Amore mio, per oggi mi fermo qui. Lo scopo di questo diario era soltanto quello di consolarmi con il ricordo di te e il ricordo di Lesbo. Sento il richiamo del capitano che mi ordina di prendere l’equipaggiamento e di raggiungere il mio posto. Le lancette dei minuti avanzano inesorabili, ruotano tutti insieme in migliaia di orologi, osservate da migliaia di occhi. Tra mezz’ora saranno le due e un quarto e trentamila soldati tutti insieme balzeranno fuori dalla trincea, completamente indifesi, battuti dalla pioggia di ferro e di fuoco dell’artiglieria.
Prima di lasciarti, voglio dirti che non devi stare in pena per me. Tra un paio di giorni ti scriverò i dettagli della prossima, imminente strage. Quello che avrà inizio tra mezz’ora mi riempie di sgomento e di terrore ma io già so che mi comporterò come tutti gli altri. Darò tutto me stesso per la vittoria finale e non mi sottrarrò alle mie responsabilità di sottufficiale. Alla base di tutto c’è l’amor proprio, l’orgoglio. È una cosa ridicola, lo so (in questo caso infatti l’amor proprio non è amore per se stessi), ma non riesco a resistere. Perché nessuno accetterebbe di sembrare da meno del barbiere della compagnia o del proprio commilitone. Questo vuol dire che ancora non ho imparato a dominare il mio io, questo avversario furbo e imprevedibile che conosce a menadito tutte le mie debolezze e non si mostra indulgente nei confronti di nessuna. Niente di cui stupirsi.
Per il momento, amore mio, questo è tutto. A domani! A domani!

 

 

 

Le madri di guerra

In questo momento sono a bordo di un vagone merci, in mezzo a due sacchi pieni di giberne quadrate e dure come pietre. È da oggi pomeriggio che siamo in viaggio, io e il mio reggimento, ammucchiati dentro questi enormi scatoloni verdi che sulle pareti esterne riportano il numero dei soldati e dei cavalli in essi contenuti. Siamo diretti verso un altro settore del fronte con il compito di rinforzarlo. Dove sarà la nostra prossima tomba? Quando vi arriveremo? Nessuno lo sa. E a nessuno importa di saperlo. In fin dei conti non fa molta differenza. Ad attenderci troveremo ancora una volta una trincea, ad accoglierci sarà sempre un ricovero e le granate ci geleranno il sangue nelle vene.

La notizia della mia partenza ha gettato gli abitanti del villaggio nello sconforto. Il ricordo del loro rammarico mi riempie ancora di commozione. La comunicazione è arrivata ieri sera, con la violenza di un pugno che mi ha destato da un sonno beato. Quando mio fratello mi ha consegnato la cartolina con l’ordine di recarmi alla compagnia, il mio volto deve essersi talmente incupito che tutti sono venuti a chiedermi che cosa fosse successo. La risposta li ha riempiti di stupore. Poi hanno cominciato a rivolgermi un mucchio di domande sul viaggio, e io naturalmente non sapevo che cosa rispondere. Abbiamo cenato in fretta e di malavoglia. Terminata la cena Avtcha ha preso la lanterna che usa per lavorare di notte, l’ha accesa e si è messa a frugare nella mia biancheria. Ha preso i capi da lavare e li ha consegnati alla vecchia Babo per farmeli trovare asciutti e pronti da indossare l’indomani mattina. Poi Babo, Ghivezo e alcune parenti mi hanno rammendato le calze. Stavamo tutti sulla grande loggia coperta, nella notte serena e struggente. Non c’era la luna ma miriadi di stelline ammiccavano tra una trave e l’altra occhieggiando fra le trecce di peperoni appesi a disseccare al soffitto. Il canto dei grilli riecheggiava dal pianterreno e poi nella stalla dove ruminano i bufali e infine in tutta la pianura buia e sterminata. Cantavano la loro nenia straziante, che non ha inizio né fine.

Io ero seduto in disparte, nel buio, su un rudimentale sgabello ottenuto da una fetta rotonda del fusto di un castagno appoggiata su tre piedi lavorati con il temperino. Di fronte a me, intorno alla lampada, sedevano le donne, intente a rammendare la mia biancheria. Gli uomini dopo aver smesso di fumare avevano soffiato dentro i grossi bocchini per eliminarne i mozziconi e si erano addormentati sul tappeto, sfiniti di stanchezza. Già da qualche minuto se ne udiva il respiro pesante.

La luce della lampada rischiarava in modo singolare, dal basso, i volti delle donne, che ogni tanto si scambiavano qualche monosillabo. Le loro mani lavoravano con alacrità, le dita si muovevano rapide e scrupolose.

Avtcha, che non concedeva mai ai suoi sentimenti di manifestarsi oltre i limiti di un rigido senso del decoro, ha dato inizio a una specie di monologo che non era diretto né alle figlie né alle altre donne. Si trattava più che altro di un dialogo con Dio, con se stessa e con i suoi figli maschi, mandati alla guerra a uccidere nemici che non odiavano. Forse erano già stati uccisi e le loro ossa giacevano illacrimate in un burrone.

«Ahimé! La stessa cosa accadde l’estate di due anni fa con la biancheria di Iovan e di Petko. Erano venuti dalla campagna vicino al torrente e avevano staccato le bestie dal carro. Me li portarono via prima che riuscissero a mettere in bocca un pezzo di pane. Adesso ad andarsene è lo straniero che è stato Dio a mandarci. Povero soldatino… zavali asker. Penso alla tua povera madre, seduta davanti alla porta di casa sua con le braccia strette intorno alle ginocchia e la speranza un giorno di vederti tornare. La notte si sveglia di soprassalto e tende l’orecchio perché le sembra di sentire qualcuno bussare. Ma purtroppo non sono i tuoi figli, no, non sono i tuoi figli! Asker, prendi la carta e un lapis e scrivile qualcosa. Dille che noi madri ce ne stiamo tutte rannicchiate in un angolo, rassegnate, ad aspettare il ritorno dei loro figli partiti per la guerra. Sì, prendi la carta e un lapis, e diglielo, dille che sono stata io, la madre di Iovan e di Petko, a prendermi cura della tua biancheria e che sono stata io a prepararti i bagagli. E dille che preghi il buon Dio di farmi rivedere i miei figli come io Lo prego che le faccia rivedere i suoi… Perché il cuore di Avtcha è gonfio di amarezza e non ce la fa più, non ce la fa più…».

Così diceva Avtcha mentre mi rammendava la biancheria. Sotto la loggia coperta, la sua voce riecheggiava sommessa, monotona e cantilenante. Le fiamme danzanti della lampada gettavano sulle pareti lunghe ombre tremolanti. Dalla pianura proveniva il canto infinito dei grilli e gli occhietti d’argento delle stelle ammiccavano tra i peperoni. La voce di Avtcha si udiva sommessa e cantilenante, come quando si legge distrattamente un libro di preghiere o un breviario.

«Perché tanta sofferenza? Mentre te ne stai tranquillo e in grazia di Dio, un bel giorno senti la rovina bussare alla tua porta. Dio misericordioso, è per i nostri peccati che ci punisci o per i peccati dei nostri genitori? Cosa ne possiamo sapere noi vermiciattoli? Quand’è che i miei figli torneranno a casa, sani e robusti come quando sono partiti? Quand’è che tornerò finalmente a sorridere? E adesso te ne vai anche tu. Dio mio, non lasciare che gli facciano del male e quando finalmente la Tua ira sarà esaurita concedi a lui e a suo fratello di tornare a casa e alla loro madre di riaccoglierli al nido come le rondini. E anche a me concedi di riabbracciare i miei Iovan e Petko… e spero che abbiano trovato anche loro una madre che li ha abbracciati e li ha accolti, come io ho abbracciato e accolto te…».

Mentre Avtcha parlava, e le due cognate, senza smettere di lavorare, l’ascoltavano scuotendo ogni tanto la testa e sospirando, io osservavo Ghivezo. Era seduta di fronte a me e ogni tanto sollevava la testa dal lavoro di rammendo. Gli occhi sembravano enormi per il riverbero della lampada. A un certo punto si è messa a scrutare qualcosa nel buio, dalla parte dove mi trovavo io. Si sforzava di guardare ma gli occhi erano abbagliati dalla luce. Il giovane petto era agitato da una tempesta che cercava in ogni modo di impadronirsi di lei. Gli occhi erano colmi di lacrime e le palpebre sbattevano rapide come le ali di una farfalla in agonia. La loro ombra giungeva fino alle sopracciglia ben delineate, quando lei era particolarmente turbata, bisticciavano come due bisce inferocite. La grande bocca è divenuta ancor più scarlatta, e mentre la madre parlava, l’angolo delle labbra le tremava tutto. A un tratto ha lasciato cadere per terra la camicia che rammendava ed è corsa in camera sua nascondendosi il viso tra le mani e cercando di soffocare i singhiozzi che le uscivano dal petto rischiando di soffocarla.

Avtcha ha smesso per un istante di cucire, ha rivolto uno sguardo sereno alla porta che la ragazza si era chiusa alle spalle e ha scosso appena la testa abbandonandosi a un sospiro. Poi si è rimessa al lavoro.

Io mi sentivo un groppo in gola. Cercando di non far tremare la voce ho detto:

«Maiko, non dovete farvi del male con le vostre stesse mani».

Lei ha risposto:

«Zavali tsupa…».

