese dove la nostra divisione si sarebbe accampata si chiamava Velùzina. Tirai fuori i paletti di sostegno della tenda, feci il gesto di piantarli a terra e intanto dicevo: «Velùzina! Velùzina!». Il cinese mi guardava assorto. Schiuse la bocca in un sorriso e a un certo punto scorsi un lampo nei suoi occhietti vispi. Aveva finalmente capito qualcosa e per la contentezza si produsse in una tempesta di monosillabi e di gesti scimmieschi. Il ghiaccio era stato rotto, e questo riempiva entrambi di felicità, ma ci rendevamo conto che il linguaggio del corpo non bastava. Lui disse qualcosa in cinese e io risposi più agitando le spalle e la testa che ricorrendo al linguaggio verbale.

Cercai di fargli capire che mi ero smarrito e lo pregai di aiutarmi a ritrovare la strada. Lui rispose: «Pas compris, pas compris». Siamo scoppiati tutti e due a ridere. La sua risata era strana, somigliava a una specie di singhiozzo, e smettemmo di parlare.

Incominciammo a fumare. Lui mi offrì una sigaretta molto scadente, io gli regalai una sigaretta greca di prima qualità, una di quelle che fumavamo con il capitano, facendogli fare i salti di gioia. Seguirono lunghi minuti di silenzio, durante i quali ci scambiammo sorrisi a vicenda. A un certo punto il cinese tirò fuori un portafoglio dalla giacca, lo aprì e prese una fotografia. Una ragazza cinese con due cinesini identici a quelli che si vedono dipinti sulle tazze stavano seduti su alcuni sgabelli. Somigliavano al soldato che avevo davanti così come del resto tutti i cinesi si somigliano tra loro. Erano sua moglie e i suoi due figli. Per farmelo capire, indicò la moglie nella fotografia mimando l’atto sessuale. Non c’era altro modo per spiegarmelo. In quel momento mi resi conto che davanti a me avevo un povero diavolo strappato da qualche villaggio dell’Indocina e trascinato dalla guerra in questa vallata della Macedonia. Cionostante questo poveraccio era al settimo cielo, felice di poter esprimere l’amore che provava per la sua famiglia a uno sconosciuto. Il suo gesto mi commosse così decisi nch’io di mostrargli la tua fotografia. Sempre mimando l’atto sessuale mi domandò se fossi mia moglie e adesso che ci penso, mi accorgo che non mi sentii offeso, che non il suo strano modo di comunicare non lo trovai scurrile né sconveniente. Rimanemmo seduti uno accanto all’altro un paio d’ore, poi il cinese si alzò, si preparò, mi indicò le mie cose per farmi capire che anch’io dovevo prepararmi, e attaccò i cavalli al carro. Con lo sguardo mi invitò a salire a bordo.

«Allons?».

«Allons!».

«Velùzina?».

«Velùzina!».

Montai sul carro e dopo essersi accertato che mi ero coricato per bene sui mucchi di coperte che trasportava, scosse le briglie e ci avviammo. Esortava le bestie ad accelerare con uno schiocco della lingua sul palato. La gamba mi doleva di meno nonostante gli scossoni del carro in movimento.

Il cielo notturno era quasi completamente privo di stelle e l’unico rumore che sentivo era quello delle ruote che cigolavano sulla lunga strada militare. Mi voltai a dare un’occhiata alle colline che usavamo come nascondiglio. Alcuni razzi riuscivano a superarne la cima e per spegnersi infine come malinconiche stelle cadenti. Gli ultimi sprazzi di luce svanivano dietro le colline più basse. Alcuni razzi venivano annunciati soltanto dal bagliore biancastro che appariva all’improvviso e su cui si stagliava la sagoma delle colline. A un tratto si scorse una lunga raffica, uno, due, tre, quattro razzi verdi uno dopo l’altro. Subito dopo si udì una batteria di cannoni che un paio di minuti dopo si acquietò. In quel momento la guerra mi parve una cosa molto lontana! A un certo punto il cinese mi disse:

«Camarade!».

Mi alzai sui gomiti per vedere che cosa volesse. Mi indicò la sigaretta che fumavo.

«No tabac!».

Credetti che volesse una sigaretta e gliene offrii una. Respinse bruscamente la mia mano gridando di nuovo:

«No, no tabac!».

Finalmente capii e spensi la sigaretta. In quel punto la strada descriveva una curva quasi regolare, che brillava come un nastro nella notte. Il cinese sferzò con violenza i cavalli e superammo la curva a gran velocità.

Io intanto mi rivolgevo intorno occhiate spaurite tenendomi ben stretto alle sponde del carro per non essere sbalzato fuori da qualche scossone improvviso. La strada era costellata di crateri scavati dai proiettili. Alcuni giacevano al centro dei crateri, inesplosi. Sembravano animali neri che giacevano sulla polvere bianca della strada. A quanto pareva quel passo era stato particolarmente preso di mira dal nemico, che sparava al primo sospetto di rumore o di luce. In gergo militare questi punti sono detti “bersagli privilegiati”: vuol dire che il nemico vi tiene sempre puntati un paio di cannoni, giorno e notte, e i colpi arrivano sempre a destinazione.

Dopo circa un paio d’ore vidi spuntare da un angolo del cielo una luna scialba e acquosa che a malapena si scorgeva. Quando i primi raggi di sole spuntarono, il cinese fermò il carro presso un bivio. Mi indicò la strada a destra con un gesto accorato e puntò il dito verso il cartello nero con le lettere bianche sul ciglio della strada:

«Allons… Velùzina…».

Si portò la mano al petto e poi indicò la strada a sinistra. Dovevo scendere. Io gli presi la mano e gliela tenni stretta a lungo nella mia. Lui si mise a ridere e anche stavolta sembrava che singhiozzasse. Mi stava dicendo qualcosa, Dio solo sa che cosa. Rimasi in piedi, costernato e dolorante, a guardare la sagoma di quell’uomo nella notte trasparente. Lui piegò il tronco, scosse leggermente le briglie e i cavalli si mossero. Poi all’improvviso tirò le briglie, fermò i cavalli e gridò:

«Camarade!».

Corsi da lui e mi appoggia al carro. Il cinese si era alzato in piedi, sollevò il sedile del posto di guida, tirò fuori una mela cotogna e me la diede. Infine mi colpì leggermente lo zaino con la mano, mi fece allontanare dal carro, incitò i cavalli e se ne andò.

La notte seguente prese a cadere una pioggerellina sottile e incessante che rese la marcia un vero supplizio. A ogni passo la gamba mi faceva sempre più male, tanto che per andare avanti fui costretto a usare il fucile come una stampella. Ciononostante ero determinato a giungere a destinazione anche a costo della vita. La mela cotogna del cinese – il primo frutto che avessi visto da quando ero partito da Lesbo – era tutto quello che avevo mangiato da tre giorni. Avevo le vertigini e il corpo me lo sentivo bruciare. Ogni passo mi penetrava nelle ossa come una coltellata. Ero tentato dall’idea di lasciarmi cadere al suolo e di rotolarmi nel fango per ottenere un po’ di refrigerio, ma mi rendevo conto che se avessi ceduto, non mi sarei alzato più. Così strinsi i denti e andai avanti. A rendere peggiore il mio martirio era l’assoluta oscurità della notte. Avevo la sensazione che intorno a me ci fossero battaglioni interi di soldati avvolti nei loro teli da tenda. La loro sagoma informe era tutt’uno con le tenebre. Quasi non si vedevano neppure i cartelli stradali, così mi spostai sul lato destro per non correre il rischio di non vedere quello con su scritto “Velùzina”. Sapevo che prima o poi lo avrei incontrato ed era lì che avrei dovuto svoltare. Per leggere i cartelli accendevo dei fiammiferi e quando finirono, davanti a ogni cartello stradale mi fermavo, mi appoggiavo da qualche parte e aspettavo che qualcuno passasse per farmi luce e consentirmi di leggere il cartello. A volte però passavano lunghi minuti prima che passasse qualcuno, minuti d’inferno durante i quali la pioggia mi sferzava il viso. Le coperte gonfie d’acqua erano pesanti come il piombo. Stringevo i denti e la mia voce, che interrogava i passanti, mi sembrava quella di qualcun altro.

«Alt! Écoutez… Écoutez, mon camarade!».

Alcuni sentendo la mia voce mettevano subito mano alle armi. Altri non rispondevano neppure. Altri ancora imprecavano in lingue sconosciute e tiravano dritto per la loro strada. Io però i cartelli stradali dovevo assolutamente leggerli perché se avessi perso il bivio per Velùzina, avrei percorso per intero tutta la strada militare e sarei tornato indietro a Flòrina!

Era giorno quando finalmente trovai il bivacco del mio reggimento e crollai a terra più morto che vivo davanti alla tenda di mio fratello.

 

Il canto della vita

Nella tenda di mio fratello rimasi due giorni e due notti, immobile, senza mangiare né pensare. Fu un abbrutimento perfetto e ristoratore donatomi dal dolore terribile e dalla stanchezza. I soldati che passavano davanti alla tenda mi parevano creature provenienti da un altro mondo, incomprensibili e indifferenti alla mia sorte. Mio fratello aveva preso come compagno di tenda il soldato scelto Dimitratos, che si faceva in quattro per servirlo e ciononostante riusciva a conservare la sua dignità. Nei due giorni che sono rimasto con loro nella tenda si è preso cura anche di me, sollecito e premuroso come un’infermiera. Ne scorgevo il nasone prominente e gli occhi penetranti sovrastati da sopracciglia folte e ritorte come baffi. Lo sentivo mentre mi rimboccava le coperte per proteggermi dalla frescura dell’alba oppure mentre mi massaggiava la gamba, dal ginocchio fino alla caviglia, con le sue grosse dita. Ogni tanto intingeva le mani in un coperchio di gavetta pieno di nafta che reggeva mio fratello, inginocchiato accanto a me. Mi frizionava la gamba con gesti energici causandomi un dolore che era un dolore di sollievo. Chiudevo gli occhi e stringevo i denti per resistere. Poi scivolavo in un dolce abisso di torpore che mi ottenebrava i sensi. I rumori si attenuavano, il mondo intero sembrava avvolto in una nuvola di ovatta. Dentro di me c’era tanta vita quanta ce n’è nell’erba che cresce nei prati e che chiunque può schiacciare sotto le scarpe senza temerne la reazione. Mi sentivo soltanto abbastanza forte da opporre un netto rifiuto quando sentivo qualcuno proporre il mio ricovero in ospedale.

Nel giro di un paio di giorno la stanchezza e il dolore cedettero il passo a un rinnovato ottimismo. Finalmente aprii gli occhi e mi parve che fosse giunto il momento di alzarsi dal letto. Il torpore si dissolse e sentii la vita formicolarmi nel corpo, mescolarsi al sangue e circolarmi nelle vene come le bollicine scoppiettanti del vino frizzante. Ero solo nella tenda, mio fratello e Dimitratos erano andati alla cucina da campo per la distribuzione del rancio. Aprii gli occhi, mi voltai supino, mi liberai delle coltri e mi accorsi di essere sveglio e affamato.

La tenda era stata coperta da rami e foglie per nasconderla agli aeroplani. Il sole illuminava il telone della tenda mettendo in rilievo la sagoma graziosa dei rami e delle tenere foglioline, di cui si scorgevano i gambi e le nervature, ma anche i fiorellini e i petali. Mi parve di trovarmi di fronte a una decorazione sopraffina, che scrutai con gioiosa voluttà. I ramoscelli e le foglie creavano disegni originali e inattesi, di grande raffinatezza, che sembravano frutto del caso ma in realtà tradivano una grande accuratezza. Il sublime ricamo delle ombre, nato dalla giustapposizione di semplici ramoscelli disposti a casaccio sopra la tenda e illuminati dai raggi del sole, donarono al mio animo il piacere dell’apprezzamento estetico, di cui ero rimasto privo per tanto tempo. Mi sentii travolgere completamente da un flusso di bellezza che attraversava instancabile il creato e spingeva la nostra anima a cantare come una fanciulla innamorata. Tanto bastò per farmi sentire di nuovo il richiamo della vita e una vocina allegra rispose da dentro il mio cuore.

Ah, com’è bello avere venticinque anni, ritornare vivo dalla trincea, essere innamorato e serbare nel cuore Lesbo. La vita è di una bellezza sconfinata. Adesso so che ha un valore inestimabile e posso gridarlo al mondo intero. Sono finalmente capace di suggerla fino all’ultimo goccio come un esperto di vini. So che ogni attimo che mi scorre addosso è prezioso, così vorrei fermarlo e mormorargli in un orecchio: “Va’ pure, ma sappi che non sei passato inosservato. Ti ho visto, ti ho goduto e ti ringrazio di essere venuto!”.

Sono pieno di gioia e di commozione. È una sensazione strana. La mia esistenza la sento come uno strumento perfetto e sonoro, di estrema sensibilità. Migliaia e migliaia di sottilissime corde dorate, simili a capelli biondi, sono tese su di esso. Questo strumento genera una musica piena di gioia commossa, vibra e risuona con dolcezza come se all’interno ronzassero sciami di insetti variopinti, minuscoli come granelli di polvere, che agitano le ali generando un’infinità di piccole voci. Le mille e mille corde di questo strumento fremono a causa delle note, vibrano liete e struggenti sprigionando un ronzio meraviglioso. Basta una parola, un verso, una nota, uno sguardo, un sorriso, una macchia di colore, un raggio di sole e un paio di rametti alla rinfusa su una tenda militare per indurre questo strumento a cantare e a piangere di felicità. Stringo forte i pugni finché mi sento le unghie penetrare nella carne. Questo strumento tanto delicato e sensibile sono io. Esso risponde al richiamo della vita che ronza sommessa e con dolcezza facendo vibrare le migliaia e migliaia di corde dorate. Sono un connaisseur della vita e affermo che vale la pena di viverla! Proprio così, la vita vale la pena di essere vissuta! Se piango in cuor mio è perché i poveri giorni della mia vita non sono altro che una manciata di foglioline sottili di pioppo lanciate nell’infinito, su cui riverberano i raggi del sole. Essi sono come le bollicine colorate della schiuma che ribolle e svanisce sulla battigia, che, prima di morire, durano il tempo necessario a riflettere un raggio fugace di sole. Ma anche questo è un dono grandissimo perché seppur breve, la vita di quelle bollicine è stata capace di contenere, sia pure per un istante, l’astro infuocato del sole, immortale e gigantesco.

Prima di venire qui in trincea non mi ero mai soffermato a riflettere sul valore incommensurabile della vita. A partire da oggi, invece, ho deciso di godermela tutta, istante dopo istante. Sono come un avaro, che la vita ha deciso di spenderla con parsimonia per non sprecarne neppure un briciolo. Perché il tempo a nostra disposizione è limitato, come la licenza di un soldato che è tornato al paese. O Vita, sono una freccia scoccata dalla corda tesa del tuo arco, che vola percorrendo una parabola destinata a concludersi con una caduta. Sono una goccia d’acqua schizzata nella luce dalle nari spumose dell’onda e destinata a precipitare di nuovo sulla superficie sconfinata del mare. Adesso mi sento in grado di goderti: dal momento in cui hai cominciato a strisciare e a farti largo come una serpe lungo i sentieri vergini e tortuosi che fuoriescono dalle tenebre dell’inesistenza, fino all’ultimo istante. La tua fine sarà anche la mia fine. L’ultima goccia della tua clessidra ormai vuota. E io sarò ridotto a un piccolo ciottolo mescolato alla sabbia sopra un lido di Lesbo.

 

La campagna qua intorno era sicuramente coltivata. Qua e là si vede ancora qualche pianta di peperoni secca e con i rami spezzati, carica di frutti maturi. Sono rossi come la carne viva e hanno la forma repellente della foia canina.

La nostra tenda è piena di coccinelle e così ho deciso di catturarne una. Ha il dorso rosso, bruno o marrone, punteggiato di macchioline nere. La capovolgo nella palma della mia mano e la bestiola rattrappisce le zampette, spaventata. Fa finta di essere morta per salvarsi la vita. La riappoggio sul ventre ma la bestiola continua a rimanere immobile. Somiglia a una gemma preziosa lavorata con lo smalto. Finalmente si decide ad allungare le zampette e comincia a muoversi. Io però la prendo e la riporto al punto di partenza. Lei ricomincia a correre, disorientata, finché a un certo punto spiega le elitre, tira fuori due alucce trasparenti e spicca il volo.

Anche se non smetto di osservare l’apertura triangolare della tenda, tutto quello che vedo sono le spieghe appena mietute sulla terra soffice e calda, simile alla testa bionda di un fanciullo a cui un barbiere maldestro abbia tagliato quasi a zero i capelli. Le formiche lavorano instancabili, rapide e silenziose, e trasportano al nido chicchi di grano e spighe tenere. Non sono molto diverse da un plotone di soldati incaricato dei vettovagliamenti, che non vede l’ora di tornare alla base prima di cadere vittima di un agguato del nemico.

Una lucertolina verde come un peperone si è arrampicata sulla scatola azzurra della maschera appesa al palo di sostegno della tenda. È un posto che deve piacerle, perché continua a fare tante mossettine graziose e non ha intenzione di andarsene. Mi fissa con le perline degli occhi e ha il respiro concitato di una damigella dopo una lunga corsa. Sotto il mento le pende una pappagorgia identica a quella delle attempate matrone del circolo filantropico. Anch’io resto immobile a guardarla, ammirandone l’eleganza. Infine scoppio in una risata che mi scuote tutto e la fa scappare. La lucertola fugge senza guardarsi indietro, con il cuore in gola per la paura.

Intreccio le mani dietro la nuca e mi stendo pigramente facendo scricchiolare le mie articolazioni rattrappite. I muscoli si muovono con elasticità, pieni di energia latente. Il dolore alla gamba è meno forte, mi sento travolgere dalla marea incontenibile della giovinezza.

Mi trascino fuori della tenda per sentirmi il caldo massaggio del sole sulle spalle e sulle braccia nude, per sentirmi le sue dita tra i capelli. Da lontano vedo arrivare mio fratello e Dimitratos con tre gavette piene fino all’orlo. Si muovono con cautela per non versarne neanche una goccia. Per maggior comodità hanno infilato i cucchiai dentro il manico.

Quando mi vedono, esultano per la gioia. Mio fratello ride e alza un braccio verso il sole. Io rispondo gridando:

«Ehiiiiii!!!!».

Il rancio di oggi prevede una buona zuppa di fagioli con pomodoro e peperoncino. Vi aggiungo qualche galletta a pezzetti, poi affondo il cucchiaio e mangio. Ho una fame da lupi. A un certo punto Dimitratos dice con la bocca piena:

«Dentro il mio zaino ci sono delle ghiottonerie per il nostro ammalato. Guarda qua!».

Infila la mano nello zaino e tira fuori una manciata di peperoni verdi appena colti. Reinfila la mano nello zaino e mi porge con aria trionfale un’appetitosa pannocchia di granturco con tanto di barbe setose. Vi affondo i denti. Rido a crepapelle. Che senso ha uccidere e farci uccidere?

 

Nella casa della bontà

C’è una cosa di cui con il passare del tempo mi rendo conto sempre di più.

Se voglio che la mia gamba guarisca, ha detto il medico, devo evitare l’umidità della tenda. Siccome mi sono rifiutato di farmi ricoverare in ospedale, il capitano mi ha proposto di trasferirmi qui in paese, in una casa di mattoni. Ci rimarrò fino alla partenza del reggimento, cosa che, spero, avverrà il più tardi possibile.

Per il momento mi godo questa fortuna insperata. Passo il tempo ad ammirare il soffitto di legno. Non riesco a credere di non essere più in un bivacco pieno di soldati. Adesso sto in una casa vera, di mattoni! “Mattoni” è la parola d’ordine che circola tra i soldati e che a volte viene pronunciata ad alta voce alle spalle di Balafaras. «Mattoni!». «Come avete detto?». «La truppa le augura lunga vita, signor generale», risponde l’aiutante di campo. Intanto il mio cuore svolazza felice come una rondine e la mia anima freme di esaltazione.

Gli abitanti del paese mi hanno accolto con cordiale semplicità. Appena rimasto da solo con loro, hanno cominciato a parlarmi tutti insieme nella loro lingua, che io non capisco.

Sono due vecchi, un ragazzo, alcune donne e una torma di mocciosi che abitano tutti insieme in due case adiacenti e unite da una grande loggia coperta. Sembravano contenti di ospitarmi e sorridevano in continuazione finché a un certo punto si sono accorti che non capivo una parola di quanto dicevano. Allora smisero di rivolgersi a me e, immagino, si misero a parlare di me tra di loro cercando di indovinare le risposte alle domande che mi rivolgevano e che io non capivo. Dal canto mio, li guardavo con un sorriso ebete e anche a loro scappava da ridere. L’unica cosa che capivo è che si trattava di persone semplici, abituate a lavorare sodo per un tozzo di pane, e che la loro società era priva di gerarchie. Inoltre capivo che le loro erano parole buone, schiette come il loro pane, e profumate di solidarietà e compassione. Per questo quando all’inizio mi circondarono avvolgendomi nella loro cortese petulanza e tendendomi le loro manone ruvide e nodose, i miei occhi si inumidirono di lacrime e risposi al loro saluto cercando di stringere più mani possibili.

A un certo punto due bambine, le figlie gemelle di Avtcha, mi si aggrapparono allo zaino e presero a frugarmi le tasche vuote. Ancora adesso, quando ci penso, mi sento fremere di commossa dolcezza. Avtcha è la padrona di casa e le sue due bambine si somigliano come due formine colorate. Hanno le guance rosa, gli occhi azzurri, e capelli biondi e ricci che Avtcha suole abbellire con nastrini rossi e blu alle cui estremità sono legate pietruzze azzurre. Combinano tutto il giorno marachelle e hanno sempre il visino imbrattato del granturco arrostito che sgranocchiano senza posa.

Avtcha si guadagna da vivere come filatrice. Appoggia i grandi piedi nudi e bianchi sui pedali e comincia a muoverli su e giù. Ogni tanto si ferma con la spola in mano per rivolgere un rimprovero bonario alle mie piccole amiche, impegnate in una chiassosa conversazione riguardante l’emblema nazionale sul mio caschetto. Sono greco o serbo? Sembra facile. La madre, mi sembra di capire, spiega loro che sono greco, cristiano come loro, e che si devono prendere cura della mia gamba malata.

Io però mi considero soltanto un essere umano molto stanco e spaventato, carico di desideri e di nostalgia. Un essere umano esausto ma felice di poter condividere la quotidianità con queste persone semplici e generose, create da un Dio buono. Mi fa molto piacere vedere che sono tutti alti e ben piantati, con l’eccezione di un ragazzo magro come un chiodo, e premurosi come tutti gli uomini prima che abbandonassero la retta via. Che sono persone vicine a Dio e vicine alla terra si capisce già al primo sguardo. Le case, gli abiti, il pane, l’aratro, la mobilia e le lucerne, tutto insomma, sono frutto delle loro mani operose. Ogni suppellettile nelle loro case testimonia una vittoria nella battaglia combattuta senza sosta da quelle mani contro la materia bruta. Per questo sono rugose e la loro pelle è secca e callosa come il legno.

Il vitto è a base di torte salate, peperoni, pane di frumento, polenta con il pepe rosso, legumi e zucche cotte al forno che tagliano a fette e mangiano come noi mangiamo il cocomero. Bevono acqua fresca e lavorano la terra, che elargisce loro una felicità semplice e sempre uguale a se stessa. E quando arriva il momento supremo, i loro corpi vinti dalla fatica, simili a frutti maturi, tornano alla terra che li ha generati e qui si decompongono in pace assieme ai corpi degli antenati. E su questa stessa terra spunteranno di nuovo le spighe dorate e si udirà il fruscio delle pannocchie.

La loro anima, ammesso che l’anima esista, ascende al cielo come una voluta d’incenso che si sprigiona dal turibolo della terra. La sera, per riposarsi, si adagiano sui giacigli e si appoggiano sul gomito. Si rollano lentamente una sigaretta bagnandola ben bene di saliva, l’infilano in un grosso bocchino e fumano in silenzio. Osservano distratti il fumo che sale verso il soffitto e si dissolve nell’aria. Passano ore intere a fumare appoggiati sul gomito. Pensano, forse. O forse non pensano a niente. Non ci sarebbe niente di strano perché le persone semplici sono abituate a riposarsi nell’unità del corpo e dello spirito. Per loro pensare è un lavoro, non una malattia.

Ma forse sono semplicemente troppo stanchi per parlare. Un filo azzurrognolo si leva dalla punta della sigaretta e sale uniforme oppure si avvolge in volute sottili tremolando nell’aria tranquilla, che profuma di spighe e di granturco appena trebbiato. Allo stesso modo immagino la loro anima salire al cospetto di Dio.

Ogni tanto si scambiano qualche parola e poi tacciono di nuovo. Forse sono soltanto cenni d’intesa. Non sono consapevoli della loro felicità. Soltanto adesso che hanno visto i barbari rovesciarsi su di loro dai quattro angoli della terra, saccheggiare le loro terre e i loro campi, devastare i cimiteri e calpestare la loro inconsapevolezza di felicità, soltanto adesso cominciano a rendersi conto di essere felici. E pregano Dio affinché restituisca loro la vita pacifica di un tempo. Alcuni mesi fa, era estate, una granata ha colpito la tettoia della loggia facendone crollare la trave di sostegno. Oggi questa casa della pace reca una ferita profonda causata dalla guerra. Sulla trave spezzata si scorgono ancora i resti di un nido di rondine. Se un giorno gli uomini che fanno la guerra potessero visitare questo villaggio per inginocchiarsi al centro della nostra grande loggia e guardare in alto la tettoia di questa bella casa sfondata dalle granate, che hanno ucciso anche le rondini, attraverso la fenditura scorgerebbero l’occhio azzurro di una divinità arcigna, l’occhio di una divinità adirata.

Allora forse smetterebbero di fare la guerra.

Nutro un profondo rispetto per questa tettoia sfondata e per questa casa, in cui nonostante tutto regnano ancora la bontà e la pace. Sia benedetta questa sacra dimora che mi ha accolto con tanta cordialità sotto le sue tegole rosse avvolgendo nel suo abbraccio protettivo il mio corpo sofferente. Prego Dio affinché la ricompensi facendovi tornare le rondini.

Da ogni oggetto di questa casa mi sembra che emani un senso di consolazione e di gioia. Sul bordo della grande ciotola di terracotta colma di latte spumeggiante che mi porgono, le mie labbra si posano fiduciose lasciando l’impronta di un bacio. La sera le donne accendono una lampada accingendosi alla veglia notturna. Preparano la conocchia, cardano la lana e rattoppano i panni. A un certo punto la lampada sembra che si spenga, poi però rinvigorisce e sboccia di nuovo come un fiore di campo. I tre stoppini sembrano occhietti d’oro appesantiti dal sonno e dalla stanchezza, che a un tratto si spalancano e splendono di nuovo. Le donne lavorano, chiacchierano tranquille oppure tacciono. Ogni tanto mormorano qualcosa e subito dopo esplodono in una risata argentina che fa vibrare l’aria. Mi ricordano le nacchere e i sonagli del tamburello, o un suono fresco come quello dei ciottoli bagnati del lido quando li trascina via l’onda che si infrange e si ritira verso il mare.

In questo momento sono sdraiato su un comodo giaciglio. Avtcha me lo ha preparato riempiendo di foglie di granturco e cucendo insieme i miei due teli da tenda. Quando mi ci rigiro sopra, le foglie secche fanno un gran baccano ma il piacere che provo è immenso. Il giaciglio poggia sopra una grande porta appoggiata su due ciocchi di legno. Qui tutto è al’insegna dell’armonia, della pace e dell’amore. I bambini hanno fatto il bagno, hanno recitato le preghiere e si sono coricati. Uno di loro si è anche preso una bella sculacciata. È andato a letto frignando e tirando su con il naso ma ben presto il sonno è sopraggiunto a spegnerne il lamento. I vecchi non smettono un istante di fumare. Quando la sigaretta finisce, si appiccicano il mozzicone sotto la scarpa, se ne rollano un’altra e l’accendono staccando il mozzicone dalla suola. Le donne cardano la lana e chiacchierano intorno alla lampada come uno stormo di uccelli. A volte ho la sensazione che parlino di me perché si voltano tutte insieme verso l’angolo in ombra ove si trova il mio giaciglio. Per mettermi a fuoco socchiudono in modo strano gli occhi. Le più grandi scoppiano in una risata cordiale, invece quelle più giovani abbozzano un sorriso timido toccandosi con il gomito. Hanno la carnagione bianca e gli occhi azzurri, a eccezione di una ragazzina di quindici o sedici anni, che ha la pelle bruna e morbida come la buccia di una pesca, e il corpo agile e snello come un ramo di ciliegio. È molto timida e arrossisce tutta ogni volta che la saluto. Anche le orecchie e il collo diventano rossi, e sopra gli occhi castani palpita un paio di morbide ciglia. Quando ride, le labbra somigliano a un fiore rosso e vigoroso come il corbezzolo. I denti brillano sotto il sole e il volto le si illumina. In quei momenti somiglia a una fiera in amore.

Il suo nome è Ghivezo.

Il suono del suo nome si trova in armonia perfetta con la sua persona. Attorno a lei tutto è un dolce tepore, come attorno a un cespuglio di rose rosse. Non si poteva chiamare in nessun altro modo: Ghivezo.

 

Il giudizio del Signore

Che felicità farsi la barba, indossare biancheria pulita, fresca di bucato e profumata di ferro da stiro, e non sentirsi addosso i pidocchi. Finora mi sembra di essere stato prigioniero di uno spirito maligno, come quelli delle favole. Uno spirito che si era impadronito della mia natura umana e l’aveva gettata nel corpo sudicio di un maiale. La mia anima lo detestava come si detesta un abito lercio di cui non ci si può liberare. Ma proprio come accade nelle favole, adesso mi trovo nel villaggio incantato delle fate buone, che hanno sciolto il sortilegio dello spirito maligno. Sono di nuovo un essere umano e anzi, dopo essermi sbarbato, mi è parso addirittura di rinascere con una pelle nuova, morbida e vellutata come quella di un bambino. Adoro accarezzarmi le guance appena rasate. Quando il barbiere se n’è andato, Ghivezo mi ha portato di nascosto il suo specchio (da queste parti è considerato sconveniente per un uomo guardarsi nello specchio). Dopo molti mesi ho avuto la gioia di riscoprire il mio volto. Ho persino sorriso a me stesso come se avessi ritrovato un vecchio amico che non vedevo da molti anni. Adesso che mi sono rimesso in sesto devo dire che non sono niente male. I capelli neri e ricci, cresciuti alla rinfusa come un cespuglio di lecci selvatici, mi incorniciano il volto emaciato. Scorgo il riflesso di Ghivezo che mi sbircia compiaciuta mentre sorrido nel modesto specchio. Sul retro dello specchio è raffigurata la sagoma irsuta di una scimmia che fa le smorfie mettendo in mostra i denti. Se muovo lo specchietto, nello spazio dei denti compaiono cinque perline bianche simili a denti nei loro alveoli.

«Anch’io ero ridotto così!», le dico.

Lei protesta con veemenza come se volesse dire «no, no!». Vorrebbe aggiungere qualcosa ma cambia idea e scappa via di corsa come un uccello. Il suo corpo è agile e flessuoso come un ramo fiorito di ciliegio.

Sulla mia tempia sinistra, proprio sopra l’orecchio, ho scoperto due capelli bianchi. I primi. Sarei un bugiardo se dicessi che non me ne importa niente. La scoperta mi ha messo di cattivo umore e soltanto verso sera mi sono sentito meglio. Mi sembra presto per avere i capelli bianchi. Ho cominciato a pensare agli anni ormai lontani della spensieratezza, alla giovinezza sprecata dentro i budelli bui delle trincee e nelle caverne piene di ragnatele. Gli anni migliori della mia vita, freschi come la polpa di un cocomero nel cuore dell’estate.