Dalla sua camera sentivo la ragazza singhiozzare e tirare su con il naso. Ho aspettato un po’ ma è uscita soltanto quando sono andato a dormire. Le ho pregate di svegliarmi all’alba.

 

L’indomani mattina, al termine di una notte popolata da incubi, sono stato svegliato da una pioggia di nocciole verdi che mi cadeva sul viso. Mi sono voltato e ho visto Ghivezo che faceva capolino dalla porta mentre una nuova manciata di nocciole mi cadeva sul volto. Il mio spavento la faceva ridere e attraverso le labbra scarlatte appena dischiuse si scorgevano i denti bianchi come chicchi di grandine. Ha richiuso subito la porta svanendo come l’ombra di un sogno.

Mi sono vestito in fretta e sono uscito. L’ho trovata in cortile. Come al solito teneva l’asciugamano sulla spalla e mi aspettava con la brocca di rame piena d’acqua calda per farmi lavare. L’allegria di poco prima era scomparsa. Ghivezo aveva il volto serio e lo sguardo abbassato.

«Dobrutro, gospodi».

«Buongiorno anche a te, Ghivezo…».

Mi ha versato l’acqua calda poi mi ha chiesto in tono accorato:

«Gospodi, devi proprio andar via…».

«Sì, Ghivezo».

Sono seguiti lunghi attimi di silenzio al termine dei quali ha detto di nuovo:

«E se dovessi morire?».

«Tutti i soldati corrono il rischio di morire, Ghivezo».

«Tu, gospodi, non morirai».

«Grazie, Ghivezo. Lo spero tanto anch’io».

Altra pausa di silenzio.

«Non ti dimenticherai mai di noi, vero?».

«No, non mi dimenticherò mai di voi».

«Mai mai?».

«Mai mai».

È seguita un’altra pausa al termine della quale è arrivata una domanda esitante e spaventata.

«Anche di Ghivezo non ti dimenticherai mai?».

«Non me ne dimenticherò mai e finché avrò vita, continuerò a benedirla come un fratello benedice una sorella».

Pausa. Poi di nuovo:

«Gospodi, ti prego, non andartene!».

Le ho rivolto uno sguardo carico di sorpresa. La sua voce era strana, rotta da uno strazio indicibile. Era la voce commossa di una donna ferita.

«Non andartene!».

Si è messa a piangere in silenzio. Non piangeva né sospirava, le lacrime le scorrevano lungo le guance fino agli angoli della bocca, che tremava come una foglia. Avrei voluto dirle che avevo capito e che per lei potevo nutrire soltanto un amore fraterno e sentimenti sconfinati di riconoscenza. Che il tipo di amore che lei mi chiedeva, io l’avevo già dato altrove, molto lontano dal loro villaggio, oltre il mare e la pianura, oltre le montagne. A un’altra ragazza, dolce e bella come lei, che amavo in modo diverso da lei. Che se avessi smesso di vederla come la vedevo, che se le avessi parlato in modo diverso da come le parlavo, avrei commesso un sacrilegio.

Avrei voluto dirle che se avessi accettato da lei una porzione più grande di quella che mi spettava, mi sarei comportato come un ladro perché avrei sottratto all’Altra una parte dello scarno tesoro che le apparteneva. Perché anche l’Altra si struggeva in attesa del mio ritorno e mi amava di quell’amore che è diverso dall’amore che nutre la sorella per il fratello, e che è inesorabile come una malattia e potente come la morte.

Ma Ghivezo aveva appoggiato a terra la brocca di rame ed era scappata.

Non l’ho pià rivista neppure quando ho preso congedo da tutta quella brava gente e me sono andato per sempre dalla loro casa ospitale, che per tutto quel tempo era stato per me un porto felice, un luogo in cui aveva trovato riposo la barca travagliata della mia vita. Siccome nessuno mi ha parlato di lei, anch’io ho fatto finta di non notare la sua assenza. Ho stretto tra le braccia le due figlie più piccole di Avtcha coprendo loro il viso di baci misti a lacrime.

Avtcha è rimasta davanti alla porta, altissima, immobile e severa, finché ho svoltato l’angolo della stradina sottraendomi alla vista dei suoi occhi materni. Mi ero appena lasciato dietro le ultime case del villaggio quando ho sentito delle grida e un tramestio di passi. Mi sono avvicinato e ho visto Jorgalàs che prendeva a botte Giacobbe, ubriaco fradicio.

«Mascalzone, si può sapere perché lo avete crocifisso?».

 

Adesso, pigiato fra due mucchi di giberne, a bordo di un vagone su cui ci hanno stipato come bestie da portare al macello, sento il vento autunnale sferzare la parete esterna e il tettuccio, e lo stridio metallico delle ruote che scivolano sopra i binari di ferro, nella notte. Dove stiamo andando? Il treno non lo sa e neppure noi lo sappiamo. Sono altri a decidere per noi. Soltanto una cosa percepiamo con nettezza: l’ombra della morte che ci si staglia addosso, sopra il treno, seguendolo nella notte.

Dall’angolino più puro della mia anima si erge attraverso la pioggia e dentro la notte una preghiera che arde come il fuoco. Prego per la felicità di coloro che mi hanno ospitato al villaggio, e che mi hanno elargito a piene mani pace e amore. A Dio, se c’è, chiedo soltanto di ascoltare questa preghiera e in cambio io gli perdonerei tutte le sofferenze cui egli consente di affliggere gli esseri umani, gli esseri umani che giammai Gli hanno chiesto di venire al mondo.

I miei compagni intorno a me fumano, sputano, scorreggiano, imprecano e russano cercando di sistemarsi il più comodamente possibile l’uno tra le gambe dell’altro. Il treno sferraglia e fischia inferocito nella notte. La pioggia battente continua a sferzare il vagone con la forza di mille fruste. E io continuo a pregare come un vile, senza credere né sperare in nulla.

«Dio mio, ti prego, fa’ che Iovan e Petko non rimangano uccisi!».

 

Nel fango

Rieccoci nella macina del mulino. Per qualche giorno eravamo riusciti a sottrarci alla macina, come chicchi di grano acquattati in un angolo. Poi è arrivata la scopa del mugnaio che ci ha presi e ci ha ributtati nella macina. Siamo di nuovo in trincea, in prima linea in un settore ancora più duro e difficile del precedente. I cannoni colpiscono le nostre opere di fortificazione in modo ancora più ostinato. Stavolta però di fronte non abbiamo dolci montagne piene di rigogliosa vegetazione. Non c’è neppure il fiume Dragor, che scorreva nella notte con il suo ancestrale e incomprensibile canto di libertà che riempiva la nostra anima di struggente malinconia.

Qui tutto è basso e umido. Le colline si ergono a mo’ di grosse testuggini cinerine che cercano di sottrarsi al terrore scavando nel fango. Il cielo è basso e ti opprime il petto come la volta annerita dal fumo di un enorme ricovero. È una settimana che non spunta il sole ma neppure si ha la certezza che pioverà. Le nuvole, gonfie di pioggia e immobili come mostri in procinto di partorire, sono scese sulla terra gravandoci addosso con il loro peso. Ci muoviamo e viviamo in un turbine di vapori pluviali che offuscano l’atmosfera rendendola simile ai vetri di una finestra. Una umidità appiccicaticcia ci aderisce sulla pelle insinuandosi tra i vestiti, infilandosi nel colletto e nelle maniche della giubba, e raggiungendo il corpo perennemente prigioniero di brividi spiacevoli. L’umidità penetra attraverso le vie respiratorie con un gelo che si fa strada fin dentro le viscere e le ossa. L’anima si rattrappisce e ammuffisce, tormentata da una miriade di lugubri pensieri. Non si riesce a restare asciutti nemmeno per un’ora, cosa che mina il morale e fa saltare i nervi. Non c’è un angolo che non sia bagnato. Una polvere acquosa si libra nell’aria deponendosi a mo’ di sudore sull’elmetto e sui peli, facendo arrugginire le armi e infeltrendo le fibre lanose della divisa. Dentro il ricovero persino le coperte sono inzuppate di umidità.

Anche a Lesbo ci sono le piogge autunnali. Quante volte ce le siamo godute al sicuro nel tuo umile salottino ordinato, dietro le finestre chiuse! (In questo presente di sventura il ricordo della felicità passata è un’arma a doppio taglio, che si traduce in apatia e afflizione dell’anima.) Appoggiavi la guancia sul vetro fresco e io ammiravo il tuo profilo vigoroso, puro e delicato, ma nel contempo solido e netto come un medaglione antico. All’esterno la viuzza lastricata di sdrucciolevole marmo grigio si trasformava subito in un torrente impetuoso che trascinava con sé scarpe vecchie e scatole di alluminio. In fondo si vedevano correre gli sprovveduti che erano usciti senza prendere l’ombrello o che soltanto adesso scoprivano che gli ombrelli erano rotti e le scarpe non erano impermeabili. Bastavano le prime gocce autunnali a convincere tutti che le case avevano bisogno di essere riparate. Le tegole del soffitto della camera da letto erano rotte, i vetri incrinati, la canna fumaria sporca di fuliggine.

A Lesbo tutto è di una bellezza stupefacente. Persino la pioggia non è, come altrove, un ininterrotto piagnisteo ma un’allegra risata di Dio, che ci consente di goderci qualche ora di serenità a casa nostra. Dentro il vaso di ottone non mancava mai un mazzolino fresco di fiori e le stanze profumavano di frutta autunnale, appesa a maturare lentamente al soffitto.