Credo che al momento della resa dei conti, quando ci presenteremo al cospetto di Dio, il creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili, Egli ci domanderà con voce tonante: «Ehi voi, laggiù, gobbi e storpi, strabici e con il labbro leporino, sdentati, tisici e mutilati, con le ossa rotte e deformate dall’artrite, costretti ad andare in giro con le stampelle, con gli occhi di vetro e le gambe paralizzate, o con il petto ferito, ditemi un po’: chi siete e che cosa volete da me? Che ne avete fatto del talento che vi ho consegnato? Dove sono gli occhi brillanti d’amore e i capelli più neri dell’uva nera? Che ne è stato dei corpi sani e robusti che ho creato per voi? Le braccia forti come l’acciaio le avete usate in modo laborioso e creativo, per costruire i nuovi sentieri della felicità e per sollevare al cielo bimbi biondi e con le guance rubizze? Le mani le avete usate per condurre l’aratro e palpare il seno turgido delle donne? Le labbra le avete schiuse per cantare di gioia e saziarsi di baci? Le gambe vi sono servite per correre nelle praterie della vita e per danzare con le persone amate? Tra le ginocchia d’acciaio avete tenuto stretto il corpo di una donna, avete sparso il germe della vita dentro il suo antro segreto, dove il Piacere e la Creazione formano un tutt’uno? Ditemi, allora, che ne avete fatto di tutto questo?».

E noi, migliaia e milioni di eroi della trincea, dopo aver udito sull’attenti (con le dita della mano destra unite sulla visiera dell’elmetto, il gomito all’altezza della spalla e il braccio sinistro parallelo al tronco con il mignolo accanto alla cucitura dei calzoni, come da regolamento) la voce di Dio, Signore e Creatore della terra, e dopo averLo salutato con deferenza come salutiamo gli ufficiali in visita al Reggimento, avremo l’onore di risponderGli con l’affettata modestia tipica dei personaggi dei romanzi:

«Signore, Signore, abbiamo fatto qualcosa di più bello di quello che ci hai chiesto. Guarda qui le nostre medaglie, le decorazioni e le ferite, guarda i distintivi placcati d’argento, ognuno dei quali vuol dire un semestre trascorso nel buio di una trincea. Guarda gli ordini del giorno, le menzioni d’onore e tutte le altre imprese valorose. Tutto questo, Signore, sono la prova che abbiamo combattuto per la “libertà dei popoli”. Quanto alla giovinezza, quella l’abbiamo gettata alle ortiche. Siamo rimasti rintanati per anni in un budello sotterraneo strisciando come vermi e trasportando quintali di ferraglia, di munizioni e di altri strumenti di morte, carichi come bestie da soma. Guarda la nostra spina dorsale curva come un arco e le nostre spalle coperte dalle piaghe del decubito. Guarda le gambe maciullate dai cannoni o storpiate dall’artrite. I nostri occhi hanno visto ogni possibile tragedia e le nostre braccia hanno scavato buche e fossati in cui nasconderci quando tremavano come animali. Abbiamo anche scavato un’infinità di tombe e di latrine da campo. Poi, imbracciate le armi da fuoco, abbiamo eliminato altri come noi. In mano tenevamo strette le bombe a mano, ben più dure del seno delle ragazze. Eccole qua, sopra si vede ancora il sangue rappreso dei nemici, che ci si appiccica sulle dita. Le donne non sappiamo che cosa siano e figli non ne abbiamo messi al mondo. La nostra sposa è la Patria, i nostri figli sono i nostri fucili. Assieme al sangue, sulla terra abbiamo sparso anche il nostro seme. Il frumento non l’abbiamo mai seminato, in compenso abbiamo arato gli altipiani rocciosi e abbiamo avvolto la terra in gomitoli di filo spinato. Siamo caduti “gloriosamente” prima ancora di diventare adulti. Il nostro è un eroismo puro e duro come ci ha confermato Balafaras. Ognuno di noi ha in tasca la “bella lettera” della divisione. Siamo poco meno di dèi come ci hanno confermato tutti i giornali della Capitale e della Provincia, sia in prima pagina sia nelle pagine interne. Intanto attendiamo la nostra ricompensa, come l’ha chiamata il cappellano militare, che parla in Tuo nome. Non siamo forse caduti “a maggior gloria della Patria e della Fede”?».

Allora il Signore senza farselo ripetere solleverà la mano in un gesto ingiurioso e risponderà:

«Questo è quello che vi meritate, mascalzoni! Avete sprecato i miei doni più preziosi. Non voglio rivedervi per tutta l’eternità. Vi condanno a vivere come spugne nell’abisso più buio del mare più gelido. È l’unico modo per impedirvi di nuocere ancora. Andate via!».

Subito dopo, tesoro mio, tutti quanti noi ci trasformeremo in spugne e verremo scaraventati nel fondale più scuro del mare più ghiacciato, laddove non esistono luce né raziocinio. Allora un fondale sottomarino buio e sconfinato si coprirà a un tratto di eroiche spugne. Così cominceremo a dondolare le nostre membra viscide, con misura e disciplina, una volta a destra e una volta a sinistra, una volta di qua e una volta di là, seguendo la corrente dell’acqua limacciosa.

«Unò-duè, unò-duè, unò-duè, unò-duèèè!»: per tutti i secoli dei secoli.

 

Povera madre

È una settimana che la mia vita scorre pacifica in questa casa della pace, come un nastro d’acqua in mezzo all’erba. Ogni giorno che passa sento sempre più forte il bisogno di essere a contatto con l’anima ancestrale delle persone che mi ospitano. È per questo, imamgino, che sin dal giorno ho cercato di penetrare in tutti i modi il segreto della loro lingua e, novello Robinson Crusoe, ho deciso di compilare un glossario che non smetto di arricchire e integrare giorno dopo giorno. L’idioma parlato dai miei ospiti appartiene alla famiglia delle lingue slave ma ha assorbito numerosi vocaboli greci e turchi. La fonetica basata sulle consonanti conferisce a questa lingua un andamento virile, a tratti duro, che sovrasta gli scarsi elementi muliebri. Quando parlano sembra che mucchi di ciottoli trascinati dalla corrente impetuosa del Dragor rotolino tutti insieme in un precipizio. Alcune parole racchiudono in sé la vivida concretezza delle lingue primigenie, che si limitano a riprodurre i rumori e le voci del mondo circostante. Ad esempio per dire che un uccello “ha spiccato il volo” dicono “p’rrlits”. In nessun altra lingua ho sentito rendere con altrettanta perfezione il volo degli uccelli.

Servendomi del materiale che raccolgo, cerco di comporre semplici frasi ma ogni volto loro scoppiano in una sonora risata. Chissà quanti errori grossolani commetto e a giudicare dalle risatine maliziose degli adulti e dalle guance rosse per la vergogna delle fanciulle, non di rado devo scadere nello scurrile, sia pure mio malgrado. Ciononostante, alla fine riesco quasi sempre a far loro comprendere le semplici idee che cerco di esprimere, cosa che costituisce una prova ulteriore della loro intelligenza e della loro abilità a entrare in sintonia con gli altri esseri umani. Ed è appunto grazie a esse che sono riuscito a scoprire un prezioso giacimento di innocenza, di quelli che ti fanno sentire fiero di appartenere alla razza umana.

Mi riferisco ad Avtcha, la padrona di casa, che ogni mattina sprimaccia e rassetta il mio materasso di foglie di granturco, mi porta una tazza di latte e, in attesa che io la beva tutta, resta a guardarmi con i suoi occhi dolci e severi, e le braccia conserte sul grembiale. Si prende cura di me come di un bambino ammalato. Quelle di Avtcha sono premure molto sollecite, ma anche molto spontanee. Il suo atteggiamento è all’insegna di un’umile cordialità che a tratti tuttavia assume forme solenni, addirittura rituali. La conosco da appena dieci giorni ma mi sono bastati per capire che questa matrona dal volto pallido e austero, con le gambe bianche e la cintura di folto pelo alla vita, appartiene a un’altra razza. Grazie al suo istinto materno, Avtcha è capace di soddisfare con incredibile preveggenza un mucchio di piccole necessità e di abitudini che ho e che a lei risultanto del tutto estranee. E le sue premure sono così sincere che avrei il timore di offenderla se le dicessi grazie. Questa parola tanto abusata e formale mi sembrerebbe del tutto fuori luogo rispetto alla spontanea generosità di Avtcha, che mi scorre accanto con naturalezza, come se zampillasse dalle mani stesse di Dio. Inoltre sarebbe ridicolo perché dalla mattina alla sera non farei altro che ripetere «spollat, gospodina» a ogni piccola attenzione che ricevo. Così mi basta sentire il cuore travolto da un mare sconfinato di silenziosa e occulta gratitudine, simile a olio profumato che mi si raccoglie nell’animo come in un’ampolla sigillata.

Ebbene oggi ho saputo che Avtcha ha due figli soldati e che anche loro combattono nelle trincee del Pelister, contro di noi. Questo è il segreto prezioso che ho trovato oggi dentro l’anima pura e immacolata come la neve della mia padrona di casa.

I contadini di queste contrade parlano una lingua che è compresa sia dai serbi sia dai bulgari, cosicché i serbi li considerano bulgari e i bulgari, che loro detestano ancora più dei serbi perché gli hanno portato via i figli in guerra, li considerano serbi. Noi greci invece suscitiamo in loro una certa simpatia in quanto siamo siamo gli autentici figli spirituali del Patrik, ossia il patriarcato ecumenico di Costantinopoli. Presso questa gente dalla fede ingenuamente cristiana l’idea del patriarcato, avvolta com’è da un’aura di singolare misticismo, gode ancora di un immenso prestigio. Per non parlare dei sepolcri dei notabili e dei prelati, che recano incise le lettere sacre e misteriose dell’alfabeto greco. Le stesse lettere sono dipinte anche sulle loro antiche immagini sacre, ormai tutte imbarcate, intorno ai volti selvaticamente ascetici dei santi bizantini e dentro gli Evangelari ingialliti. Ciononostante non vogliono essere né bulgari né serbi né greci ma soltanto macedoni ortodossi.

La partenza dei suoi due figli per il fronte Avtcha la considera un castigo mandato da Dio. Non può nulla contro questa sciagura cosicché si limita ad accettarla con umiltà e sottomissione, pregando e intrecciando le braccia sul grembiule. Quanto a me, sebbene, almeno in teoria, i suoi figli potrei persino averli uccisi dal momento che appartengo allo schieramento opposto, Avtcha mi ritiene vittima dello stesso flagello divino. La sua compassione mi scroscia addosso con la frescura di un acquazzone, senza rancore, senza recriminazioni, senza risentimento. Ai suoi occhi sono soltanto un soldato, un povero soldato sventuratio. Non si poteva escludere del tutto che prima o poi una nostra pattuglia di servizio si imbattesse in una pattuglia nemica e che i suoi due figli si trovassero di fronte alla mia baionetta. Né che la mia baionetta affondasse gelida nel cuore dei suoi figli. E quindi nel suo cuore, povera Avtcha. Eppure l’orrore di questo pensiero non arriva a inquinare la generosità che la spinge a porgermi la tazza decorata con fiori rossa e viola, colma di latte appena munto. Il latte di solito lo munge la figlia, Ghivezo, a cui piace cantare mentre munge le vacche. Ghivezo, la dolce sorella dei miei due ignoti nemici. E quando mi sprimaccia il materasso per renderlo morbido e prepararlo ad accogliere il mio corpo acciaccato, non pensa affatto alla possibilità che un giorno potrei affondare la baionetta nel ventre dei suoi due figli o che i suoi due figli potrebbero massacrarmi per un nonnulla. Però mi domanda spesso di mia madre. Lei comprende molto bene il dolore delle madri di tutti i soldati, che è anche il suo dolore, il dolore di una “povera madre”.

 

Lettera da Lesbo

Stamani mio fratello mi ha portato un pacchetto contenente anche una tua lettera. A consegnarglielo è stato un soldato giunto da Lesbo carico di bagagli e di doni inviati ai soldati dalle loro famiglie. Io ho ricevuto una cassetta di legno piena di fichi farciti, una confettura di mele cotogne e alcune tavolette di cioccolata. Ma a rallegrarmi è stata soprattutto la tua lettera. Continuo a leggerla e a rileggerla senza stancarmi mai. Che Dio benedica la tua mano. Con la posta militare fortune come questa sono più uniche che rare. Le prime lettere che ho ricevuto da te erano piene di cancellature, tagli e annotazioni della censura, alcuni dei quali davvero ridicoli: “Scriva al mittente – ossia a te, amore mio – di inviare missive brevi se non vuole che vengano cestinate dalla censura”. Che idioti! Ma questa lettera, tesoro mio, vale per me tutte le lettere del mondo. Non solo. Mi ha anche fatto capire la malattia da cui sono affetto. Tesoro, si tratta di nostalgia!

Un calore nascosto scioglie il mio corpo come un cero. Una fiamma diffusa mi arde sommessamente nelle vene e il mio animo è perennemente afflitto. Come vorrei tornare a Lesbo per stare vicino a te e a tutto ciò che mi è caro! In questo momento provo il desiderio struggente di tutto. Non esito a invocare le cose una per una e soltanto adesso mi rendo conto quanto tu mi sia indispensabile. La mia anima è rimasta priva di ossigeno e si sente soffocare. Da quello che mi scrivi deduco che la nostra isola continua a elargire a piene mani la bellezza di cui è piena. Sì, mi sembra di vederle, le delizie di Lesbo, di assaporarle grazie alla tua lunga lettera. Dai fogli turchini sento soffiare la brezza marina, il profumo del pino, dell’alloro e dell’origano. Tra le righe vedo dondolarsi le barche, salpare i traghetti e il battere festoso delle imposte delle case, simile a un applauso. Tutto questo esulta e vive nello sfolgorar del sole, l’aria si fa odorosa e tutto ha un profumo inebriante diffuso dal magico tocco della tua ombra. Io però non sono lì con te. Ti vedo di nuovo sul lungomare al tramonto, intenta a passeggiare con il tuo passo frettoloso. I tuoi occhi castani sono stanchi per la lettura dei quaderni, cerchiati dalla stanchezza e dalla carenza di sonno. Le barche sono tutte tirate a riva. Le barche di Mitilene! Una lunga fila che galleggia mollemente sulle onde. Sono tutte bianche, tutte uguali, tutte della stessa grandezza, simili a gabbiani che dopo aver piegato le ali si dispongono in fila per beccare le briciole. Le barche vuote dondolano sulle acque illuminate tenendosi per mano. Formando una lunga catena. Tutt’intorno le lame di luce del porto sciabolano riflettendo bagliori dorati, grigi, rossi e verdi. E l’acqua che si increspa, diventa nastri colorati di luce che volteggiano ariosi. Nel giardino municipale il fogliame dei cari pioppi polverosi ciancia senza sosta anche quando il vento non soffia. Il lieve soffio del mare fa schioccare con solennità gli alberi delle navi più grandi. A bordo di una di esse un cane abbaia alla luna. Tace per un istante e ascolta la propria eco che rimbalza sulla fortezza. Una tromba suona il silenzio e le note di bronzo rotolano lungo il pendio una dopo l’altra per nascondersi infine nei vicoli in penombra. Dopo il lavoro tu passi dal boschetto di pini della spiaggia. Ti fermi al piccolo caffè di Apelle, nostra meta dei tempi felici. Chissà se i figli di Apelle ti accolgono con la stessa allegria di un tempo anche adesso che sei sola. Ti ricordi le serate che trascorrevamo sulla battigia, seduti sulle povere sedie ad ascoltare lo sciabordio stremato dell’acqua che scorreva ai nostri piedi? Le montagne dell’Αnatolia galleggiavano lievi, a un tiro di schioppo da noi, solo che non erano montagne ma gigantesche piramidi di violette e giacinti. Erano cesti colmi di rose. Erano isole di rame fiammeggiante come l’isola di Calipso. Nessun tramonto è più bello dei tramonti di Lesbo, che io vedevo sfumare lentamente dentro i tuoi occhi. Laggiù la tua anima innamorata fremeva come le ali di una farfalla trafitta da uno spillo. Una volta, ricordo, vedemmo passare un battello con le vele ammainate. I rematori tuffavano pigramente i remi nelle acque color dell’oro, in silenzio, come assorti in un sogno. Li vedemmo passare accanto a noi lentamente, chiusi nel loro silenzio indolente. L’unico che ci rivolse un paio di volte lo sguardo fu un ragazzino con un fazzoletto rosso in testa. Un lembo lo teneva in bocca. Poco dopo il battello scomparve dietro lo scoglio di Fikiòtripa e per qualche minuto si scorse soltanto la punta dell’albero maestro che tracciava maldestramente nel cielo strane lettere maiuscole.

Lo scoglio di Fikiòtripa era una rana gigantesca che si pietrificò appena uscì dal mare a respirare l’aria soffiata dai pini. Poco lontano c’è anche uno scoglio rettangolare che emerge dalle acque come un’ara alle divinità marine. Sono state le descrizioni della tua lettera a farmelo ritornare in mente. L’Ara. È così che lo chiamavamo. Quando c’era bassa marea, tutt’intorno si scopre una corona ricciuta di alghe verdi e marroni, mentre in alto c’è una fascia bianca e rossa di gusci fossilizzati di conchiglie morte. Quando soffia il fresco meltemi, le onde si prendono per mano e danzano intorno all’ara cercando di scavalcarla con tutta la caparbietà e la forza di cui sono capaci. Ti ricordi? Si piegano per prendere la rincorsa, si contorcono, scivolano e si avventano sulle pareti rocciose cercando di aggrapparvisi con le loro dita ecquoree. Inutilmente. Allora ricadono indietro, lentamente ma con determinazione, decise a riprovare con un nuovo impeto e compiendo balzi ancora più spericolati. E se alla fine una di loro riesce finalmente a scavalcare l’Ara, l’acqua scorre dalla parte opposta rovesciandosi sulle alghe come una cascatella che ride scrosciante.

Da quelle parti c’è anche un altro scoglio che quando il mare è agitato non presenta nulla di particolare. Ma quando il mare è calmo, la bassa marea lo fa emergere dall’acqua scoprendone la base, che le onde del mare hanno corroso nel corso di lunghi anni rendendolo sottile come uno stelo. Lo scoglio allora diventa simile a un gigantesco mazzo di fiori.

Ed è proprio così che lo hai chiamato: Mazzo di fiori.

Mi ricordo una sera in cui il mare era liscio come l’olio. Il silenzio era assoluto. A un tratto un piroscafo passò da lontano e l’acqua che spostò giunse fino a noi. Le cavità degli scogli intorno a noi cominciarono a schioccare come baci marini su grosse labbra lascive.

Un giorno, mentre osservavamo il gioco delle onde che cercavano di scavalcare l’Ara, mi hai domandato:

«Credi che in questo sforzo ci sia un po’ di vita, un briciolo d’amore?».

Io ho risposto:

«Quante cose adorabili, meravigliose, belle e divine esistono intorno agli uomini! E pretendono da loro soltanto un po’ di attenzione. Li invitano a partecipare alla loro gioia e alla loro bellezza, ma gli uomini non sono in grado di udirle. Trascorrono la vita intera, fino alla fine, senza accorgersene e ciononostante ardiscono di credere che abbiano davvero vissuto…».

Tu sei sei rimasta in silenzio. Poi, quando credevo che ormai non ci pensassi più, hai detto in tono pensieroso:

«Forse il mondo sarà migliore soltanto quando gli uomini saranno in grado di vedere tutto l’amore e tutta la bellezza che ci sono nella vita».

 

Nostalgia dell’Egeo

La parola “mare” ricorre spesso nella tua lettera, così vibrante di erotismo, dalla prima all’ultima riga. Così mi sono accorto che il tuo amore e il mare sono due concetti arcanamente fusi in un significato profondo e straordinario. Finora non so come ho fatto a sopravvivere lontano da te e dal mare di Lesbo. La nostalgia dell’Egeo mi consuma come una dolce malattia. Il mare… Basta la parola a risvegliare in me tante sensazioni sopite. Il mare… mare… Chiudo gli occhi e continuo a ripeterla sottovoce. Ascolto la mia voce e allora mi sembra di udire le onde estive che si gettano fragorose sui ciottoli della riva. Dentro la parola “mare” riecheggia tutto un mondo. Essa è come la conchiglia in cui, quando l’avvicini all’orecchio, risuonano le voci del pelago, prigioniere dei flutti, remote come se a parlare fosse l’anima stessa del mare. Mi volgo a misurare con avvilimento l’opprimente calotta del cielo, che grava appoggiata solidamente sulla campagna uniforme. Ricordo, a scuola, un fringuello che soffocava sotto una campana di vetro molto simile, quando il professore gli sottraeva a poco a poco l’aria con una pompa pneumatica. Allo stesso modo anch’io mi sento soffocare, incapace di riempire d’aria i polmoni. A Lesbo invece tutto è in perenne movimento. La sagoma dei monti volteggia, il mare si muove, si agita e si acquieta in mille modi, e il sole riflette tutta la gamma dei suoi colori. A Lesbo persino l’aria ha un sapore e un aroma particolari. Ne senti la salsedine sulla punta della lingua e le narici l’accolgono come un mitile appena dischiuso. Per non parlare dei tramonti, il cui ricordo serbo nel cuore illuminato da fasci di bagliori rosso-dorati. Il sole trascina sull’acqua il suo manto di raso purpureo, avanza lieve calpestando le onde con le sue pantofole dorate.

Dal cielo cade una pioggia di ciclamini. La fosca sfumatura azzurra delle montagne le fa assomigliare ai vasi di vetro antico dei musei. I ciuffi densi delle alghe si agitano sulla cima degli scogli, adagiati come pascià sui bassi fondali. Sugli scogli fanno la loro comparsa, uno dopo l’altro, sospettosi, i granchi, simili a piccole tabacchiere metalliche provviste di zampette. Gli occhietti sono l’incastro, il coperchio si apre da quella parte. La luce del tramonto soffonde d’oro i gusci e gli occhietti bagnati sono piccoli rubini. Sulla camicia hanno ricamato tutti il loro monogramma. Si fermano davanti alle fenditure dove il tappeto verde delle alghe e il muschio sono più folti. Cominciano a mangiare: mangiano in fretta con le loro due forchettine, una volta l’una e una volta l’altra. E basta battere le mani per vederli fuggire in tutte le direzioni e acquattarsi nelle loro tane.

Le montagne dell’isola sono ammantate di bellezza e ammirano la propria ombra che scende verso il basso, fin dentro il mare. Si direbbe che lì si trovino le loro fondamenta. Un falegname batte con il martello un grosso chiodo su un asse ricurvo e il rumore cade come un colpo di scudiscio sull’acqua del mare. Il molo odora di trucioli di cipresso e di catrame bollente. Una rete è stata gettata poco lontano dalla riva, i sugheri galleggiano sull’acqua uno accanto all’altro come puntini di sospensione. Al porto sono ancorate due grosse navi. La prima è grigia con la carena rossa, la seconda è marrone chiaro. Gli alberi superano in altezza la cima delle montagne dell’Anatolia, che appaiono azzurre all’orizzonte. Sulla prua di un peschereccio un marinaio riempie d’acqua un secchio verde e canta. Un uomo in calzoni bianchi accosta le mani alla bocca, a forma d’imbuto, e grida dalla punta del molo verso le due navi che sembrano fatte di pietra.

«È vicino all’amarra di poppaaa! Vicino all’amarraaa!».

Il sole è al tramonto. Le finestre si accendono. Sopra Amalì si scorgono nuvoloni con l’orlo fiammeggiante. Nel mio cuore porto innumerevoli tramonti di Lesbo. Mi soffermo a osservare questi poveri contadini che ammucchiano i covoni sulla gialla distesa dei campi, simili a scarabei. Vedo le donne disporsi in fila con i lunghi bastoni attorno alle pannocchie di granturco ammucchiate, e cominciare a battere, battere, battere con i bastoni. Vedo le grosse ruote di legno dei loro carri trainati da giganteschi bufali deformi. Sono carichi di paglia e modulano l’orribile canto della noia e della lentezza.

Ebbene, in questi momenti vorrei potermi impadronire dei loro pensieri e mostrare loro la bellezza di una spiaggia di Lesbo, mai immobile, con il gioco sempre diverso dei colori, costellata da pescherecci e illuminata dal sole splendente! Come fa questa gente a non conoscere il mare, questa cosa tanto meravigliosa, ancora più meravigliosa del cielo? Come fa questa gente a vivere e a morire senza aver mai visto neppure in sogno l’Egeo e un’isola dell’Arcipelago? Poi mi rendo conto che sarebbe un delitto insinuare nel loro animo la nostalgia del mare, spiegare loro che per i greci antichi il paradiso si trovava nell’“isola dei beati” e infine mettergli in mano un bastone dicendogli che per tutta la vita sono condannati a battere il granturco nella loro campagna immobile e rovente…

Un giorno ho provato a descrivere loro il mare ma non ci sono riuscito. Avtcha rimase con la spola a mezz’aria e mi domandò stupita:

«Davvero nel mare c’è così tanta acqua? Più che nel Dragor?».

Ghivezo mi rivolse uno sguardo accondiscendente, poi abbassò le folte ciglia e disse alla madre:

«Chissà cosa direbbe se vedesse la campagna inondata dal Dragor!».

 

A faccia a faccia

Stasera fa molto caldo. Il cielo è trapunto di stelle e la luna non si vede. Quando la luna spunta, le stelle le cancella tutte, come una spugna dorata. Ma stasera la luna non c’è e il cielo è tutto stellato. Ho preso la stampella e sono uscito nella campagna. Adesso sono sdraiato sopra un mucchio di pannocchie di granturco appena mietuto.

Sono sdraiato in posizione supina a osservare le stelle. Le mie dita accarezzano le barbe delle pannocchie. Sono fresche al tatto e morbide come nappe di seta. La cupola del cielo mi avvolge completamente. La campagna glauca è fiorita di una fascinosa primavera. Milioni di piccole cannelle d’argento rovesciano sulla terra nera rivi di mistica luce, che irrorano le foreste buie e l’immensità dei mari. La terra continua a volteggiare girare nel gelido vuoto, formicolante di una vita multiforme che cerca invano di comprendere il senso della propria storia.

A quest’ora contemplare il cielo è davvero strano, si ha l’impressione di essere spiati da migliaia di occhi tutti spalancati. È un po’ come trovarsi a faccia a faccia con Dio. Le pannocchie hanno un profumo agrodolce che si sente persino sulla lingua. Il silenzio è colmato dal limpido canto dei grilli. Chissà mai dove sono nascosti? Essi cantano soltanto di notte, quando ogni altro rumore finalmente si acquieta. Così il buio risuona di freschi trilli che si inseguono nella campagna. Sono vibranti melodie che si scontrano e si incontrano, e nessuno sa se sono le vocine della campagna, dell’erba o delle stelle.

I morti, va da sé, non la potranno godere mai più di questa notte divina che mi guarda con tutto il fulgore delle sue stelle e grida con la voce dei grilli. (Gigantis!…) Forse è appunto il pianto degli eroi ormai defunti a uscire dalle viscere della terra.

Penso che questi animaletti è da milioni di anni che popolano la Terra e cantano tutti insieme di notte. E prima di morire consegnano gli strumenti ai figli affinché continuino a suonarli loro. Prima o poi, penso, arriverà una notte in cui la nostra terra sarà decrepita e tutte queste persone intelligenti, coloro che inventano e costruiscono i siluri, gli aeroplani e gli esplosivi, saranno nient’altro che polvere. L’umanità intera sarà una leggenda, una brutta storia che si racconteranno gli alberi antichi. Ma anche allora, sono pronto a giurarlo, i grilli trilleranno tutti insieme il loro canto. Il cielo sarà fiorito di tutte le sue innumerevoli stelle d’argento e si chinerà ad ascoltare il suono di quei piccoli strumenti di cristallo. Tutto sarà pervaso dello stesso freddo mistero. I boschi stormiranno ma poeti in grado di cantare il fruscio delle loro fronde non ce ne saranno più né ci saranno soldati incaricati di tagliare i tronchi e di trasformarli in travi di sostegno per il filo spinato. Le onde del mare continueranno a infrangersi sulle indomite spiagge e a mulinare nelle secche senza preoccuparsi di quella bestia accecata dall’orgoglio che millenni prima aveva creduto che tutte le meraviglie del mondo Dio le avesse create esclusivamente per la sua felicità.

Fino ad allora ci uccideremo e ci massacreremo a vicenda in nome della “libertà dei popoli”. Chiedi a uno di quei soldati dalla pelle nera venuti qui con i francesi, i quali, a detta di Avtcha, rapirebbero i bambini per nutrirsene. Chiedi a un indiano o un cinese. Tutti risponderebbero all’unisono che è per “la libertà dei popoli” che si battono. Nessuno di loro dirà mai che un po’ si batte anche per la sua libertà!

Che cosa succede? Una stellina, la più piccola e graziosa di tutte, si è staccata dal cielo e mi è caduta sulla manica del cappotto. Non so se sia una stellina o una briciola di stellina color verde chiaro. Vieni qui, stellina, nella mia mano! È una lucciola! Una romantica dama, una sorniona, che è uscita di casa nel cuore della notte per andarsene a spasso nei campi dopo aver acceso la sua piccola luce. Fermati, non te ne andare, non ti andrebbe di chiacchierare un po’ con me? La guardo con attenzione. La lucine ce l’ha proprio sul culetto.

Una lucina doppia che emana un bagliore verdastro. La lucciola può moderarne l’intensità a suo piacimento, nella mia mano sembra una sigaretta accesa. Si tratta di un meccanismo perfetto. Però mi assale un dubbio, un dubbio che soltanto un bravo entomologo potrebbe chiarirmi. Come mai la luce ce l’ha sul culetto? Che senso ha la luce averla sul di dietro e non davanti, per guardare la strada? Dio Onnipotente, lo so che ogni cosa l’hai creata con sapienza. Il culetto luminoso della lucciola però non so proprio spiegarmelo.

 

Tribunale di guerra

La placida solitudine di quel mio nido domestico stava quasi per farmi dimenticare la realtà della guerra. In realtà bastava mettere il naso fuori di casa per ricadere di nuovo nel suo crudele dominio. A ricordarmela è venuto oggi mio fratello e mi sono sentito crollare il mondo addosso. Il nostro reggimento, ha detto, è in subbuglio. Le diserzioni non si contano più, in certi giorni all’appello mattutino della compagnia arrivano a mancare persino cinque o sei uomini tutti insieme. Prima di darsi alla fuga, i disertori fanno provvista di gallette, munizioni, bombe a mano e corde di ogni genere (non so per quale motivo i disertori abbiano bisogno di una tale quantità di corde). Qualcuno si lascia indietro fogli con appunti scritti o istruzioni, che a quanto pare sarebbero propaganda monarchica. Un capitano è stato deferito alla corte marziale e lo Stato maggiore ha annunciato l’assunzione di “drastici provvedimenti”. Nel linguaggio militare questa espressione in apparenza innocua implica sempre uno spargimento di sangue. Lo stesso è accaduto anche stavolta.

Al tribunale militare speciale appena istituito tre commilitoni sono in attesa di giudizio con l’accusa di “alto tradimento”. Il processo, o meglio il verdetto di condanna, avrà luogo nella chiesa del paese, che per i campagnoli è diventato un punto di attrazione. Sono sicuri che stia per verificarsi qualcosa di importante. Questo processo è soltanto un pretesto per allestire una macabra messa al termine della quale tutti gli uomini della nostra Divisione si nutriranno di vero sangue e di vera carne. Ho seguito mio fratello e sono andato in chiesa con lui. La mia gamba va sempre meglio. Siccome camminavamo lentamente, siamo arrivati che il processo si era già quasi concluso. La chiesa era piena di ufficiali e di soldati fin sul sagrato. Altri gruppi di soldati che continuavano a sopraggiungere, smettevano di parlare appena si avvicinavano alla folla già presente accalcandosi gli uni sugli altri in piedi, nel caldo. Poi aspettavano in silenzio. Mio fratello e io siamo entrati nel nartece, ci siamo divisi e io mi sono seduto su un muretto.

A un certo punto in chiesa i presenti hanno smesso di vociare e il silenzio è giunto fino a coloro che si trovavano all’esterno. Il presidente del tribunale aveva cominciato a parlare e tutti abbiamo trattenuto il respiro: il verdetto stava per essere pronunciato. Alcuni si sono sollevati sulla punta dei piedi e hanno teso l’orecchio per sentire meglio. Gli occhi guardavano la bassa volta imbiancata a calce del nartece o ovunque capitasse. Sembrava che anche gli occhi cercassero di sentire, al pari delle orecchie. In quel silenzio carico di trepidazione e di attesa ogni minimo rumore pareva assordante. Pensa, il ronzio di un moscone che mi svolazzava sulla testa mi è parsa l’elica di un aeroplano. La voce del presidente giungeva dal fondo della chiesa senza che ne distinguessi le parole. Coglievo soltanto un fluire rauco e ininterrotto di parole pronunciate una dopo l’altra, senza pause. A un certo punto anche lui ha smesso di parlare e dalla chiesa si è propagato il mormorio di mille bocche che è giunto fino al nartece simile a una raffica di vento che spazza all’improvviso un mucchio di foglie secche sparse sul selciato. Tutte le bocche ripetevano come un ritornello l’ultima parola detta dal presidente: “Morte”. Questa parola ha sorvolato le teste dei soldati spandendosi a mo’ di gelido sudario sopra corpi nudi. Il senso di questa parola ha colmato gli occhi dei presenti di impaurita sorpresa. I volti resi pallidi dalla vita sotterranea sono divenuti ancora più pallidi sotto la bassa volta del nartece. Eppure tutti sapevamo che questo sarebbe stato l’esito del processo. Tutti ci aspettavamo di sentir pronunciare quella raccapricciante parola nella penombra della chiesa. Ciononostante decine di bocche l’hanno ripetuta come se la sentissimo per la prima volta, come se si trattasse di un concetto completamente nuovo. “Morte?”. Era qualcosa che l’anima rifiutava e il cuore respingeva. “Morte”? Tutti ci siamo scambiati uno sguardo severo e interrogativo, con la fronte corrugata e gli occhi carichi d’angoscia.