Adesso invece sono sopraffatto dal dolore. Sono giorni che il sole non si vede spuntare sopra la buca umida della trincea, che non illumina il mondo con la sua luce sfolgorante per dissolvere il nerume appiccicaticcio che inspiriamo al posto dell’aria. Un brivido gelido mi percorre l’anima, lubrico come una lumaca bavosa. Nelle ore pericolose della mia malinconia vorrei tanto averti qui, accanto a me. Se potessi piangere sulle tue ginocchia, liberamente e in silenzio, sono sicuro che mi sentirei meglio. Perché in questo momento è soltanto all’Amore che credo. È l’amore a chiamarmi perentorio accanto a te, a Lesbo, l’isola virente del Canto, del Sole e dell’Eros. L’isola che sia d’estate sia d’inverno somiglia a un giardino rigoglioso di fiori che galleggia sull’azzurro dell’Egeo. Non a caso ad abitarvi sono soltanto gli appassionati della vita, i poeti, le coppie innamorate e le divinità sorridenti dei boschi e del mare!

 

I due eroi

Ho riflettuto a lungo sull’opportunità di parlarti in merito a qualcosa che mi sta succedendo dalla scorsa notte. Mi sento tutto sporco, lurido dalla testa ai piedi. Da qualche giorno ho la sensazione di essere coperto di vergogna e di disgusto, di esserne impregnato come di fango rappreso che mi insozza i vestiti. Poi ho pensato che questi quaderni te li mostrerò soltanto a guerra conclusa cosicché ho tutto il tempo di apportare le dovute correzioni ai miei scritti. Ma non escludo neppure, un giorno, di distruggerli o di seppellirli in un ricovero abbandonato alla mercè delle bestie selvatiche. Il punto è che da qualche tempo mi sembra che questi brogliacci occupino un po’ troppo spazio dentro il mio zaino. Potrei anche chiuderli dentro il bossolo di un proiettile dopo avervi scritto sopra: “La storia vera di un soldato” affinché, quando questa follia della guerra sarà finita, si possa udire anche una voce fuori dal coro, una voce che non cercherà di mistificare gli eventi, a differenza di quanto accade con gli scritti di altri memorialisti. Una voce che non avrà più paura delle censure e degli insulti perché sarà la voce di un morto. Si sa infatti che sono molti a sentirsi urtati dalla verità della guerra, in primo luogo i mercanti della morte e gli arruffapopoli, oltre che gli eroi di professione, come li chiama Dimitratos. Perché l’eroismo della guerra quando viene trasformato in una professione, si paga a peso d’oro. Per non parlare delle medaglie al valore, che nessuna persona sana di mente potrebbe prendere sul serio. Perché non si tratta di semplici decorazioni ma di vere e proprie tabelle su cui sembra che ci siano scritte cose del tipo “Sono un leone”, “Sono imbattibile”, “Ho coraggio da vendere”, “Sono l’eroe degli eroi”. Bisogna essere qui e vivere la nostra vita fatta di coraggio di cartapesta e di volgarità per cogliere l’effetto prodotto da queste sciocchezze su uomini per il resto adulti e con la testa sulle spalle. Pur di ottenere medaglie e decorazioni sono pronti a tutto: ad adulare i superiori, a falsificare documenti, a mentire, a farsi calpestare come zerbini, persino a concedere favori sessuali. Qualsiasi cosa pur di ottenere l’agognato riconoscimento.

Un ottimo esempio è il soldato scelto Dimitratos. Gheorghios Dimitratos di Antipas, distaccato presso la nostra compagnia dalla divisione di Serres. Passiamo molte ore insieme e non smette mai di sorprendermi. Dimitratos è stato decorato con la Croce di guerra e tutti lo guardano con gli occhi sgranati. Eppure è un farabutto di prima categoria, anzi non esiterei a definirlo un uomo malvagio. Di lui salvo soltanto il sarcasmo, l’atteggiamento strafottente che non guarda in faccia a nessuno. A volte anzi mi capita di invidiarlo per questo, perché il sarcasmo è uno scudo formidabile che consente di rintuzzare qualsiasi aggressione della vita. Quella di Dimitratos è stata un’esistenza molto grama. È stato lui stesso a dirmelo anche se ha evitato di scendere in dettagli. Immagino che abbia dovuto subire molte umiliazioni, cosa che deve averlo riempito di un odio e di un cinismo assoluti. Un cinismo che tuttavia, devo ammetterlo, non mi dispiacerebbe possedere.

Una volta scrisse la seguente lettera alla moglie (è sposato e ha tre figli):

“Mia moglie diletta, a norma di legge i riservisti padri di quattro figli non vengono mandati in trincea. La trincea, devi sapere, è una storia schifosa, la più schifosa di tutte. Per questo devi sbrigarti a farmi un altro figlio. Quaggiù non ce la faccio a mettere da parte neanche un centesimo da inviarti e di mandarti di nuovo a servizio con tre figli a carico non se ne parla nemmeno. Sei ancora giovane e prima o poi finirai col dover chiedere l’elemosina. Cosa che non mi mette certo al riparo dai colpi di cannone. Così, ho pensato, meglio un cornuto volontario che un defunto involontario. Te lo ripeto nel caso non avessi capito: sbrigati a farmi il quarto figlio. La legge sui riservisti parla chiaro. Chiedi da parte mia ad Apostolis, il macellaio, di farmi questo favore. E se Apostolis ha qualche problema, ma non credo, digli che una volta gli ho fatto anch’io lo stesso favore sebbene senza il suo permesso. È una cosa che non ho mai detto a nessuno”.

Che senso aveva questa lettera? Voleva umiliare la moglie e il suo amico? Voleva farsi odiare? O era soltanto uno squallido tentativo di ottenere la licenza? Nessuno lo saprà mai.

La censura inviò la lettera al reggimento. Dimitratos si presentò a fare rapporto con la sua bella Croce al valore appuntata sul petto. Il colonnello lo ricevette con un diavolo per capello e la lettera in mano. Ma quando vide la Croce sul petto di Dimitratos divenne mansueto come un agnellino! Neppure a lui era stato mai ritenuto degno di tanto onore. Alla fine Dimitratos è tornato indietro con tante scuse e una segnalazione lusinghiera nell’ordine del giorno per la “Croce di guerra che adorna il petto dell’eroico caporale”.

Dimitratos si sbellicava dalle risate. Ha spezzato con assoluta naturalezza le mie sigarette per infilarle nella tabacchiera di alluminio mettendosi a ironizzare senza pietà sul magnanimo colonnello. Alla fine ha tirato fuori dalla tasca una scatoletta, l’ha aperta e ne ha tirato fuori la sua Croce al valore, con tanto di nastro e di spilla per appuntarla al petto. Se l’è rigirata in mano per un po’ e alla fine ha detto:

«Se mi dai la tua parola, la parola d’onore (lo so che tu a queste sciocchezze ci credi ancora) che non lo dirai a nessuno, sono pronto a raccontarti la storia della mia Croce di guerra. Sono stanco di ridere da solo, è tempo che anche qualcun altro rida insieme a me. Allora, che ne dici? Ti avverto che è una storia molto divertente. Ma mi raccomando, non devi dirlo a nessuno. Di quest’affare ho ancora bisogno».

«Ti do la mia parola», ho risposto.

«Ancora una cosa. Per una settimana ti chiedo di regalarmi il cognac e il pane che ti avanzano».

«D’accordo. Ma sappi che la versione ufficiale della tua decorazione l’ho letta nella documentazione rilasciata dal tuo reggimento quando ti hanno distaccato nella nostra compagnia».

«Il bello è proprio questo. La storia che sto per raccontarti è il rovescio della medaglia. Il recto lo conosci e tra poco conoscerai anche il verso».

Si è messo a raccontare la sua storia. Un giorno l’esercito bulgaro compì una sortita contro quello greco ma grazie all’aiuto di alcuni disertori del nemico, la divisione di Serres non si fece cogliere di sorpresa. Oltre a respingere l’attacco, i nostri contrattaccarono invadendo le linee nemiche. Tra le vittime c’era un ufficiale tedesco molto ben vestito. Dimitratos gli si fermò accanto, lo frugò da capo a piedi e gli svuotò le tasche, ma un istante prima di allontanarsi, tra le labbra del morto scorse qualcosa che luccicava.

Dimitratos gli aprì la bocca e vide una serie di denti d’oro. Provò a staccarli ma siccome erano fissati molto bene, appoggiò la punta della baionetta sulle gengive e si mise a martellare con l’aiuto della borraccia. Proprio in quel momento sopraggiunse un tenente di collegamento, che gli domandò che cosa stesse facendo. Dimitratos, colto sul fatto, riuscì a mollare la baionetta, cosicché tra le mani gli rimasero soltanto la borraccia e la testa del tedesco. Il tenente prese nota del nome di Dimitratos, fece rapporto al reggimento e Dimitratos, che si aspettava un deferimento alla corte marziale per “spoliazione di cadavere”, si vide promosso a caporale e decorato con la Croce al valore “in virtù dello spirito cavalleresco schiettamente ellenico di cui ha dato prova nel tentativo di soccorrere un ufficiale nemico rimasto ferito sul nudo campo di battaglia durante la ritirata, e dell’umiltà straordinaria esibita nel tentativo di tenere nascosto il suo nobile atto di eroismo all’ufficiale di collegamento che lo interrogava”.