Trascorsi i primi istanti, lo sgomento si è trasformato nelle chiacchiere di decine di persone in procinto di uscire dalla chiesa. Tutti parlavano dei tre condannati a morte e delle circostanze del loro arresto alla frontiera.

Il primo era poco più di un ragazzino. Un giorno, mentre lui era di vedetta, il nemico si mise a bombardare all’improvviso la trincea. Lui, colto da un terrore incontrollabile, abbandonò la posizione e corse a rifugiarsi in un ricovero. Tremava come una foglia e continuava a gridare: «Non ce la faccio! Non ce la faccio!». Era un profugo giunto in Grecia dall’Asia Minore. Il padre era stato massacrato dai turchi e lui aveva deciso di arruolarsi per inviare la gavetta piena e le pagnotte alla vecchia madre e alle due sorelle. Non si trattava di un caso isolato. «Pelandrone», gli aveva detto un giorno la madre, «non li vedi i tuoi compagni quanta roba portano dall’esercito? Solo tu te ne stai a ciondolare tutto il giorno». Così decise di arruolarsi falsificando l’anno di nascita perché era minorenne.

Il secondo era scappato di notte. Faceva parte della squadra di scavo incaricata di costruire una nuova postazione di artiglieria davanti al reticolato di filo spinato. La squadra era composta da otto uomini al comando di un sergente maggiore e aveva ricevuto l’ordine di completare la costruzione al massimo entro l’alba. Frattanto i bulgari si erano accorti del trambusto e pensarono che i greci stessero macchinando qualcosa. Così cominciarono a sparare colpi di mortaio praticamente alla cieca, facendosi luce soltanto con alcuni razzi luminosi. Ogni volta che il soldato di vedetta scorgeva un guizzo luminoso provenire dal Pelister, gli uomini della squadra di scavo interrompevano il lavoro e si gettavano al suolo in attesa di udire il boato. Lo stesso accadeva quando vedevano la scia di luce tracciata nel cielo da un razzo di segnalazione. Negli intervalli tra una cannonata e l’altra e tra un razzo di segnalazione e l’altro, ricuperavano il tempo perduto mettendosi a scavare di buona lena in attesa di sentire il grido della vedetta che annunciava un nuovo colpo di cannone e di veder spuntare nel cielo il gambo rosso dell’ennesimo razzo di segnalazione. Fu una notte di tregenda, fitta di dense tenebre. Gli uomini della squadra di scavo avevano il cuore in gola per l’angoscia e la paura. Quattro di loro rimasero feriti, uno spirò poco dopo. Il compagno morto fu lasciato lì, gli altri tre invece furono riportati subito indietro per evitare che il nemico ne udisse i lamenti. Colui che oggi è stato condannato a morte aveva deciso di scappare non sopportando più la paura e la fatica. Si era nascosto nel ricovero, dove fu ritrovato in preda a un delirio di follia che durò due giorni. Tremava tutto e straparlava, diceva di aver visto il sergente maggiore sparare a uno dei feriti per accelerarne la morte, le grida di quel poveraccio erano state sentite dal nemico e così la loro posizione era stata scoperta.

Piuttosto singolare è la storia del terzo condannato. A raccontarmela è stato un vecchio militare di riserva, amico suo. Era di Salonicco, aveva perso entrambi i genitori e lavorava come garzone in una farmacia. Per mesi aveva cercato di mettere da parte qualche soldo per acquistare un paio di scarpe nuove. Quelle che aveva erano in condizioni pietose e una volta che si era messo a fare la corte a una ragazza, lei diede un’occhiata alle scarpe e storse il naso. Poi lo guardò negli occhi assumendo un’espressione ironica e se ne andò gelandogli il sangue nelle vene. Questa storia lo segnò profondamente. Si fermò in mezzo alla strada e guardò anche lui le sue scarpe vecchie. Per la prima volta si rese conto che erano da buttar via. Lavorando sodo era riuscito a mettere da parte un po’ di soldi e aveva acquistato un paio di scarpe nuove. Le provò nel negozio e gli parvero bellissime. Pagò e uscì gonfio di orgoglio. Si diresse verso la farmacia ma camminando si accorse che le scarpe nuove gli stavano un po’ strette. Ogni passo era un tormento. Si mordeva le labbra e mentre camminava, gli pareva di trovarsi su un tappeto di chiodi. Nel pomeriggio tornò al negozio di calzature, infelice e abbattuto. Raccontò al negoziante quello che era successo e chiese in cambio un modello più largo. Il negoziante rispose che non era possibile. Lui pianse, lo pregò, lo supplicò. Niente da fare. Il negoziante lo mandò via indicandogli un cartello dorato dentro una cornice di cristallo. “Non si fanno cambi”. Il ragazzo non poté far altro che rassegnarsi e tenersi quelle scarpe difettose zoppicando lungo la strada. Proprio in quel momento dalla caserma usciva il suo vecchio amico, il militare di riserva, colui che mi ha raccontato tutta la storia. Il militare di riserva era appena stato in fureria ed era tutto elegante nella sua uniforme inglese e con un paio di morbide calzature di cuoio ai piedi.

Agli occhi del ragazzo il militare elegante e ben vestito parve l’icona stessa della felicità tanto che in quell’istante preciso decise di arruolarsi come volontario ottenendo il suo bel paio di scarpe nuove. Adesso era stato condannato a morte perché una sera, invece di seguire la sua truppa e uscire ad appendere avvisi sui reticolati dei bulgari, aveva preferito andare a nascondersi dentro il suo ricovero. E sarebbe stato fucilato perché una volta era stato così sfortunato da acquistare un paio di scarpe troppo strette. Questa era la storia singolare del soldato, che passò di bocca in bocca tra i soldati, ma nessuno la trovò divertente. Anzi, tutti lo commiserarono più degli altri due, soprattutto quando si venne a sapere che in prigione aveva contratto la febbre tifoidale, che la sua situazione era molto grave e che con ogni probabilità sarebbe morto comunque.

Un aiutante del furiere, molto basso e miope, si sollevò la visiera per grattarsi la fronte e disse che, secondo la legge, in caso di malattia la pena capitale va eseguita soltanto previa guarigione dell’ammalato. Questa per noi era davvero una novità ma nessuno notò la contraddizione insita in questa idea. Così tutti ci affrettammo a dire che se la legge stabiliva questo, il ragazzo doveva guarire prima di essere fucilato.

Qualche minuto dopo la folla ciarliera dei soldati si aprì al centro creando una sorta di corridoio. I membri della corte uscivano dalla chiesa. Ci passarono accanto uno dietro l’altro, in silenzio, pensierosi e sudati. Soltanto il cancelliere della corte sorrideva compiaciuto. Era un sottufficiale tanto bello quanto sciocco, con i tratti del viso marcati e una cartella di cuoio sotto il braccio. Per ultimo uscì il presidente della corte, il colonnello del Terzo Fanteria. Non so sei hai presente quell’ufficiale tarchiato e con la pancia che stava seduto al chiosco. Aveva una moglie magra che quando lui ispezionava il Reggimento, gli stava sempre accanto con aria afflitta. Aveva anche una figlia, una bambina pallida e brutta, che si ornava i capelli con ciliegie finte. A quanto si raccontava, un giorno questo colonnello comminò dieci giorni di reclusione alla sua puledra, rea di averlo disarcionato come un sacco di patate. Si diceva inoltre che trattasse la famiglia come i suoi soldati e che anche in casa sua applicasse il regolamento militare. È una persona molto severa, alcuni gli attribuiscono persino delle perversioni. Ho saputo per esempio che una volta, a Samo, dove era stato inviato come comandante della locale guarnigione militare, sedusse una maestrina, che per la vergogna appese una corda al soffitto di casa sua e si impiccò. I soldati dicono che sia stato il colonnello a premere per la condanna a morte dei tre soldati affinché la loro fucilazione fosse “un esempio per tutti”. In caso contrario minacciava di dimettersi e di deferire gli altri membri della corte al ministero. Mentre ci passava davanti, tutti lo guardavamo con impaurita ostilità. Era così grasso che si faceva strada con la pancia. Aveva il volto paonazzo, sembrava ricoperto da un esantema, un paio di ciglia bionde e baffetti corti simili a erba secca ben tagliata. Lasciò allontanare gli altri ufficiali e si fermò davanti a noi nel nartece. Era vicinissimo a me, che stavo in piedi sul muretto. Dall’alto mi sembrava ancora più squallido e meschino. Lui ha cominciato a sbattere gli occhietti umidi, felini. Era teso e continuava a colpirsi gli stivali con il frustino. Tutti avevamo capito che voleva dirci qualcosa ma non riusciva a trovare le parole. Quello che ci aspettavamo era una reprimenda, una sequela di insulti rivolti a tutti noi. E invece vedemmo un sorriso ipocrita abbozzarglisi sul volto e una serie di rughe increspargli gli angoli della bocca. Ci scrutò dalla testa ai piedi, noi tacevamo con il cuore in gola. Evidentemente il colonnello del Terzo Fanteria non sapeva da che parte cominciare. Finché a un certo punto disse:

«Allora, ragazzi, come state? Come va la salute? Mi sembra che vi stiate rimettendo in forma… Ne sono lieto… I soldati greci per la patria sono pronti a sopportare qualsiasi privazione… I soldati greci sono degli eroi… Ne sono lieto… Sulla testa di noi ufficiali incombono grandi responsabilità… Non avevamo altra scelta. È una questione di disciplina… Di rispetto per la patria… Anzi, sono stato soprattutto io a insistere… Ma non avevamo altra scelta, immagino che siate d’accordo con me». Si interruppe per rivolgerci uno sguardo interrogativo. O forse ci supplicava? Nessuno di noi accennò il minimo segno d’assenso. Tutti vedevamo il colonnello e ne ascoltavamo le parole senza capirci granché. «No, non avevamo altra scelta. Non ho fatto bene a chiedere la morte dei disertori? Non ho fatto bene a insistere? La situazione di emergenza in cui versa la nostra Patria… E tu, si può sapere perché non stai sull’attenti, tu?».

Aveva mutato improvvisamente espressione. Il destinatario delle sue parole era un soldatino piegato dalla febbre, che lo ascoltava con la bocca aperta e le braccia penzoloni. Il soldato sobbalzò e si mise subito sull’attenti, imitato da tutti gli altri. Nessuno di noi infatti stava sull’attenti. Il colonnello ci guardò con i suoi occhietti umidi. Il sorriso ipocrita era svanito. Anche le piccole rughe intorno agli occhi erano scomparse. Fece sibilare il frustino sullo stivale e si allontanò a passo di marcia.

Noi restammo ancora qualche minuto sull’attenti, con l’orecchio teso verso lo scalpiccio degli stivali. E quando ce ne andammo, sapevamo che un tarlo si era insinuato nella coscienza del colonnello perché a noi aveva chiesto la conferma che non c’era altra scelta.

Provai una profonda pena per quell’uomo.

 

I tre condannati

Stamani a tutti i reparti è stato ordinato di presenziare alla fucilazione dei tre condannati. L’esecuzione è prevista per oggi, in un campo di grano mietuto poco lontano dal paese. Ci saremo tutti, soldati di fanteria e di artiglieria, uomini del genio, autisti, ausiliari, volontari e chi più ne ha più ne metta, giunti alla spicciolata fin dalle prime luci dell’alba. Non mancano gli ufficiali, che vanno avanti e indietro con le mani conserte dietro la schiena, fumano e chiacchierano del più e del meno, e ogni tanto scoppiano a ridere. Con il passare delle ore il campo si è riempito di voci e di persone. Il sole a un certo punto ha cominciato a bruciare e per proteggerci, ci siamo sistemati meglio il berretto sulla testa. La tensione è palpabile e molti consultano senza sosta l’orologio. Ad attirarli è il magnetismo irresistibile e sottilmente piacevole prodotto dalla certezza che di lì a poco assisteranno alla morte di tre loro simili. Sulla natura morbosa di questa curiosità sono stati versati fiumi d’inchiostro ma a mio parere si tratta di un bisogno nascosto nell’istinto segreto di sopravvivenza, del fatto che assistere alla morte degli altri ci offre una conferma quanto mai autorevole e ufficiale che noi siamo sani e salvi. Una gioia che non osiamo confessare neanche a noi stessi dovuta alla consapevolezza che “noi invece siamo ancora qui”. A dircelo è una vocina proveniente dai recessi oscuri dell’essere, che ci mormora con sollievo: «Meglio lui che noi, anche stavolta l’abbiamo fatta franca». Con l’intima certezza che prima o poi la stessa sorte toccherà anche a noi.

Nota bene che questa vocina siamo soliti sentirla anche dopo aver assistito ai funerali di un amico, al termine dei quali si è quasi sempre di buon umore. Tanto che non esitiamo ad augurare una lunga vita ai parenti del defunto. Per quanto ci riguarda, infatti, noi non nutriamo alcun dubbio sulla durata della nostra, di vita. A pensare in questo modo è il nostro stesso corpo, vivificato dal vigore del nostro sangue, dalla forza dei nostri muscoli e dalla robustezza delle nostre articolazioni: «Posso andare dove mi pare e piace, e se mi va, sollevo il braccio nella luce. Riesco a vedere il sole che accarezza gli alberi e a gridare a uno sparviero che plana nel cielo azzurro: “Ciao, sparviero!”. Il mio amico invece non può fare niente di tutto questo». A mettere di buon umore la truppa che chiacchiera e attende con impazienza nel campo di grano è anche il fulgore del sole. Al limitare del campo scorre un torrente, le cui rive sono coperte da una bassa boscaglia. La truppa si affaccia romanticamente sull’acqua trasparente che scivola come un mare di luce sui ciottoli arrotondati e mulinella argentata dentro le vasche naturali. A pelo d’acqua volano sciami di insetti azzurri che somigliano a enormi zanzare e i raggi del sole ne attraversano le ali trasparenti. Ogni tanto posano le zampe lunghe e sottili sulla superficie dell’acqua, con grande cautela per evitare che le gocce ne mettano in disordine la mise elegante. Una torma di ragazzini scalzi è entrata nel torrente alla ricerca di granchi d’acqua dolce. Accanto a me ci sono alcuni segretari della divisione, abbigliati di tutto punto. Fanno battute grevi quando adocchiano un gruppo di campagnole che parlottano all’ombra di un carrubo. Tengono le grosse mani conserte sotto il seno, stretto nel corpetto di lana, simili a grossi peponi.

Quattro soldati, compaesani, a quanto pare, di uno dei condannati, commentano a gran voce l’esecuzione. La sera precedente, dicono, il testo della sentenza è stato letto ai tre condannati mentre il prete si è trattenuto a lungo con loro per comunicarli e confortarli. Due di loro hanno scritto lunghe lettere ai familiari. Quello più giovane ha scritto due canzoni alla madre e alle sorelle. L’altro, quello affetto da febbre tifoidale, stava così male che non si è accorto di nulla. Ha delirato e straparlato tutta la notte. A un certo punto nella discussione si intromettono anche altri. Secondo loro il condannato affetto da febbre tifoidale non sarà giustiziato ma trasferito in ospedale finché guarisca. In tal caso, forse, riceverà la grazia perché non ha alcun senso fucilare qualcuno “come esempio” dopo tanto tempo dagli eventi. Sempre a proposito della legge che vieta di giustiziare gli ammalati, tutti trovano che sia espressione di un alto sentimento umanitario. Nessuno scorge alcuna crudeltà in una legge che prima di uccidere un uomo, aspetta che guarisca e nel frattempo lo nutre e se ne prende cura per consegnarlo infine, in perfetta forma, tra le grinfie di Charos. Viene quasi da pensare che lo Stato voglia rendergli ancora più straziante il distacco dalle cose terrene o che, addirittura, abbia promesso a Charos di consegnargli corpi in buono stato e non ammalati o feriti.