Ecco dunque il rovescio della medaglia, anzi della Croce al valore ricevuta da Gheorghios Dimitratos di Antipas, mio illustre amico e compagno.

Mi accorgo di aver dedicato assai più tempo del dovuto a Dimitratos e di non averti ancora parlato di quello che mi è successo oggi e a cui ti accennavo all’inizio. Credo che la mia matita lo faccia apposta a divagare sulle storie di persone estranee per non dover affrontare l’argomento di cui voglio parlarti. Ma se voglio alleggerire il cuore dal peso che l’opprime, devo smetterla di perdere altro tempo.

Ebbene, questa mattina sono stato proposto per la seconda promozione e mi hanno confermato che riceverò la Croce di guerra! Dopo Dimitratos qui alla compagnia sono il secondo a riceverla. La proposta è già stata presentata. Da oggi sono tale e quale Dimitratos. La bella notizia mi è stata annunciata dal capitano in persona e in quel momento deve aver creduto che mi regalasse il mondo intero. Aveva il viso paonazzo di felicità, si mordeva i baffi e sorrideva di compiacimento. La sua gioia era tale che ho deciso di non dirgli la verità e di fargli credere che quella onorificenza, per me, valesse più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Ma meglio raccontare tutto dall’inizio. Un paio di notti fa mi affidarono il comando della ronda notturna, dall’una alle tre del mattino. Era così buio che non si vedeva a un palmo dal naso. Continuavamo a scivolare a causa del terreno bagnato, ruzzolavamo nei fossi o inciampavamo nelle buche stando ben attenti a non fiatare. Ma la cosa peggiore erano le slogature e le ferite causate dai denti dei rastrelli, inevitabili quando ci si muove nell’oscurità, oltre il reticolato di filo spinato, con la morte pronta a ogni istante ad appropriarsi di te nel più orribile e vile dei modi. Così tenere la bocca chiusa è la cosa più importante di tutte, anche quando il dolore diventa insopportabile. Se invece si avanza carponi, più che della testa bisogna preoccuparsi di non far sbattere il fodero della baionetta, che in qualsiasi momento potrebbe tradire la tua presenza presso i soldati bulgari, in agguato anche loro nella fitta tenebra, e iscriverti nella lista degli eroi caduti per la Patria. Il cielo somigliava a un coperchio e quasi lo sentivamo sfiorare gli elmetti. Mi sforzavo di tenere concentrati i miei uomini, smarriti dentro quel buio pesto. Per non perderci avevo stabilito come segnale di riconoscimento tre colpetti di nocca sulla giberna. Ogni tanto mi fermavo, colpivo tre volte la giberna e attendevo che il segnale fosse ripetuto da ciascuno dei miei uomini. Si andava avanti con molta fatica a causa degli scarponi che scivolavano sul terreno bagnato. Il fango misto alle foglie secche ci restava attaccato alle suole e diventava così pesante che per muoverci eravamo costretti ad aiutarci con il calcio del fucile. Quando in cielo scorgevamo la scia di un razzo di segnalamento, ci fermavamo e ci buttavamo per terra con la faccia nel fango. Nelle tenebre umide il bagliore dei razzi lasciava un alone perlaceo che si ramificava come lunghe dite baluginanti nella foschia. Nell’aria sembrava volteggiare un fanale affumicato, silenzioso, lento e malinconico, dentro un sotterraneo con il soffitto basso, oppresso da un’umidità accumulata da anni.

Così si presenta lo spazio tra le due linee avversarie, quando l’umida notte ci avvolge liquida come il nero di seppia e si va in giro con la ronda tra l’una e le tre del mattino. Si striscia con il cuore in gola dentro quel sotterraneo nella consapevolezza che è popolato da viscidi scorpioni pronti a colpire con il pungiglione e da grossi ragni appesi a tele invisibili, simili a goccioloni di veleno verde. A poco a poco un terrore sordo ti penetra nel cuore come un ago gelido giungendo fino alle ossa intirizzite. In quel sotterraneo di morte ci si muove come in un incubo, con gli occhi bendati dal fazzoletto nero della notte. Si diventa un tragico giocatore di mosca cieca, con la vana speranza di trovare un appiglio. Si allunga una gamba lentamente e con cautela perché davanti potrebbe spalancarsi un baratro. Si procede a tentoni, con la paura di perdere l’orientamento, cosa che equivarrebbe a morte certa. Si spalancano gli occhi e le orecchie, e ci si trasforma in puro udito per cogliere il minimo rumore, il minimo fruscìo, il minimo tramestìo. Se qualcuno potesse vedere i tuoi occhi, si accorgerebbe che sono spalancati e smarriti, pieni di tenebra e di angoscia, puntati sul nulla. A un tratto si ode un cinghiale grufolare davanti al filo spinato tintinnante e il tuo cuore smette di battere. I sensi captano rumori immaginari mentre la luce del razzo di segnalamento ti gela il sangue nelle vene. Allora la tua mano corre alla baionetta pronta a trafiggere un petto o ad affondare nelle viscere di qualcuno, e l’altra mano sfiora il sacco cone le bombe a mano che ti schiaccia lo stomaco. Il fango ti ricopre dalla testa ai piedi. Il fango ti si incolla al viso come una maschera. Puoi sentirne il sapore con la lingua mentre stai per massacrare uno sconosciuto o per essere massacrato da lui, nel giro di pochi secondi, senza conoscervi, in uno spazio di tempo troppo breve per consentirvi di odiarvi.

A un tratto un ramo si spezza, un piede inciampa, un commilitone cade a terra, un bottone si stacca e resta appeso. Dopodiché il silenzio diventa ancora più angosciante. Il nero caos ti avviluppa come un mare silenzioso e senza onde. Una minaccia incombe. Allora il tuo cuore comincia a scalpitare sotto la giubba, il dito si infila nell’anellino della bomba a mano, la mano stringe il fucile. Aspetti. Dici: «Se il mio destino è la morte, speriamo almeno di morire in fretta». E invece l’agonia dura ore intere, con una lentezza che non hai mai conosciuto in tutta la tua vita.

Ma prima o poi arriva anche il momento del ritorno in trincea per fare rapporto. A una ventina di metri dalle nostre linee, nel silenzio assoluto, si udì il verso acuto e lamentoso di una civetta. I miei uomini si fermarono senza che gliel’ordinassi.

Poco dopo si udì ancora lo stesso verso.

«Cu-cù!».

Diedi tre colpi sulla giberna per segnalare la mia presenza. Nel buio ricevetti la risposta dei miei compagni. Erano tutti poco lontano da me. Ordinai a uno di loro di recarsi all’ingresso del reticolato e di passare le consegne al capo della ronda successiva. Gli ordinai anche di dire alla sentinella di lanciare un razzo di segnalamento nel caso sentisse un colpo di fucile. Feci stendere gli uomini lungo la linea della trincea, uno accanto all’altro affinché nessun soldato nemico potesse penetrare attraverso la linea. Infine mi stesi anch’io.

Sia io sia i miei soldati eravamo sicuri che quel verso fosse un segnale dei bulgari. Già altre volte avevano comunicato tra loro imitando il verso degli uccelli notturni. La mia mente cominciò a lavorare in modo febbrile, allucinato. Avevo la sensazione che una voce misteriosa mi sussurrasse nell’orecchio quello che dovevo fare e io ero pronto a obbedire ciecamente ai suoi ordini. La prima civetta, mi diceva la voce misteriosa, era un soldato bulgaro che si era accorto di noi. Ci aveva seguiti e quando ha capito che stavamo tornando verso la nostra trincea per il passaggio di consegne, ha avvertito i suoi compagni. Questi ultimi hanno risposto imitando a loro volta il verso della civetta per annunciare che stavano arrivando. Sicché la voce misteriosa che mi sussurrava nell’orecchio – e che apparteneva al capo della ronda, al caporale o a chi per lui – è giunta alla seguente conclusione:

“Il buio è tale che se i tuoi uomini cercheranno di attaccarli, corrono il rischio di massacrarsi a vicenda. E siamo così vicini che neppure ordinare all’artiglieria di colpire sarebbe una buona idea. La cosa migliore è lasciarli avvicinare, cercare di capire quanti sono e agire di conseguenza. Se sono pochi, potreste catturarli o ucciderli uno per uno con la baionetta. Se saranno loro ad attaccarvi per primi, dite alla sentinella di lanciare un razzo di segnalamento per poterli vedere durante il contrattacco”.

Queste cose mi diceva nell’orecchio la voce misteriosa. Non riuscivo a pensare a nient’altro mentre stavo sdraiato nel fango con la baionetta in mano.

Poco dopo cominciò a cadere una pioggia talmente sottile che non si sentiva il rumore delle gocce ma soltanto il pizzico di mille spilli gelidi che mi pungevano la pelle e mi facevano bruciare le guance e le braccia. Nel frattempo la mia mente si era rimessa a funzionare con razionalità e chiarezza. Soppesava ogni minima probabilità e valutava con attenzione ogni circostanza. In questo momento in cui sto scrivendo, a lasciarmi perplesso è soprattutto questo: com’è possibile che dentro di me sia svanito “l’uomo” e sia rimasto soltanto il soldato, il combattente con il ferro nudo in mano?

Trascorse molto tempo. Sentivo il battito del mio cuore mentre la pioggia continuava a cadere silenziosa. A un certo punto, a circa sei metri da me, ho sentito un tramestìo. Sembrava che qualcuno trascinasse sul terreno fangoso un fagotto di panni. Ogni tanto si fermava e poi ricominciava. Evidentemente si muoveva con circospezione e cautela. Battei tre volte la giberna per rendere nota la mia presenza. La persona o la cosa si fermò senza rispondere: dunque era un nemico. Rimase a lungo immobile tanto che a un certo punto mi domandai se per caso mi fossi ingannato. E invece no! Poco dopo lo sentii di nuovo, ancora più lento e circospetto. Così lento che nessun altro avrebbe potuto sentirlo a parte me. Perché la pelle mi si era trasformata in un organo acustico mentre il cuore continuava a battere forte. Talmente forte che temevo che lo sentisse anche quello.

Tutto il mio corpo era diventato un sensibilissimo orecchio, spuntato dal fango come un fungo gigantesco. Un orecchio a cui non sfuggiva ogni minimo fruscìo, un cuore che batteva come un pugno e una mano stretta intorno alla baionetta sguainata.

Intanto quello stava passando proprio accanto a me. A un certo punto un lembo di stoffa sfiorò il mio elmetto e la mia mano affondata nel terreno trovò la punta di uno scarpone. Quello si allontanò con un balzo. Un brivido di orrore mi percorse dalla testa ai piedi come una scarica elettrica. Un istante dopo che quello era sobbalzato affondai la punta della baionetta nella sagoma nera davanti a me. L’affondai e riaffondai quattro volte fino a sentire un soffio, come quando acqua mista a fango esce da un tubo gorgogliando in bollicine. Affondare la punta della baionetta in un corpo umano è facile come forare un sacco di patate. Soltanto la terza volta la baionetta incontrò un minimo di resistenza cosicché dovetti esercitare una pressione maggiore. Ormai quello aveva smesso di muoversi. Una morsa gelida mi stritolò il cuore e serrai i denti per trattenere un grido che stava per prorompermi dal petto. Poi sentii balenare un colpo secco di fucile seguito dal sibilo delle pallottole. Seguì l’esplosione di una granata e una scheggia mi frusciò proprio accanto all’orecchio. Nel medesimo istante vidi brillare in cielo il razzo di segnalamento e quattro ombre dirette verso le linee bulgare. Un paio dei miei uomini cominciarono a inseguirle. Io gridai per richiamarli indietro e tornammo alla trincea con il corpo del soldato ucciso e un ostaggio ferito.

Il peso di una montagna intera mi si sollevò dal petto quando venni a sapere che nessuno dei due si chiamava Iovan o Petko, sebbene siano due nomi molto diffusi.

Ecco il motivo per cui sono stato promosso a sergente e ho ottenuto la Croce di guerra. Secondo la motivazione ufficiale “la mia esemplare lucidità e lo sprezzo del pericolo fanno di me un modello di valore militare”. Tutto questo per aver accoltellato un uomo nel buio mentre tremavo per la paura di essere ucciso. Mi vergogno di me stesso e se avessi uno specchio, non riuscirei a guardarmici dentro. Intanto mi era venuto il desiderio irresistibile di esaminare da vicino il soldato che avevo ucciso. Avrei voluto guardarne il cadavere fino a saziarmene ma non trovavo il coraggio. Quel cadavere era opera mia! Non vedo l’ora di restare un po’ da solo dentro il mio ricovero per scoppiare a piangere. Quel cadavere è la prova che sono precipitato in un abisso di abiezione e questa è una cosa che mi terrorizza. Non ho la forza né di piangere in presenza degli altri né di buttar via i galloni e la decorazione ottenuti macchiandomi le mani di sangue. È tutto il giorno che i compagni si complimentano con me e io continuo a ringraziarli con la falsa modestia di un personaggio dei romanzi d’appendice. Talvolta mi chiedono anche di raccontare loro come sono andate le cose. In questo caso però evito di rispondere. Rievocare quegli attimi terribili supera le mie forze. Ma anche la mia reticenza viene scambiata per modestia. In altre parole sono considerato un Dimitratos numero due. Con la differenza che il mio commilitone ha ottenuto la Croce di guerra senza togliere la vita a nessuno.

 

Mia cara, sono più patetico che mai. Se non sapessi che ci siete tu e la mamma ad aspettarmi, mi sarei già lasciato morire. A volte soffro così tanto che la morte mi appare l’unica liberazione. Sono i momenti in cui supplico Dio di non farmi perdere il senno.

 

Sacrificio al sole

 

Ieri pomeriggio sono stato testimone di un miracolo. Dopo tanti giorni di cielo nuvoloso, dalle due alle quattro meno un quarto precise ha fatto capolino il sole. Credevo che non lo avremmo rivisto mai più. Avrei giurato che l’avesse inghiottito l’umida foschia che opprime da mane a sera le colline coperte di fango. Avevo pensato che non ne volesse più sapere di noi. “Egli ci ha nascosto il suo volto e siamo come chi scende nella fossa”. Ma ecco che ancora una volta il buon Dio ha deciso di volgere il suo fulgido sguardo verso di noi spargendo di luce le nostre anime annichilite dalla muffa. Chiusi nel nostro ricovero non credevamo ai nostri occhi e ci siamo subito precipitati verso la stretta imboccatura per dare un’occhiata all’esterno. Con i volti sudici allineati uno accanto all’altro, abbiamo visto soltanto la parete dirimpetto della trincea e un’ampia striscia di cielo. Ma la cosa più bella era che la nostra trincea fangosa era inondata dalla luce dorata e preziosa del sole! Sopra i sacchi di sabbia qualcuno aveva abbandonato una lattina vuota di alluminio. Mi sono voltato a osservare a uno a uno i miei commilitoni. In fondo ai pozzi neri dei loro volti lerci e stravolti brillava un paio di occhi castano scuro, estatici e pieni di luce. Poveri occhi di Lesbo che suggevano il sole senza potersene saziare.

Siamo rimasti tuttiin silenzio a parte mio fratello che a un certo punto ha esclamato mordendosi la punta dei baffi:

«Che meraviglia!».

Poi tutto è ripiombato nel più assoluto silenzio. In momenti come questo la guerra sembra una menzogna o al massimo un incubo destinato a dissolversi. Che cosa darei per uscire da questa fossa puzzolente di umidità e di sudore irrancidito, da questa tana di pulci, da questo feretro verminoso che mi sta divorando la giovinezza. Che cosa darei per uscire alla luce del sole, scendere giù in paese, lavarmi i capelli, farmi la barba, cambiare la biancheria, riappropriarmi della gioia di vivere e di amare. Ma proprio in quel momento, vicinissimo a noi, udimmo un’esplosione che ci costrinse a rintanarci di nuovo nelle tenebre della nostra solitudine.

Mio fratello disse che si trattava di un colpo di mortaio. Ne aveva riconosciuto il sibilo caratteristico. Gli altri non erano d’accordo e ognuno si mise a dire la sua sull’argomento. A un tratto si udì anche un tonfo nel fango e il rumore di un fodero di baionetta strisciato contro le pareti della trincea. Era Fikos, l’attendente, che giungeva trafelato. Avvicinò gli occhi alla fessura, con il viso quasi completamente nascosto dall’elmetto, e ci annunciò con voce accorata prima di rimettersi a correre:

«Una bomba ha distrutto l’ufficio della compagnia! Ci sono molti morti!».

«Ohh!», esclamammo noi, costernati.

Io mi strinsi la cinghia dell’elmetto sotto il mento e corsi fuori prima che mio fratello riuscisse a impedirmelo. Il cuore mi batteva così forte che il petto mi doleva. Il terrore e l’agonia si erano impadroniti della mia anima. Piegando appena il busto laddove le pareti erano abbastanza alte oppure avanzando carponi nei punti in cui i lavori di scavo erano soltanto all’inizio, mi facevo strada con disinvoltura tra le curve e gli snodi della trincea mentre schizzi di fango mi insudiciavano il viso. La trincea era deserta e silenziosa. Le uniche presenze erano le sentinelle, immobili e taciturne dentro le garitte, intente a scrutare il loro settore. Sembravano mucchi di cenci impregnati di fango, cumuli di immondizia che qualcuno aveva gettato sotto il sole infinito. Al fragore dell’esplosione aveva fatto seguito un silenzio ancora più intenso, opprimente. Lo si sarebbe potuto definire addirittura assordante. Quando ho finalmente raggiunto il ricovero adibito a ufficio, sono rimasto senza parole. L’aria puzzava ancora di polvere da sparo, due barellieri e l’infermiere della compagnia erano indaffarati a soccorrere i feriti. Che erano quattro. Il capitano, sdraiato nel suo letto, era stato colpito di striscio a una spalla e aveva gli occhi rossi a causa dell’esplosione. Gli faceva male un ginocchio, colpito da una pietra vagante.

Il sottotenente Apostolu, un giovanotto grande e grosso originario di Atene, era rimasto ucciso. Una scheggia di ferro poco più grande di un cece lo aveva centrato dritto al cuore. Era steso davanti all’entrata, senza neanche una goccia di sangue. Non sembrava neanche ferito. Gli altri due erano il sergente furiere Perdikis, scivolato sotto il letto del capitano, e l’aiutante di quest’ultimo, il caporale Ioannu. Al momento dell’esplosione Perdikis era seduto alla scrivania e aveva perso tre dita, che giacevano ancora sul pavimento. Sembravano tre bruchi gialli senza testa. Perdikis era ferito in molti punti e gemeva per il dolore. Guardava attonito la fasciatura scarlatta intorno al braccio sanguinante e forti brividi gli scuotevano il corpo.