Il grande momento sta per arrivare. Il plotone si apposterà in un tratto di terreno in salita e i soldati sono invitati ad allontanarsi. Alle spalle si scorge un terrapieno il cui compito è bloccare le pallottole sparate dal plotone di esecuzione. Le precauzioni però non sono mai troppe, così tre trombettieri sono saliti sulla sommità del terrapieno e ogni quarto d’ora emettono uno squillo per avvertire gli abitanti dei dintorni che eventualmente siano ancora all’oscuro dell’evento. Lo squillo finale risuona più perentorio di tutti, con le note che si rincorrono in fretta. I corpi allenati dei trombettieri si ergono nell’allegra atmosfera come statue flessuose. La loro postura è elegante, con una gamba appena piegata in avanti e la tromba, che si portano all’altezza del volto con un gesto determinato e pieno di grazia, riflette i raggi dorati di sole.

A un tratto si leva un mormorio e i presenti fremono come il mare in tempesta. Gli sguardi di tutti si volgono verso un punto preciso. A un tratto nella folla si apre un ampio passaggio.

«Eccoli… Arrivano…».

Due grossi furgoni grigi gemono, rombano e rantolano sulla stretta carrozzabile che costeggia il campo, bianca come se qualcuno l’avesse cosparsa di polvere di gesso. Poco dopo si fermano.

Dal primo furgone scende il prete della divisione con i tre condannati e cinque gendarmi. Due di essi, giovanotti robusti e molto eleganti, trascinano di peso un soldato con la testa riversa sul petto che gli penzola a destra e a sinistra, le ginocchia piegate e le gambe inerti. Da mille bocche sorge una domanda alla quale nessuno attende che venga data risposta:

«L’ammalato? Hanno deciso di giustiziare anche l’ammalato?».

Dal secondo furgone balzano giù una quindicina di soldati in arme con un sergente e un ufficiale. Si dispongono subito su due file e obbedendo a una serie di rapidi comandi prendono posizione alle spalle dei condannati, che avanzano molto lentamente nel campo a causa del compagno ammalato. Quando giungono davanti a me, i due gendarmi si fermano e consegnano il condannato ad altri due. Anche gli altri si fermano. Il prete, i due condannati sani con la scorta e il plotone di esecuzione dietro di loro. Riesco a vedere il volto dell’ammalato. È gonfio e rosso come una fiamma. Ha gli occhi sbarrati. Sono due occhi grandi, quasi verdi, con ciglia scure. Non guardano nulla offuscati come sono dalla caligine della febbre. Mi si posano addosso senza vedermi. Dal naso gli colano gocce di sudore. Si rimettono in marcia. Ogni tanto i piedi dell’ammalato finiscono dentro il solco dell’aratro. Gli altri due condannati sono dietro di lui. Sono molto pallidi e ogni tanto sbirciano la gente raccoltasi nel campo. Il prete cammina al loro fianco recitando in tono sommesso le preghiere per i defunti. Il cappellano della nosrra divisione è un omone grande e grosso. Ha una rustica espressione da campagnolo e una fitta rete di venuzze rosse gli intreccia i grossi occhi. Ha braccia e gambe robuste, e il deretano flaccido come quello di una donna. A completare il tutto ci sono le labbra tumide e sensuali, e la crocchia di capelli raccolti sulla nuca.

Al loro passaggio tutti smettono di parlare. Il cuore ci batte con violenza. Giunti ai piedi del terrapieno gridano «Alt!». I condannati vengono messi a tre passi di distanza l’uno dall’altro. Quello malato ha cercato di tenersi in piedi ma non ci è riuscito. Così lo fanno sedere con le braccia penzoloni. Ha il respiro affannato. Il plotone si mette sull’attenti. Il cancelliere della corte marziale, il sottufficiale belloccio che ho detto prima, dà lettura della sentenza nel silenzio assoluto. Il berretto luccica come nuovo. Si muove con grazia ed è elegantissimo. Alle sue spalle, vestita con un abitino azzurro, c’è una ragazza bionda molto carina. È la moglie del sottufficiale. Dicono che intendono sposarsi contro la volontà dei rispettivi genitori. Dopo tanto tempo è la prima donna vestita bene che vedo. Ha gli occhi azzurri e si fa aria con un ventaglio. Somiglia a un frutto maturo, tutto da spolpare. Gli ufficiali giunti dalla trincea sono molto premurosi nei confronti del bel cancelliere. Quest’ultimo intanto ha smesso di leggere la sentenza. Un’esecuzione capitale somiglia a un copione da rispettare e uno dei ruoli principali era appunto il suo. Riavvolge il foglio di carta e fa due passi indietro. Ai condannati viene domandato se vogliano dire qualcosa. L’ammalato non risponde. O almeno così pare a tutti anche se le labbra non hanno mai smesso di muoversi da quando l’hanno fatto sedere a terra. Ci osserva con i suoi grandi occhi stralunati. A un certo punto si sofferma sul plotone d’esecuzione. Ha lo sguardo buono e sciocco di una pecora. Accanto a lui, al centro, c’è il giovane volontario della gavetta, un ragazzo biondo e magro come un chiodo, con un paio di labbra strette e pallide. Il mento gli trema tutto. Con le dita di una mano si frega quelle dell’altra. Quando gli domandano se vuole dire qualcosa, gli occhi infantili gli brillano di speranza e rivolto all’ufficiale del plotone che sta in piedi all’estremità della compagnia, dice:

«Se voglio dire qualcosa? Che… che cosa dovrei dire, signor sottotenente?» (Per la forza dell’abitudine si mise sull’attenti pronunciando la parola “sottotenente”). «Vorrei… Per favore, vi scongiuro… Risparmiatemi la vita…».

Scoppia in un pianto a dirotto. Non riesce a smettere, piange come un bambino disperato.

Il terzo si comporta con inaspettata disinvoltura.

«Con il vostro permesso, vorrei fumare una sigaretta».

Permesso accordato, gli danno una sigaretta e un fiammifero per accenderla. La sigaretta gli tremola tra le dita. Fa due boccate con un gesto plateale. Di sicuro ha riflettuto a lungo sull’ultima sigaretta. Getta il mozzicone e lo spegne schiacciandolo sotto lo stivale, da bravo ragazzo che non lascia disordine in giro. Poi sputa per terra, si schiarisce la voce e comincia a parlare. Un pistolotto di oltre cinque minuti, in uno stile che cerca di essere elevato, pieno di strafalcioni e di solecismi. Per non parlare di luoghi comuni tipo “la macina inesorabile del tempo” o le stucchevoli rime baciate come “la pena del mio cuore / per il perduto mio amore”. In conclusione chiedendo che scrivano ai suoi e dicano che «è morto per l’inclito suolo della Patria, contro i nostri secolari nemici».

Io non so che cosa pensare. È un idiota che non si rende conto di quello che sta succedendo? È il classico greco spaccone che non si ferma di fronte a niente, neanche alla morte? È un eroe che si sta prendendo gioco della morte? In quest’ultimo caso, però, come mai quella volta se l’è data a gambe e si è rifugiato nel suo ricovero per sfuggire ai colpi di mortaio? Sono domande alle quali non riesco a dare risposta.

Conclusa la concione, corrono a bendare loro gli occhi prossimi a chiudersi per sempre. L’ammalato si è lasciato bendare gli occhi senza opporre resistenza, ma si è sfilato lentamente la benda dagli occhi. Il secondo invece si mette a gridare e sono costretti a legargli le mani dietro la schiena. Quanto al concionatore, si limita ad aggrottare le sopracciglia e a fare una smorfia, poi intreccia le braccia sul petto, sputa per terra e calpesta lo sputo con lo stivale.

L’ufficiale sguaina la spada e la solleva in alto. Resta per qualche istante in questa posizione, nel sole, circonfuso di bagliori argentati e di gemme luminose. Gli uomini puntano al bersaglio e le baionette luccicano. L’ufficiale abbassa bruscamente la spada. Insieme si sente anche il crepitio secco dei fucili. I condannati si accasciano al suolo in una pozza di sangue. Prima che cada e smetta di respirare, sulla guancia dell’ammalato si scorge un bulbo oculare. Il berretto resta immobile, poi cade anch’esso un istante prima che la testa si riversi sul terreno. Il ragazzo più giovane non è ancora morto, ha infilato le dita nel terreno e si contorce per l’agonia. Il sergente gli poggia la pistola dietro l’orecchio per dargli il colpo di grazia. Il concionatore muore sul colpo piegando il corpo di mezzo giro a sinistra.

Insieme con il boato dei fucili, si è udito il grido acuto dei soldati presenti all’esecuzione. Uno è addirittura svenuto e adesso rantola riverso al suolo. Si tratta del vecchio riservista di Salonicco, l’amico del ragazzo con le scarpe strette. Sembra che abbia l’epilessia tanto che un medico gli ha infilato il tappo di sughero della borraccia tra i denti per impedirgli di ferirsi alla lingua.

Poi all’improvviso tutti si mettono a parlare. I soldati si allontanano e un reparto passa marciando davanti ai corpi dei nostri compagni giustiziati. Una squadra del Genio corre a scavare tre fosse nel luogo stesso dell’esecuzione. Senza accorgersene, il caporale mette un piede nella pozza di sangue e mormora qualcosa strofinando gli stivali sul terreno per pulirseli.

Alcune donne del villaggio, con le mani conserte sul ventre, si avvicinano piano piano, accendono tre candele e le appiccicano su altrettante pietre. Le fiamme non si vedono a causa dell’intensa luce solare. Poi, muovendo la testa a destra e a sinistra, intonano il canto funebre per i tre ragazzi giustiziati. È un canto monotono e struggente ciascun verso del quale si conclude con un secco “Ahaaaa!”.

Quando ce ne andiamo, sul volto abbiamo l’espressione sollevata di quanti sono consapevoli di aver scampato un pericolo mortale.

 

Il greco

Nonostante ci provi, la fucilazione dei tre soldati della nostra divisione non riesco a giustificarla.

«I vostri nemici vi uccidono ma vi uccidono anche i vostri ufficiali», mi ha detto Babo, la vecchia madre di Avtcha. «Non sono cristiani quelli!».

«Perché li hanno uccisi?», ha domandato Ghivezo con le lacrime agli occhi. Ed era come se domandasse a me: «Perché li hai uccisi?».

«Li hanno uccisi perché non volevano fare la guerra. E per non fare la guerra si sono nascosti», ho risposto io.

Avtcha si è alzata in piedi. Era pallida e ha detto a coloro che le stavano intorno:

«Li hanno uccisi perché non volevano uccidere! Che siano maledetti!».

“Amen”, ho pensato io.

Una cosa è certa: dopo la fucilazione dei nostri tre compagni, casi di diserzione non ce ne sono stati più a parte una, maturata in condizioni affatto particolari. Si tratta del sergente Zafirìu, non so se te ne ho mai parlato. L’unico sottufficiale di carriera di Lesbo nel nostro Reggimento. I soldati lo guardavano con quel malcelato disprezzo che dopo i primi anni della liberazione si riservava a tutti coloro che per vivere preferivano mungere la mucca dello Stato anziché rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro. Zafirìu era un “greco”. I soldati chiamano così tutti gli ufficiali di carriera e gli impiegati pubblici inviati dallo Stato centrale dopo l’annessione delle isole. L’intento dei soldati è sarcastico ma Zafirìu non se lo meritava perché era un bravo ragazzo, animato da un fervente patriottismo ma anche molto determinato a fare carriera nell’esercito. Adorava il suo mestiere e non aveva paura di niente. Al contrario, ogni cicatrice, per lui, era un gradino che lo portava più vicino alla gloria e quando eravamo in trincea non esitava a partecipare a tutte le missioni più pericolose.

Tuttavia del coraggioso soldato Zafirìu, dell’acceso nazionalista Zafirìu, all’indomani della triplice esecuzione si è persa ogni traccia. Il capitano è stato costretto a dichiararlo ufficialmente disertore e ha disposto un’inchiesta interna. In base alle risultanze è emerso che il sergente Zafirìu ha abbandonato nottetempo la sua tenda senza farvi più ritorno. La cosa più strana è che con sé non ha preso le armi né lo zaino e neppure la divisa. A quanto pare è scappato indossando soltanto la camicia!

Secondo mio fratello, è impossibile che sia scappato ed è più probabile che sia stato rapito da un serbo o comunque da un nemico.

Il capitano condivide l’ipotesi di mio fratello. D’altro canto Zafirìu sembra sparito nel nulla. Così il soldato più agguerrito del nostro Reggimento è stato dichiarato ufficialmente disertore…

 

Pioggia d’autunno

Le mie giornate trascorrono serene con l’illusione della pace. In casa di Avtcha niente ricorda la ferocia della guerra. La gamba non mi fa quasi più male tanto che la domenica, quando la famiglia va in montagna a raccogliere nocciole, riesco a unirmi a loro. Da queste parti i noccioli crescono spontanei e formano boschi veri e propri cosicché si possono raccogliere a piacimento. Di solito la raccolta delle nocciole avviene la domenica perché gli abitanti della zona la considerano un passatempo. Per distinguere i vari tipi di nocciola occorre un occhio allenato. Sono racchiuse entro i loro piccoli gusci, verdi come le foglie dell’albero, e sono disposte per tutta la lunghezza del ramo. Le donne le raccolgono e me ne danno manciate intere. Poi le ammucchiano nell’aia e le lasciano asciugare al sole. Così fanno provvista per tutto l’inverno.

Oggi è domenica ma a causa della pioggia battente che cade da stamattina, nessuno è andato a raccogliere le nocciole. Ci siamo raccolti tutti sotto la tettoia del loggiato e guardiamo la pioggia scrosciare come una cascata. Un lenzuolo d’acqua ondeggia nell’aria e viene inghiottito dalla terra rovente, la grassa terra macedone. Cade talmente tanta acqua che le campagne somigliano a una palude sconfinata. Le donne sono sedute con le braccia strette intorno alle ginocchia. Osservano la pioggia, ne odono il crepitio in silenzio. Anch’io faccio lo stesso ma dopo tante ore comincio a non poterne più. Tutta quest’acqua mi ha stancato.

A poco a poco il rumore monotono della pioggia mi riempie di malinconia risvegliandomi nel cuore una nostalgia struggente. Chiudo gli occhi e mi tappo le orecchie per udire lo scroscio rinfrescante della prima pioggia d’autunno a Lesbo. Piove a catinelle e il rombo dei tuoni fa tremare l’aria. La terra ha l’odore di una donna. Tutti inspirano l’aria insaziabilmente, con piccoli respiri ripetuti. Un fosco velo d’acqua aleggia sopra le tegole e le stanze si riempiono di voci allegre. I ruscelli cantano e le lamiere di zinco suonano il pianoforte. Finché a un certo punto, da dietro le nuvole, si vede fare capolino il sole, sereno e splendente. Gli alberi bagnati scintillano nella luce mentre nel porto, oh, che festa nel porto! I pescherecci dispiegano festosamente le vele per farle asciugare e le carrucole stridono come se lanciassero gridolini festosi. I pappafichi bianchi dei vascelli sono appesi alle alberature lucenti, simili a giganteschi vessilli di gioia e di pace. Le fronde si agitano compiaciute e le tegole brillano scarlatte. Gli alti pioppi salutano con le loro foglie verdargento che tremolano e si agitano nell’aria pulita come altrettanti fazzoletti gioiosi.

Sull’orizzonte si staglia un branco di placide nuvolette batuffolose con le teste ricciolute. Sembrano candidi angioletti venuti a svolazzare lungo i bordi azzurri del cielo per asciugarsi al sole le alucce umide.

Il cielo è soffuso di una bontà e una dolcezza infinite. Un Dio misericordioso e benigno osserva tutto da lassù, compiaciuto di se stesso.