Quello conciato peggio era era Ioannu. Un colpo di accetta invisibile gli aveva staccato la gamba destra all’altezza del gluteo. L’avambraccio sinistro penzolava dal gomito, trattenuto da sottili brandelli di carne. Era sdraiato sul pavimento, stordito di dolore, e l’infermiere cercava di fermargli l’emorragia.

«Dov’è il medico del battaglione?», ho domandato mentre correvo al telefono.

Il capitano mi ha bloccato con una smorfia dolente.

«Non funziona».

«E allora corriamo».

«Non ce n’è bisogno, ho inviato un messaggero», ha risposto affranto.

Ioannu non smetteva di rantolare. Nonostante i tentativi dell’infermiere, il sangue continuava a gocciolare impregnando il terreno. Si lamentava come una partoriente. Mi sono avvicinato e gli ho accarezzato la fronte madida di sudore con una pezzuola umida. Lui mi ha rivolto uno sguardo carico di una sofferenza inesprimibile. I suoi occhi azzurri di ragazzino piangevano da sopra gli occhiali.

«Aiutatemi… Il medico…».

«Fatti coraggio, non è niente… Non fare così!».

Non sapevo che cosa dire. In quegli istanti mi venivano in mente soltanto le solite sciocchezze di circostanza. Vedevo la povera vita di Ioannu fluire via come un rivo rosso dalle membra maciullate.

L’emorragia al braccio si era arrestata. Dalla gamba mozzata invece continuavano a zampillare fiotti di sangue, che si sarebbero esauriti soltanto con la sua vita.

«Il mio braccio, oh, il mio braccio! Mi fa tanto male!», ha detto indicando il braccio con gli occhi…

Ho rivolto uno sguardo interrogativo agli infermieri. E la gamba? Con un cenno mi hanno invitato a tacere. Allora ho capito. Quel poveretto non si era accorto che la gamba gli era stata recisa come un ramo da un albero. Non sapeva di avere un corpo mutilato. Ho rivolto uno sguardo inorridito verso il piccolo corridoio dell’ingresso, dove si trovavano i resti della gamba. La parte superiore giaceva sopra il grande registro dei presenti al rancio, rosso per il sangue che si era riversato dalle vene. Quel pezzo del corpo di Ioannu era già morto, era un cadavere avvolto nelle fasce azzurre, con il piede infilato nello scarpone allacciato con un filo del telefono. Sembrava il corpo di un bambino. Sono andato a coprirla con un telo di iuta, uno di quelli che i soldati usavano per pulirsi le scarpe prima di entrare nel ricovero.

«Il medico… Dov’è il medico…».

Il rantolo vieppiù si affievoliva, la voce andava spegnendosi. La vita scarlatta gli scorreva via dal corpo mutilato. Le labbra erano sempre più pallide e gli occhi sempre più vitrei. Finché la voce si è ridotta a un sottile rantolo sommesso, a un sospiro monotono:

«Mamma… Mammina mia… Mamma…».

A un certo punto si è spenta del tutto. Soltanto le labbra esangui tremavano ancora. Ha puntato gli occhi su una borraccia appesa alla parete. Ha aggrottato la fronte cerea. Si sarebbe detto che in quel punto, accanto alla borraccia, accadessero eventi straordinari, che richiedevano la massima attenzione. Poi la fronte si è distesa, si è rasserenata, e lui ha esalato l’ultimo respiro. Ιl corpo ha assunto un colorito giallastro. L’infermiere gli ha lasciato cadere il braccio dopo avergli sentito il polso.

«Riposa in pace…», ha mormorato.

Un barelliere si è messo in ginocchio poi si è alzato.

È andato a raccogliere la gamba mutilata, con gesti delicati come se se si trattasse davvero di un bambino, e l’ha deposta accanto al corpo di Ioannu. Ormai non c’era più nulla da temere. Nel punto in cui la gamba era stata mutilata, tra i brandelli di carne sanguinolenta e i frustuli di tessuto del pantalone, si scorgeva il midollo che usciva dall’osso spezzato. Somigliava a un grosso verme rossastro.

Il capitano ha domandato ad alta voce.

«È finita?».

«Sì, signor Capitano…».

«Su, non perdete altro tempo, portatelo all’ospedale da campo».

«E lei, signor capitano?».

«Io sto bene, mi farò medicare qui».

I barellieri hanno sollevato il furiere su una barella. Il capitano ha ordinato ai soldati di raccogliere in un fagotto le sue cose. Quando sono usciti, l’infermiere – un farabutto dell’Eptaneso – ha dato un’occhiata alla fasciatura del capitano, poi ha rivolto verso di me il suo naso adunco e mi ha detto nel suo accento musicale:

«Il signor sergente ha dimenticato una cosa».

«Che cosa?».

«Mah, niente… Soltanto le sue dita!».

«Sciocco!», lo ha redarguito il capitano.

Le ho raccolte una per volta aiutandomi con un batuffolo di bambagia e le ho deposte accanto al corpo di Ioannu. Le ciglia dei suoi occhi morti erano umide di lacrime. Lo sguardo continuava a fissare la borraccia appesa alla parete mentre gli occhiali gli erano caduti verso destra. Con un gesto istintivo glieli ho sistemati sul naso e dietro le orecchie. Non so perché l’ho fatto. Non erano certo gli occhiali il problema.

In quel momento un moscondoro giunto chissà da dove ha varcato l’ingresso illuminato dal sole brillando nella luce. Si è fermato sull’elmetto del capitano, appeso a un palo accanto a me, poi è svolazzata in tutto il resto del ricovero esaminandolo da cima a fondo come avrebbe fatto un bravo padre di famiglia in procinto di acquistare una casa nuova.

Infine, soddisfatto del suo giro, ha frullato le ali per un ultimo volo e si è appoggiato sulla fronte di cera di Ioannu, simile a un denso gocciolone. Altro frullar d’ali, poi si è messo a zampettare in fretta, è salito fin sulla radice del naso e, zac!, ha infilato nell’occhio sinistro di Ioannu la sua proboscide appuntita. Quando l’ho visto, l’ho subito mandato via con la mano e ho abbassato le palpebre del morto sopra gli occhi ancora gonfi di lacrime. Gli aiutanti sono arrivati e hanno sistemato i due cadaveri uno accanto all’altro. Il sottotenente lo hanno messo sopra il giaciglio da campo, Ioannu dentro una tenda pulita. Poi hanno steso sopra due coperte. Poco dopo sono giunti il medico, il maggiore e altri ufficiali della nostra compagnia. Tutti parlavano sottovoce e stringevano la mano al capitano.

A un tratto il sole è svanito, come se fosse stato inghiottito. Una pioggia torrenziale ha cominciato a fustigare la trincea con furia incontenibile. Prima che tornassi al ricovero, il capitano mi ha stretto la mano e mi ha invitato a prendere il tè nel suo rifugio perché non ce la faceva a rimanere da solo.

Ho aspettato che il sole tramontasse e sono andato da lui. Il capitano era sdraiato nel letto e c’erano anche altri: Derou, un sottotenente francese del genio, sovrintendente alle opere di ingegneria di tutto il settore del nostro battaglione, altri due sottotenenti della nostra compagnia e due bruttissimi ceffi, probabilmente appartenenti alla categoria dei poco di buono che non avendo niente di meglio da fare, decidono di arruolarsi come sottufficiali permanenti. Qualche giorno prima erano stati decorati anche loro con una stella appuntata sul petto. All’inizio non avevano creduto ai loro occhi: non riuscivano a capire come mai la brutalità, l’indifferenza e l’inettitudine che li caratterizzava da borghesi, e che li teneva in scacco rispetto al resto del mondo, qui nell’esercito erano considerate qualità irrinunciabili per fare carriera. Ma non ci hanno messo molto ad abituarsi ai loro nuovi privilegi: a entrambi è stato assegnato un attendente, pretendono che chi rivolge loro la parola si metta sull’attenti e quando vanno in città infilano le loro manacce sporche dentro un bel paio di guanti bianchi. Infine c’era il sergente maggiore Dalas, un tipo goffo e impacciato che fumava come una ciminiera – al punto che nella nostra compagnia persino i non fumatori si dichiaravano fumatori e gli regalavano i pacchetti che non servivano a loro – e non sopportava i commilitoni minimamente istruiti.

Quando sono entrato, mi sono sentito accarezzare il volto da un gradevole tepore misto all’odore di sangue e di sigaretta. L’entrata era chiusa da due doppie tende. Una lampada ad acetilene con due fiammelle brillava sul tavolo di legno, al centro del quale si apriva un foro triangolare prodotto dalla stessa scheggia che aveva tranciato le dita del furiere. In un angolo del tavolo si scorgeva ancora una macchia di sangue. Per terra la polvere sporca di sangue era stata pulita con il rastrello. Tutto ciò che restava di quella brutta avventura era il registro del rancio rosso di sangue, un mazzo di carte macchiate anch’esse di sangue e qualche frammento della bomba omicida, conservati su un armadio nell’angolo.