Le prime piogge d’autunno, a Lesbo…

 

Asimakis Garufalìs il Bello

Oggi ho preso il bastone e sono andato all’ospedale da campo n. 3 che si trova a duecento metri dal villaggio. Tutto il personale, sia il direttore sanitario sia gli infermieri, sono di Lesbo. Il direttore sanitario, il dottor Pantelidis, è un uomo molto generoso. Abbiamo chiacchierato a lungo della nostra isola natale e a entrambi è venuta la nostalgia. I pazienti sono perlopiù affetti da scabbia, una malattia diffusissima tra gli uomini della divisione ma che a noi isolani era quasi del tutto sconosciuta. I soldati l’hanno contratta nei ricoveri in precedenza occupati dai francesi e dalle loro truppe africane, e adesso fanno di tutto per ammalarsi perché è l’unico modo per sfuggire alla trincea, diserzione a parte. Un soldato con la scabbia è come la manna dal cielo per i suoi compagni. Con il pretesto di andare a trovarlo, si strofinano sulle sue pustole per farsi contagiare. Così il Reparto Scabbiosi dell’ospedale da campo n. 3 è diventato ben presto la Compagnia degli Scabbiosi. La cosa più sconcertante avviene quando i medici annunciano ai soldati che la terapia cui sono stati sottoposti ha funzionato e che la guarigione è vicina. Quei poveracci che a causa del prurito non riescono a chiudere occhio tutta la notte, a un tratto vengono colti da vere e proprie crisi di panico all’idea di dover tornare in trincea. Allora si grattano le pustole ancora rimaste e diffondono il contagio alle parti sane del corpo. Il medico lo sa molto bene e per quegli sciagurati prova più compassione che sdegno anche perché la cura della scabbia è un tormento atroce. Bisogna fare bagni in continuazione, spazzolarsi il corpo energicamente e applicare un unguento specifico sulle scorticature.

«La vita militare trasforma gli uomini in bestie», mi ha detto. «Ho visto ragazzi perfettamente sani pronti ad accettare le mutilazioni più dolorose. Qualche giorno fa ho dimesso un ammalato e l’ho rispedito in trincea, ma lui pur di restare qui non ha esitato ad appoggiare una mano sulla bocca di un fucile e a sparare. Del braccio è rimasto soltanto un moncherino».

«Dottore, sono molti i casi mortali?», ho domandato al medico vedendo due infermieri che trasportavano un corpo senza vita su una barella. Erano usciti dalla grande tenda quadrata dell’ospedale da campo e si dirigevano verso una tenda più piccola, ai margini dell’accampamento, che all’esterno recava la tabella: CAMERA MORTUARIA.

«Abbastanza», ha risposto il medico. «La maggior parte se li portano via la dissenteria e la polmonite. Il ragazzo sulla barella che hai appena visto appartiene al vostro Reggimento ed è appunto morto di dissenteria. Tutta colpa del grasso vegetale e della carne salata».

«Come si chiama?».

«Garufalìs… Asimakis Garufalìs».

Apparteneva alla nostra compagnia. Era un uomo di mezz’età molto sfortunato. Lo conoscevo bene. Era originario di un villaggio alle falde del monte Olimpo, faceva il contadino ed era padre di famiglia. Ho lasciato il medico al suo lavoro e sono andato a porgere ad Asimakis l’estremo saluto. Dentro la tenda c’erano due barelle: una era vuota, sull’altra c’era il corpo senza vita di Garufalìs. Ho sollevato un lembo del lenzuolo che lo copriva.

Ricorrendo all’immaginazione mi sforzai di ricostruire le fattezze del mio compagno quando era vivo e di contrapporle a quella fisionomia alterata dalla malattia e dalla morte. La pelle era gialla e trasparente come una pergamena. Il naso prominente era diventato ancora più lungo, grosso e raggrinzito. Sembrava un dito proteso con ostinazione verso il mento. I baffi ingialliti dalle sigarette pendevano verso il basso e il labbro inferiore era gonfio a causa del morso di un dente giallastro che spuntava solitario dall’arcata superiore, a sinistra. La testa era quasi completamente calva, bianca e sporca. Il sudiciume dei morti è la cosa più stomachevole di tutte. Inorridito e disgustato riabbassai il lembo del lenzuolo ripensando a un episodio accaduto tra me e lui durante una marcia.

Avevamo piantato le tende nei pressi di un villaggio per restarci cinque giorni ma soltanto il primo giorno riuscimmo a tirare un po’ il fiato. Quello fu un giorno molto bello perché per la prima volta avvenne la distribuzione delle lettere dei nostri cari provenienti da Lesbo. L’indomani invece il reggimento ordinò “esercizi di precisione” per tenere alto il morale della truppa. Il reparto di Garufalìs fu affidato al nostro sergente maggiore, quello molto rude e sbrigativo. «Garufalìs, pancia in dentro e petto in fuori!» continuava a gridare il sergente e il povero Garufalìs, in preda allo sgomento, si sentiva ancora più schiacciato dal peso dello zaino. Rivolgeva sguardi spaventati al sergente maggiore e intanto continuava a fare un mucchio di errori.

«Pappamolla, tieni la schiena diritta!», lo incalzava il sergente e Garufalìs arrossiva per la vergogna. Persino le orecchie e gli occhi gli erano diventati rossi.

«Canaglia, stai attento a dove metti i piedi! Unò-duè, unò-duè!».

Alla fine, colto da un raptus di indignazione, il sergente maggiore corse da lui, lo prese per le spalline e lo scrollò per umiliarlo davanti a tutta la truppa. Intanto i soldati avanzavano. Il sergente ordinò a Garufalìs di pulire le latrine per punizione e per umiliarlo ancora di più, lo diede in consegna a un caporale, che era poco più di un ragazzino. Quanto a Garufalìs, gemeva e si lamentava, e i soldati sdraiati sull’erba si sbellicavano dalle risate vedendo un pivellino insegnare la marcia a un vecchio.

Quando la tromba suonò la fine delle esercitazioni, mi alzai e trovai Garufalìs dietro un alberello, con le mani nodose strette intorno alle ginocchia e la testa bassa, penzoloni come quella di un ubriaco. Gli diedi una pacca sulle spalle e lui sobbalzò come se si svegliasse da un sonno profondo.

«Non te la prendere», dissi. «Nell’esercito queste cose sono all’ordine del giorno, anche a me è capitato».

Rimase a lungo a guardarmi come un allocco, con i suoi brutti occhi sporgenti, poi, quando si rese conto che le mie parole erano sincere, abbozzò un sorriso amaro. A poco a poco, muovendo goffamente la mano ossuta e buona soltanto a reggere l’aratro, si sbottonò la tasca superiore della giubba, tirò fuori una busta verde, piegata in quattro, e me la diede. Dentro c’era una lettera.

«È di mia moglie», spiegò senza guardarmi. «Per favore, leggimela tu che hai fatto le scuole…».

Leggendo la lettera ho finalmente capito per quale motivo Garufalìs non riusciva a mettere un piede dietro l’altro e ad assumere una postura corretta durante la marcia. Ecco dunque quello che diceva:

“Caro Asimakis, per prima cosa spero che tu stia bene. Noi stiamo bene. Sappi che Plumìs lo abbiamo venduto ma i soldi li abbiamo già spesi tutti. L’altro bue, Mavreli, il tuo compare Thanasis non ce lo lascia vendere perché, dice, lo avete in comproprietà. Non abbiamo neppure i soldi per comprare il pane. Abbiamo ad Arvanitàs, il fornaio, di farci credito. Lui mi ha fatto l’occhiolino e ha detto che mi avrebbe fatto credito molto volentieri se prima avessi saldato il nostro debito regresso. Che Dio lo punisca per non aver avuto alcun rispetto di una madre con tre figli e di un soldato che si trova al fronte per difendere la patria e la religione.

Sono io, tua moglie Asimenia, a scriverti per mano di nostra nipote Stavrula e ti abbraccio”.

Tutti questi eventi dimenticati mi sono tornati in mente con incredibile vividezza, in ogni dettaglio. Penso a quanta infelicità può nascondersi sotto il lenzuolo funebre di un ospedale militare.

Mi voltai per uscire dalla tenda, che puzzava di cloroformio e mi opprimeva con quel suo tetto di tela ma un istante prima che ne varcassi l’ingresso triangolare, scorsi il generale venire dritto verso di me, in compagnia dell’aiutante di campo e del medico. L’aiutante di campo si piazzò davanti all’ingresso impedendo a chiunque di entrare o di uscire. Io mi ritirai in un angolo per non contrariarlo. Balafaras, come al solito, batteva il frustino sugli stivali e rivolgeva al medico domande sull’ospedale da campo, sugli ammalati e tutto il resto. Dalla bocca, come sempre, le parole gli uscivano tonde come frittelle, lente, scandite dai sibili del frustino.

«Dissenteria, eh?», e giù, zwiiii!, un colpo di frustino. «Dissenteria! Dottore, la salute comincia dallo stomaco e dall’intestino», zwiiii! «L’apparato digerente è la caldaia della macchina (zwiiii!). Veda, dottore, io non avrò mai bisogno di lei (zwiiii!). Ho sessant’anni e uno stomaco che digerisce anche i sassi» (zwiiii!).

«Sì, generale, la sua salute è di ferro».

«Di ferro? Vorrà dire d’acciaio!».

Pausa.

«E quello, dottore, chi è?» (zwiiii!).

Il medico sollevò il lembo del lenzuolo. Spuntò il volto tumefatto di Garufalìs. Il dente giallo continuava a mordere il labbro.

«Povero ragazzo! (zwiiii!) Così va il mondo (in tono solenne). Oggi a me domani a te! (zwiiii!)».

«Certo, generale».

«Peccato, perché era un bel ragazzo… e un soldato valoroso» (zwiiii!).

Pausa.

«Non è vero, signor aiutante di campo?» (zwiiii! zwiiii!).

«Signorsì, signor generale» (per la paura diede un colpo di tacco).

«Si ricordi di scrivere una bella lettera alla famiglia e sbrighi le pratiche necessarie per insignirlo della croce al valore! (zwiiii! zwiiii!) Tutti i familiari dei miei eroi sono degni della croce al valore» (zwiiii! zwiiii!).

«Signorsì, signor generale!» (Tacchi, speroni e tutto il resto).

 

La morte di Zafirìu

Oggi Dimitratos dalla compagnia, insieme al rancio, mi ha portato anche una notizia che mi ha profondamente turbato. Che avesse qualcosa da dirmi l’ho capito dal fatto che non smetteva un istante di balbettare. Subito dopo avermi consegnato la gavetta colma di carne e il vino – nei “campi di riposo” il vitto non è niente male – si è abbandonato a un sospiro.

«Se sapessi…».

«Sapere cosa?».

«Mah, niente. Mangia e poi ti dico. Nel frattempo dì alla ragazza di farmi un caffè e offrimi una sigaretta».

Finito di mangiare, cominciò il suo racconto:

«Il sergente Zafirìu è stato ritrovato».

«Lo hanno preso?».

«Neanche per sogno. Innanzitutto non è stato necessario prenderlo visto che era immobile. E poi nelle condizioni in cui era, nessuno aveva il coraggio di toccarlo».

«Vuoi dire che è morto? Su, parla, che cosa aspetti?».

«È una brutta storia. Hai mai pensato a qual è il modo peggiore per morire? Ebbene, dammi ascolto. Come sai, al campo del reggimento abbiamo le latrine in comune, o meglio, c’è una buca coperta da tavole di legno simili a ponti che usiamo come latrina comune. I soldati vi si accovacciano sopra, in fila, e lamentandosi vi scaricano dentro la carne salata dei bufali australiani che ci rifilano per il rancio, neanche fossimo bestie del circo. Dopo aver piantato le tende, abbiamo trovato un reggimento francese in procinto di costruire una trincea. I francesi ci hanno concesso di usare le loro cucine, il deposito della legna, alcuni barili di grasso vegetale e qualche brandina arrugginita. Poi ci hanno lasciato anche la buca che ti ho detto, piena fin quasi all’orlo… Noi, che avevamo il mal di pancia a causa delle schifezze che ci davano da mangiare, subito dopo esserci accampati, abbiamo messo mano ai pentoloni e abbiamo preparato un rancio come Dio comanda. E sempre a Dio piacendo, la buca si è riempita tutta nel giro di pochi giorni. Così abbiamo riempito la prima buca di terra, ne abbiamo scavata un’altra e sopra ci abbiamo messo le tavole di legno della prima. La prima buca volevamo riempirla anche di sassi, ma siccome non ce n’erano, e lo Stato maggiore non ci metteva a disposizione i carri necessari per andarli a prendere da qualche altra parte, la prima buca l’abbiamo coperta soltanto di terra».

«Davvero?».

«Davvero».

«E ci siete riusciti?».

«Diciamo di sì. Solo che una notte Zafirìu si è alzato per pisciare e vuoi perché la sera prima ci avevano dato da bere del cognac vuoi perché era impastato di sonno, invece di andare alla nuova buca, è andata alla vecchia e ci è caduto dentro perché la terra ha ceduto sotto il suo peso. Il medico dice che è morto asfissiato. In altre parole il nostro compagno anziché per la patria, è morto in un lago di merda».

«Dimitratos, vergognati?».

«Perché mi dovrei vergognare? È questa guerra che si dovrebbe vergognare. Sono molto più vecchio di te e nella mia vita ne ho viste di tutti i colori. Ma quando mi capita di assistere a episodi del genere, io, che non credo neppure al diavolo, comincio a domandarmi se sopra le nuvole non esista davvero qualcosa o qualcuno anche se neppure gli aeroplani da guerra sono mai riusciti a vedere. Voglio dire, mi domando se lassù non esista davvero un dio che ogni tanto molla qualche ceffone in nome della giustizia».

«Zafirìu però era un vero eroe».

«Un eroe per finta, come tutti quelli che della guerra e della morte fanno una professione. A questa stregua anch’io sono un eroe. Ho persino la croce al valore. Ma la cosa più divertente è che il tuo eroe si trovava ancora nella merda e Balafaras aveva già inviato a Mitilene una delle sue “belle lettere” per congratularsi con i genitori per “l’inclita morte di vostro figlio, il quale, con uno sprezzo del pericolo degno della più schietta tradizione ellenica, è caduto sul campo di battaglia combattendo per la Fede e per la Patria”. È di questo che ci si dovrebbe vergognare, mica della verità. Pensa invece se la divisione avesse scritto: “Cari amici, Zafirìu, ubriaco fradicio, è caduto combattendo contro la merda greca e la merda francese strette in santa alleanza. E purtroppo al momento glorioso della morte non ha potuto gridare ‘viva la Grecia’ perché… perché aveva la bocca piena!”».

 

La parata

È giunta l’ora di lasciare il borgo povero e pacifico che ci ha ospitato finora. Le trombe squillavano rauche, odiose. Il generale aveva annunciato di voler passare in rassegna “i suoi bei reggimenti” prima che ci stipassimo sui treni diretti al settore meridionale.

Era un pomeriggio grigio e afoso, pieno di umidità e di tensione nervosa. Si aveva quasi la sensazione di soffocare, una sensazione resa ancora più penosa dalle cinghie che stringevano il ventre e il torace.

I soldati, schiacciati dal peso dell’equipaggiamento, si mettevano in fila con passo rassegnato e indolente. Dopo tanti giorni trascorsi in campagna, dopo tutta la luce del sole che ci aveva attraversato i pori, dopo tutta l’aria fresca e pulita che ci aveva riempito i polmoni ammorbati dall’aria crassa del ricovero, la marcia dei giovani soldati aveva un che di luttuoso e di angosciante, come una processione di tisici. Erano molti mesi che non vedevo tutti insieme gli uomini della nostra divisione, da quando, con il volto rubizzo e pieni di salute, avevano raggiunto i posti di combattimento ed erano scomparsi nelle viscere della terra. Allora sì che eravamo dei “bei reggimenti”, profumati di salsedine e dei fiori della nostra isola. Adesso invece avevamo l’aspetto di morti viventi. Sui volti di alcuni miei compagni si scorgeva la lunga ombra della morte, che aveva fatto raggrinzire la pelle, soprattutto attorno agli occhi, come se un tarlo avesse scavato cunicoli nell’epidermide. I loro volti erano quasi irriconoscibili, persino le mani sembravano imbarcate come un pavimento di legno. Così dovevano essere le mani e il volto di Lazzaro subito dopo la risurrezione, quando gli venne tolto il sudario di lino.