Mi sono seduto anch’io su uno di quei grandi rocchetti di lamiera per i fili del telegrafo, che utilizziamo spesso come sgabelli. Sopra un un fornello da campo ad alcol bolliva una grande teiera. Tutti sorseggiavano rumorosamente il tè bollente dentro tazzine di alluminio che l’attendente del capitano continuava a riempire. C’erano anche una scatola di biscotti, la zuccheriera del capitano e un bottiglione di rum inglese, che ogni tanto versavamo nel tè per correggerlo. Quei momenti di festa al termine di una giornata di morte mi sono parsi nel contempo molto struggenti e felici. Il capitano interrompeva di quando in quando il racconto dei fatti per abbandonarsi a una smorfia di dolore o per sistemare meglio il ginocchio ferito.

Si era trattato appunto di un colpo di mortaio. Dopo averne esaminato i frammenti, Derou ci ha detto quanti chili pesava e di che marca era. Era la prima volta che il nemico usava un’arma del genere. Di sicuro era stata lanciata a caso. Il ricovero si trova dietro un’altura e non si riesce a vedere dalle postazioni bulgare. Forse a un artigliere nemico era venuta voglia di muoversi un po’ oppure si era trattato di un’esercitazione. Il colpo era esploso proprio davanti all’ingresso del ricovero. Vi avevano appena spostato il tavolo per godersi un po’ la luce del sole. A lanciare l’idea era stato Apostolu.

«Signor capitano, che ne dice di spostare il tavolo? Ho una voglia matta di un po’ di sole».

Lui e il capitano si misero al lavoro mentre il furiere e l’assistente erano intenti a compilare il registro del rancio. Intanto Apostolu si era messo a raccontare un brutto sogno che aveva fatto la mattina precedente. Il trattato di pace era stato firmato. Per festeggiare l’intero reggimento era uscito dalla trincea e gridava esultante. Mentre ciò accadeva, da lontano, dalla campagna, si vedeva sopraggiungere una nave nera con tanto di festoso gran pavese, che scivolava sulla terraferma fischiando e sbuffando. In coperta c’era una folla di marinai in piedi, immobili, con i volti pallidi e assorti. Il loro sguardo era attonito e tenevano le braccia conserte sul petto. La nave, continuò Apostolu, si fece strada attraverso le colline brulle e si fermò davanti alla trincea, poco lontano dal ricovero.

«Tutta colpa del sole…», ha sospirato il capitano. Noi ci siamo voltati a guardare di nuovo i due cadaveri nascosti sotto le coperte, rischiarate dalle fiamme guizzanti della lampada. Due giovani sacrificati al sole. A causa delle ombre gettate dalle fiamme quei due corpi sembravano ancora vivi e in procinto di liberarsi delle coperte. Ioannu, ho pensato, inforcava ancora i suoi grandi occhiali con la montatura nera. Mi è venuto in mente che un giorno lo trovai che dormiva con gli occhiali sul naso.

«Ehi», dissi strattonandolo per gioco. «Neanche quando dormi ti togli gli occhiali?».

Si svegliò di soprassalto, spalancò i suoi occhioni di ragazzo e rispose con quel suo eterno sorriso bonario:

«Certo. Per vedere meglio i sogni che faccio».

Abbiamo continuato a sorseggiare il tè corretto con il rum e a fumare le sigarette del capitano. A poco a poco in quella specie di stanza mortuaria sotterranea la malinconia parve dileguarsi. A scacciarla era il bagliore bianco dell’acetilene e le voci dei presenti che con il trascorrere dei minuti si facevano più calorose, più vivaci e più allegre.

Tutto l’orrore e l’angoscia di quella strage pareva scivolare oltre l’angusta imboccatura del ricovero, oltre le tende. Verso la trincea fangosa e gelida, con i sacchi di sabbia sbrindellati, verso le colline umide, sferzate dalla pioggia gelida e flagellate dalla bora. Era un sollievo trovarsi lì, al caldo, con una tazza di tè corretto al rum sotto il naso e una bella sigaretta tra le labbra. Sapevamo bene che fuori si moriva di freddo e che la pioggia cadeva incessante, e che in mezzo al fango, nella terra di nessuno tra le due trincee, le rispettive ronde, nostre e del nemico, stavano in agguato pronte a uccidere e a farsi uccidere. E proprio accanto a noi c’erano i cadaveri di due sventurati commilitoni, sacrificati come agnelli, il cui sangue sparso sul terreno non si era ancora asciugato. Naturalmente queste erano più sensazioni istintive che pensieri formulati con l’allucinata chiarezza della riflessione a posteriori. Ma erano proprio queste sensazioni a stordirci ancora più del rum e delle buone sigarette del capitano.

Quest’ultimo mi ha domandato se io e Ioannu fossimo compaesani.

«Sì, siamo entrambi del villaggio di Lepètimnos. Si era appena sposato con la figlia di un prete e presto sarebbe diventato padre».

Il sergente maggiore ha preso dall’armadio un pacchetto e ha cominciato lentamente a svolgerlo. Dentro c’erano gli effetti personali di Ioannu, che la compagnia avrebbe restituito ai familiari. Ha tirato fuori un involto di cartone con due tasche.

«Questa è la fotografia della moglie», ha detto.

I bordi della fotografia erano piuttosto rovinati ma l’immagine era nitida. In un angolo, passato all’interno di un forellino, si scorgeva una ciocca di lucidi capelli castano scuro tenuti insieme da un sottile nastrino azzurro. Ci siamo passati l’un l’altro quella sacra reliquia coniugale e ognuno l’ha tenuta in mano accarezzandola in silenzio qualche minuto. Uno dei nostri sottotenenti, che aveva una zazzera riccioluta come quella dei neri, gli occhi piccoli e le labbra carnose, si mangiava con gli occhi la figlia del prete. A un certo punto ha odorato la ciocca di capelli e ha detto sospirando, con gli occhi che gli brillavano:

«Proprio un gran bella ragazza. Quant’è vero Iddio».

Il francese ha confermato nel suo greco stentato.

Ho dato un’occhiata anch’io.

Si chiamava Amersuda ed era la figlia minore del prete. Aveva gli occhi neri con sopracciglia sottili, un sorrisetto malizioso e un bel paio di seni sodi e ben torniti, che sembravano scoppiare dentro la camicetta attillata. Somigliavano a due pomi maturi e succulenti offerti come pegno d’amore. Anche se si trattava soltanto di una fotografia, la bellezza di Amersuda prorompeva in tutto il suo splendore. Il sorriso inspiegabilmente malizioso della ragazza appariva netto anche qui, nel ricovero, il cui pavimento era stato appena sgombrato dal terreno macchiato dal sangue di Ioannu. Per non parlare dei capelli, che avevano riempito l’aria del loro inebriante effluvio femminile. In quel budello maledetto che puzzava di fumo, di cloroformio, di rum, di alcol bruciato e del sangue di Ioannu!

Il cadavere del nostro compagno giaceva in un angolo, per terra, sopra una tenda. La gamba sinistra, quella mutilata, stava avvolta nei teli azzurri, separata dal resto del corpo, come un cadavere più piccolo e autonomo. A un’estremità si vedeva la punta dello scarpone, all’altra una ferita scura. Il midollo osseo era fuoriuscito sul terreno, simile a un grosso verme rossastro.

Ciononostante la ragazza immortalata nella fotografia rideva come da dietro una finestra. Rivolgeva a tutti un sorriso carico di malizia, di erotismo e di gioia. Sorrideva ai soldati eccitati dal rum, sorrideva al francese e sorrideva al sergente maggiore. Quella poveretta non sapeva nulla di quanto sapevamo noi mentre i due seni sodi e appuntiti continuavano a fare bella mostra di sé, offerti come pegno d’amore.

Il povero Ioannu…

Il nostro caro amico. Era il ragazzo più gentile della compagnia, buono e gentile come nessun altro. Quando incontrava qualcuno dentro lo stretto budello della trincea, non c’era volta che non aderisse completamente alla parete per lasciarlo passare. E tutto questo sempre con il sorriso sulle labbra, sotto i due occhi celesti, persino quando le privazioni e le miserie della nostra vita animalesca ci hanno ridotto a un fascio di nervi, a gente cui basta un nonnulla per insultarsi a vicenda e venire alle mani, spinta da un sordo rancore.

Ricordo che una volta, durante una delle nostre marce, un mulo da trasporto gli calpestò per sbaglio le dita di un piede. Ioannu gridò per il dolore. Il capitano si avventò sul mulattiere distratto ma Ioannu scoppiò subito a ridere per mostrare al capitano che stava benissimo e che il mulo non gli aveva fatto niente. In tal modo non ci furono conseguenze per il mulattiere ma Ioannu continuò a zoppicare per quattro lunghi, tormentosi giorni.

«Ricordo anche il suo coraggio», ha detto il capitano. «Tutti i giorni era costretto ad attraversare il Passo della Volpe per andare al reggimento a ritirare l’ordine del giorno. Sapete quanto sia pericoloso il Passo della Volpe e che ai bulgari basta vederci un gatto per prenderlo a cannonate. Un giorno, mentre lo osservavo con il cannocchiale», ha continuato il capitano, «ho pensato che nonostante l’aspetto fanciullesco aveva coraggio da vendere. I bulgari a un certo punto si sono accorti di lui e si sono messi a sparare. Be’, avreste dovuto vederlo come schivava i colpi. Aspettava che il proiettile scoppiasse, poi si alzava e ricominciava a correre chinando il busto, come facciamo durante le esercitazioni».

Tutti abbiamo rivolto uno sguardo rispettoso nei confronti dei teli che ne avvolgevano i resti. Ho immaginato il suo volto di cera con le labbra sbiancate e le palpebre abbassate con gli occhiali storti sopra il naso.