Quando le trombe smisero di squillare, si udirono i fischietti degli ufficiali. Continuavano a sopraggiungere soldati, indolenti e irritabili, con i mantelli rattoppati e le maniche sdrucite. Gli ufficiali imprecavano, gridavano e li minacciavano. Noi però sapevamo fin troppo bene di essere soltanto carne da macello, destinata a finire di nuovo sottoterra, sicché i fischietti e le terribili minacce degli ufficiali non avevano alcuna importanza di fronte alla parola “trincea”, il cui orrore ci aveva impregnato i corpi, gli abiti e le budella. Non c’è punizione più grande cui si possa condannare un essere umano.

Dunque era la realtà della trincea a riempire di angoscia l’aria e il cielo coperto di nubi. Dal canto suo Balafaras cercava in ogni modo di conferire al tutto un’atmosfera festosa per fare bella figura con un paio di ospiti giunti a trovarlo qualche giorno prima. Si trattava di Kondelis e di Grimbìs, due giornalisti di Lesbo alla ricerca di notizie da dare in pasto ai lettori-abbonati, e di Garìfalos, soprannominato l’“oratore nazionale”. Kondelis è direttore della testata “Voce Patriottica” nonché autore di trascinanti fondi patriottici che non manca di inviare in omaggio ai vari reparti dell’esercito per tenerne alto il morale. Anche il figlio scrive. Studia Scienze politiche in Francia e invia interessanti reportage in cui non manca di sottolineare l’ammirazione dei francesi per la divisione del Mar Egeo, da essi chiamata “armata Venizelos”. A Lesbo non c’è notabile o mercante d’olio degno di questo nome che non giochi a tavola reale con lui e non ne stia a sentire le illuminate opinioni politiche. La moglie di Kondelis ha i capelli biondi, ed è pasciuta e sapida come una fetta di pane tostato con il burro. Durante un ricevimento di carnevale organizzato presso il Circolo dei commercanti d’olio d’oliva gli ufficiali francesi di stanza a Lesbo la soprannominarono parisienne de Paris. La “Voce Patriottica” non ha mancato di riferire la notizia, sia pure in un trafiletto.

Il secondo, Grimbìs, è un gran farabutto, ma così ingenuo da risultare, rispetto a Kondelis, quasi simpatico. Ogni tanto annuncia l’uscita di un nuovo giornale e fa campagna abbonamenti. Poi, messa insieme una cospicua cifretta, chiude baracca e burattini al quinto o sesto numero. Eppure c’è un motivo per cui si è guadagnata l’amicizia eterna di Balafaras. Si tratta della signora Aglaò, sua moglie, un donnone ben in carne e con un paio di cosce grosse come prosciutti.

Quando Balafaras stava a Lesbo, la signora Aglaò la si vedeva al fianco del generale più spesso del suo aiutante di campo. Grazie alla sua altezza, la donna era un’accompagnatrice ideale per Balafaras. Grimbìs invece era minuto e bassino, e quando era insieme a lei sembrava che formassero l’articolo “il”.

La relazione tra il generale e la donna era improntata a una grande semplicità. Qualche volta lui e altri amici andavano in gita sul Monte Olimpo, a Lesbo. Con loro c’era anche Grimbìs che si portava dietro la macchina fotografica e il blocchetto delle ricevute nella speranza di vendere qualche abbonamento. A mezzogiorno si fermavano a mangiare in un bosco di ippocastani. Balafaras beveva vino locale, si lisciava con solennità i baffoni e infine si stiracchiava sull’erba. Spronato dal vigore della sua stessa salute, testimoniata dal dolce formicolio procuratogli dalla natura lussureggiante che lo circondava, in un momento di particolare etro lirico disse al signor Grimbìs:

«Mio caro Apostolis, questo monte è Olimpo di nome e di fatto. Peccato che la signora Aglaò non sia qui con noi!».

Grimbìs sta per pubblicare un quotidiano locale di ben sei pagine chiamato “Costantinopoli”. Si è fatto raccontare da Balafaras un mucchio di particolari sulla vita in trincea e ha già cominciato la stesura di un articolo intitolato “La tana del drago” che, a suo dire, farà molto discutere anche ad Atene. Il generale gli ha anche procurato del materiale fotografico e ha ordinato a tutti gli ufficiali di abbonarsi subito alla nuova testata. Uno di loro, più buontempone degli altri, gli ha chiesto se la scelta della testata avesse a che fare con il Corno d’Oro di Costantinopoli. Grimbìs rise di cuore alla battuta e senza farselo ripetere, consegnò la ricevuta di abbonamento.

Infine c’è Garìfalos, l’oratore nazionale. Ha i capelli rossi, il naso rosso, gli occhi rossi, la cravatta rossi e gli stivali neri di vernice. In passato è stato corista di operetta, impiegato pubblico, direttore di un cinematografo, agente immobiliare e importatore di capi di abbigliamento tedesco. Avendo inanellato un insuccesso dopo l’altro, adesso, divenuto seguace del governo rivoluzionario, ha deciso di dedicarsi all’indottrinamento patriottico dei soldati al fronte.

Balafaras è in brodo di giuggiole e continua a farsi fotografare. In questo modo crede di ottenere l’immortalità e ogni volta chiede al fotografo della divisione se di quelle fotografie si possono avere delle copie.

Nel frattempo ci eravamo disposti in un quadrato al centro del campo. Al centro c’era lui con i suoi tre ospiti e l’aiutante di campo, il tenente Poglitis – il suo vero nome è Politis ma lo prendiamo in giro perché a causa di un difetto di pronuncia la “elle” la pronuncia “gl”. Questo Politis è un ragazzotto con le guance rosse, delicato come una porcellana, con le labbra scarlatte e l’aspetto effeminato. Siccome da piccolo ha avuto un’istitutrice francese, oltre che l’aiutante di campo è anche l’attendente di Balafaras.

Ai cinque è venuto ad aggiungersi una sesta persona, il padre Theòdoros, il cappellano della nostra divisione, quello con la faccia paonazza da camallo e le labbra tumide. Va in giro tra un reparto e l’altro per bere a scrocco e ogni tanto lo trovano in aperta campagna, ubriaco fradicio, accanto al cavallo che bruca tranquillo l’erba accanto a lui. (Dicono anche che trascorra la notte abbracciato al suo attendente, un giovane volontario di non più di diciotto anni.)

Di solito indossa un berretto con la croce dorata e le tre stelle di capitano. Quel giorno invece portava anche una stola sopra la divisa kaki e per la prima volta esibiva la Croce di guerra, che lui e il direttore della banda musicale avevano ricevuto la settimana precedente su proposta del generale. Il prete infatti gli aveva mostrato il foro di un proiettile ricevuto nel berretto il giorno in cui era andato alla trincea di una compagnia per recitare le preghiere in suffragio di alcuni artiglieri rimasti uccisi nel loro ricovero. In realtà Balafaras lo aveva decorato perché durante la messa all’aperto che si celebrava ogni domenica al campo, il padre Theòdoros non mancava mai di esaltare le virtù guerriere di Balafaras ricorrendo di solito a magniloquenti espressioni bibliche pronunciate con accento campagnolo e accompagnate da una pomposa gestualità. Al termine della messa Balafaras riceveva il prete in visita nel suo ufficio e ogni volta il generale gli baciava con ostentazione le mani grassocce e pelose come le zampe di un orso.

Le trombe squillarono l’attenti, la parata andava a incominciare. Il generale fece un breve preambolo con il suo vocione tronituante scegliendo accuratamente le parole. Prima di trasferirci nel nuovo settore ci veniva richiesto di accogliere i saluti della nostra diletta isola, rappresentata dai due illustri ospiti, e della Nazione tutta, che ci recava Garìfalos con i suoi stivali di vernice. In seguito si sarebbe data lettura di una breve preghiera in memoria dei nostri compagni caduti sul campo di battaglia e dell’“appello dei caduti”, tanto scontato quanto raccapricciante.

Il primo a prendere la parola fu Kondelis, che in uno stile molto simile a quello dei suoi articoli di fondo, si dichiarò lieto di essere in nostra compagnia. Aggiunse che a Lesbo il desiderio di tutti era vederci tornare a casa come conquistatori di Costantinopoli. In caso contrario… era meglio che non tornassimo affatto. Quanto ai caduti, promise che avrebbe fatto loro erigere un Sacrario sormontato dalla statua della Libertà, con i nomi di ciascuno inciso a lettere d’oro.

In seguito fu il turno di Grimbìs, che a Lesbo era stato soprannominato “signor Aglaò”. Il signor Aglaò, dunque, disse che il suo compito era diffondere sui giornali di tutto il mondo la gloria delle nostra gesta eroiche. Proseguì con un panegirico all’indirizzo di Balafaras e concluse affermando che il compito del suo nuovo giornale, il “Costantinopoli”, era appunto quello di garantirci un posto nella storia accanto ai combattenti di Maratona e ai Trecento di Leonida alle Termopili.

L’ultimo a esibirsi fu Garìfalos, il cui numero si rivelò il più avvincente di tutti. Cominciò a gesticolare, a gridare, ad agitarsi come un tarantolato, a recitare strofe poetiche, a menar pugni dappertutto. A un certo punto gridò persino “Eia! Eia! Alalà!” e proseguì con il giuramento degli efebi ateniesi. Era davvero stupefacente vedere quell’uomo tanto posato e tranquillo perdere a un tratto il controllo delle sue azioni. Subito dopo un sergente si mise a leggere l’appello dei caduti. A voce alta scandiva il nome, la città di origine e i dati anagrafici di ognuno, mentre il signor Poglitis specificava il luogo e le circostanze della morte. Frattanto il padre Theòdoros bofonchiava formule di perdono, le truppe presentavano le armi, Grimbìs fotografava il generale e Kondelis si puliva gli occhiali per la commozione. Il compito più difficile era il nostro. Dentro di noi lanciavamo maledizioni all’indirizzo dei nostri compagni, che ci costrinsero a restare perfettamente immobili ben quarantacinque minuti.

Poi ebbe inizio la seconda parte.

Il generale e la sua compagnia di giro si allontanarono dal campo, oltre la strada carrozzabile. Accanto a Balafaras si disposero in fila gli orchestrali della banda con il direttore, anche lui decorato con la Croce di guerra per aver composto tre marce militari in onore di Balafaras. La preferita del generale era una scopiazzatura bella e buona, che Balafaras faceva eseguire a proposito e a sproposito.

Questa volta invece come sottofondo musicale era stata prescelta una canzone popolare. Il direttore agitò la bacchetta e la banda al completo si mise a colpire i tamburi. I vari reparti, suddivisi in battaglioni da quattro file ciascuno, cominciarono a sfilare davanti al generale diretti verso la stazione ferroviaria, dove sarebbero cominciate le operazioni d’imbarco. I vagoni merci erano già in attesa sul binario, pronti a inghiottire vivi i soldati e gli animali nel loro ventre di ferro.

Il cielo aveva il colore del piombo e grossi goccioloni fendevano l’aria trasformando la terra in una poltiglia scivolosa che restava incollata sotto gli scarponi. Verso sud cumuli sfrangiati di nubi si erano addensati intorno a una repellente collina gialla e lercia come un mucchio di biancheria sporca. Le cinghie dello zaino, con tutti i nostri effetti personali, ci ferivano a sangue le spalle e le ascelle, non più abituate al peso. A causa della prolungata immobilità le braccia si erano indolenzite e le gambe non ce le sentivamo più, tanto che per sgranchirle ci mettemmo a marciare sul posto in attesa che giungesse il nostro turno.

A fianco a me c’era Stefanu, un uomo piuttosto anziano che lavora al mercato del pesce. Ha due figlie e uno stuolo di nipoti orfani, figli della sorella vedova. Timido e taciturno, passa il tempo libero a scrivere e a riscrivere lettere e notifiche alle autorità militari di Atene e di Lesbo. Infatti il povero Stefanu è stato arruolato per errore, a causa della data di nascita sbagliata scritta nell’ufficio di leva. Ma è tutta fatica sprecata e nel frattempo le figlie e gli orfanelli sopravvivono a stento facendo la spesa a credito o con l’aiuto di un sussidio erogato senza alcuna regolarità. A raccontarmi queste cose è stato mio fratello che, come sergente, un paio di volte ha dovuto trasmettere le sue notifiche agli uffici centrali. Stefanu è troppo orgoglioso per lamentarsi o per mettere in piazza i suoi problemi con uno sconosciuto quale sono io. Non parla quasi mai con nessuno e preferisce di gran lunga stare a macerarsi da solo, in compagnia del cruccio segreto che gli ha scavato il volto ancor più delle privazioni della trincea. Ha gli occhi infossati nelle orbite e basta guardarli per capire che quel poveraccio il tempo che sta da solo lo passa a piangere. Qualche volta però abbassa la guardia, si stringe le ginocchia tra le braccia ossute e i baffi grigi cominciano a tremargli, scossi da un pianto segreto.

«La nostra unica salvezza è la morte», mormorai stremato dalla fatica. Lui si voltò e rispose con uno sguardo carico di pena impassibile:

«Hai ragione, ma per darsi la morte ci vuole coraggio».

In quel momento la nostra compagnia ha ricevuto l’ordine di mettersi sull’attenti. I soldati hanno cominciato a marciare lentamente ma in ordine. Tuttavia, quando siamo entrati nell’onda sonora prodotta dalla banda, senza accorgercene abbiamo accelerato il passo e abbiamo sollevato la testa. Prima che giungessimo all’altezza del generale, è accaduto un piccolo incidente. Quel pagliaccio di Dindinìs, un soldato mezzo matto che lavorava nella cucina da campo e faceva morire dal ridere tutta la compagnia, a un tratto si è allontanato dalla fila e si è messo a ballare al ritmo della musica. Il nostro capitano, incredulo, ha cercato di richiamarlo all’ordine, ma è stato preceduto dal generale, che ha ordinato alla compagnia di fermarsi e alla banda di interrompere la musica. Poi, scandendo bene le parole come faceva ogni volta che credeva di fornire materiale prezioso per gli storici del futuro, ha domandato:

«Ehi, tu, vieni qui! Come ti chiami?». (Signor aiutante di campo, prenda nota, mi raccomando.)

«Panaìs Dindinìs, di Antonis e di Pirmathula, nato a Pirghì, signor generale!».

«Mi compiaccio, soldato Dindinìs. È così che le voglio le mie truppe, pronte ad affrontare la morte can-tan-do-e-bal-lan-do! Signor Politis, conceda quindici giorni di licenza a questo bravo soldato. E adesso, avanti-march! E che la banda ricominci a suonare».

Nell’aria ha ricominciato a diffondersi la musica. La nostra compagnia si è rimessa in marcia, ma avevamo percorso soltanto pochi metri quando ho visto Stefanu staccarsi dalla nostra colonna, raggiungere il generale e mettersi a ballare come aveva fatto Dindinìs, con tanto di zaino sulle spalle, offrendo uno spettacolo più straziante che imbarazzante. La baionetta tremava sulla canna e siccome Stefanu continuava ad agitarsi, c’era il rischio che ficcasse la lama nell’occhio di qualche compagno. Stefanu sgambettava in modo sgraziato, rimbalzava e accompagnava il tutto con una pantomima da ubriaco cercando di seguire il ritmo della musica.

All’inizio ho creduto che gli fosse dato di volta il cervello, poi ho capito e mi sono sentito un groppo in gola. Quel poveraccio, quel soldato che si dimenava e zompava come un saltimbanco senza alcun senso del ridicolo, ogni tanto rivolgeva al generale uno sguardo supplice, carico di una speranza segreta, con quei suoi occhi gonfi e dolenti.

Il generale è scoppiato a ridere facendo tremare il pancione – oh, oh, oh! – e tutti quanti intorno a lui si sono affrettati a imitarlo. Infine ha sollevato un dito e ha detto a Stefanu:

«Rimettiti subito in fila, furbacchione che sei. Credevi di farmela, vero?».

Stefanu è tornato di corsa accanto a me rosso come una fiamma viva. Ha fatto ancora un paio di saltelli per riprendere il ritmo e infine si è messo a marciare come tutti gli altri tenendo lo sguardo sull’elmetto del soldato davanti a lui. Intanto la musica svirgolava attraverso la selva d’acciaio delle nostre baionette.

In quella posizione, tenendo perfettamente il ritmo e ridicolmente impettito come da regolamento, è scoppiato all’improvviso in un pianto silenzioso. Un fiume di lacrime ha cominciato a sgorgargli dagli occhi incavati per gocciolargli infine sui baffi grigi dalla punta del grosso naso. Sul collo magro e rugoso il pomo d’Adamo andava concitato su e giù come se qualcuno cercasse di strapparglielo attraverso la bocca.