Intanto la conversazione era andata avanti. Il capitano e i miei compagni si erano messi a parlare di calli!

«I calli sono un problema soltanto per i damerini e per chi vive in città», diceva il sergente maggiore immergendo un biscotto nel tè fino alle dita. «Noi soldati abbiamo un rimedio infallibile: un paio di scarponi talmente duri che è impossibile fargli cambiar forma».

Il francese allora ci ha raccontato in tono divertito che erano quattro anni che soffriva di calli e per guarire aveva persino pensato di sposarsi. Cosa? Sposarsi? Che cosa c’entrano i calli con il matrimonio? Il lieutenant Derou doveva essere certamente ubriaco.

«No, non è ubriaco».

Ecco dunque com’erano andate le cose. Derou passeggiava distratto lungo un boulevard e a un tratto, senza volerlo, pestò un piede a una ragazza che impallidì per il dolore. Derou si profuse in mille pardon, pardon e le porse il braccio per aiutarla. Lei accettò l’aiuto di Derou, infilò il braccio dentro il suo e dopo quattro anni ancora non l’aveva sfilato! Non che Derou lo volesse. Ne era ancora innamorato come il primo giorno e avrebbe cercato di portarla a Salonicco per sposarla. Dall’aneddoto di Derou all’argomento preferito dei soldati, un argomento trito e ritrito ma sempre apprezzato, le donne, il passo è stato breve.

Le donne! Con quanta passione, con quanto trasporto ne parliamo dentro queste caverne tenebrose. E quando non ne parliamo, cadiamo ammalati a furia di pensarci. Oppure le sognamo di notte, quando andiamo a dormire, stremati dalla fatica e dal tedio. Le vediamo nel sonno e tendiamo loro le mani ossute. Con la forza dell’immaginazione ne mettiamo a nudo la femminilità. La loro figura ci stordisce come l’hashish, il ricordo dei piaceri passati, delle forme flessuose e dei gesti, ci rinfresca la memoria. E con tutti i sensi succhiamo il desiderio come un veleno di una dolcezza inaudita. Sì, è con estatica adorazione che i soldati parlano delle donne. Le cerchiamo per prostrarci davanti a esse, come a dee degne di essere adorate con riti orgiastici. Ce le immaginiamo nell’atto di calpestare con il calcagno rosa la nuca di milioni di guerrieri sporchi di fango, pronti a gemere di supremo piacere come animali al culmine della voluttà. Ne bramiamo gli anfratti umidi e profondi, ricetti sublimi in cui si acquattano i maschi con le loro baionette fameliche e luccicanti. Nel buio delle trincee le donne fanno delirare i soldati, li fanno straparlare sotto le ali feroci della morte. Spasimano nel desiderio di aggredirle come sciacalli, sospinti dall’estro amoroso, di affondare con voluttà l’affamato volto virile nel loro sangue color di rosa.

È bastato soltanto pronunciare la parola “donne” per vedere il volto di tutti diventare paonazzo e la voce cavernosa tradire la gioia selvaggia dell’eccitazione erotica.

Il sergente maggiore gesticolava alla stregua di un epilettico raccontando una storia risalente al 1912.

«Ho sfondato la porta e sono entrato. Dentro c’era una donna musulmana bianca come il latte, con le tette rosa. Non ci ho visto più e lei ha capito…».

L’ufficiale tarchiato con i capelli riccioluti e le labbra carnose ha fatto un brindisi sollevando la tazza colma di tè e di rum. Prima di prendere la parola si è schiarito la voce tossicchiando:

«Signore e signori! Brindo alla salute di tutte le belle donne di entrambi gli emisferi. E brindo alla salute anche di entrambi gli emisferi di tutte le belle donne!».

Con gli occhi piccolini ci ha guardati tutti uno per uno per vedere se avevamo apprezzato il suo gioco di parole e alla fine è scoppiato a ridere da solo. Il sergente maggiore ha riso anche lui, più che altro per cortesia, come se eseguisse un ordine, e in mezzo ai baffi si è intravvista una fila di denti gialli. L’ufficiale gli ha rivolto uno sguardo riconoscente. Il suo collega invece, l’altro sottotenente, ha osservato che quel brindisi non era farina del suo sacco e che quella battuta gli sembrava di averla già sentita o letta da qualche parte.

«Ti sbagli, ti sbagli, lo giuro sul mio onore!», ha gridato l’ufficiale con le labbra carnose.

Il francese intanto si era messo a cantare una canzonetta piena di doppi sensi e tutti tenevano il ritmo con le tazze di alluminio.

«A Salonicco-icco-icco mi ci ficco-icco-icco!».

Che confusione! Avevamo davvero alzato un po’ troppo il gomito, ho pensato.

In quel momento dall’esterno si è sentito un tramestìo di passi.

«Avanti!».

Sono entrati quattro infermieri con due barelle. Avevano ricevuto l’ordine di portar via i cadaveri. È seguito un piccolo parapiglia, una scena macabra. La gamba di Ioannu è scivolata dalla barella cadendo per terra con un tonfo sordo. Gli infermieri sono stati costretti a fissarla con quattro spilloni da balia sotto la giubba perché dei calzoni restava soltanto un mucchio di brandelli umidi. In tal modo lo scarpone della gamba troncata e rivolta all’esterno arrivava soltanto al ginocchio dell’altra. Si sarebbe detto che Ioannu soffrisse a causa di quella posizione innaturale ma il volto impassibile attestava che quel poveraccio non provava nulla. Gli occhiali luccicavano come se ci guardasse attraverso. Il sergente maggiore, per ogni evenienza, ha ordinato di fissare anche il braccio penzoloni per evitare che lo perdessero lungo la strada, e di mettergli in tasca le tre dita del furiere.

Subito dopo hanno sollevato il corpo di Apostolu. Mentre lo adagiavano sulla barella, il braccio gli è caduto e dalla manica è cominciato a scorrere un liquido denso che ha macchiato il terreno. Era il sangue uscitogli dalla piccola ferita sul petto, che si era accumulato sotto la manica.

 

Ho augurato buonanotte e sono uscito per tornare al mio ricovero. Fuori c’era buio pesto. La notte, umida e crassa, regnava sovrana sul fango riempiendo tutta quanta la trincea. Mentre camminavo, avevo la sensazione di fendere una gelatina. Brancolavo nelle tenebre e quando sfioravo le pareti, le zolle di fango che si staccavano facevano pluff cadendo nelle pozzanghere di cui era pieno il pavimento. Avevo la sensazione che fossero pezzi bui di notte. Nel ricovero ho sentito il russare di due commilitoni. Nella grossa trave del soffitto era conficcata una baionetta, dalla cui estremità, grazie a un filo di telefono, pendeva un recipiente pieno di grasso. Dentro ardeva uno stoppino. In quel modo evitavamo che i topi mangiassero il grasso. Se non fosse che i miei compagni russavano, li avrei scambiati per dei defunti rischiarati da un lumino assai singolare. Quando sono entrato, uno di loro si è svegliato.

«Quello è il tuo giaciglio», ha detto da dentro la pelle di pecora che gli avvolgeva la testa. Poi ha cominciato a grattarsi forte e in fretta e io riuscivo a sentirne le unghie sulla pelle. Quando ha ricominciato a russare, si stava ancora grattando.

Mi sono avvolto anch’io nelle coltri e mi sono adagiato in un angolo. Il rum del capitano mi martellava ancora le meningi. Ho chiuso gli occhi e ho cominciato a pensare…

«Sai, fratello, diventare cadaveri è la cosa più facile del mondo. Guarda Apostolu, per esempio, che se l’è portato via un pezzettino di ferro grande come un pisello. Gioventù, idee, passione, forza, sogni, ardore. Tutto se n’è andato attraverso un forellino poco più grande di una capocchia di spillo. Un forellino livido proprio sotto il pettorale sinistro. Niente più che una semplice escoriazione. Ma sufficiente a far svanire l’intera riserva di vita e di energia».

Faccio pensieri assurdi. Se è vero che in natura niente si distrugge e tutto si trasforma, dov’è finita la vitalità di questo giovanotto poco più che adolescente, che, se non fosse stato per questo pezzettino di ferro conficcatoglisi nel petto, era destinato a compiere imprese straordinarie?

Penso anche ad altre cose. Apostolu era un uomo sano e di bell’aspetto, istruito, pieno di gioia di vivere e di ideali. Era una creatura eletta, mossa da un grande entusiasmo ed eccitata all’idea di spiccare il volo. Così lo aveva creato la Natura. Eppure è bastato un pezzettino di ferro piccolo così per trasformarlo in un cadavere. Un cadavere non è altro che un mucchio di carni inerti in via di decomposizione.

Ma la Natura senza perder tempo riutilizza la materia prima dei corpi umani in decomposizione per trasformarli e generare qualcosa di nuovo. Un pezzo del cuore di Apostolu, per esempio, lo dà a una gialla radice selvatica che cerca di scavare sempre più a fondo nelle viscere della terra. Nessuno sa fin dove arrivi questa radice, nessuno ne conosce la fatica che compie per vivere, crescere e svilupparsi. Nessuno sa neppure che esiste. La radice però è lì, instancabile. Scava sempre più nel terreno, flessuoso e robusto verme vegetale che cerca di insinuarsi sempre più nelle viscere della terra. Finché va a sbattere contro una pietra.

«Che cos’è?», si domanda incuriosita nelle tenebre sotterranee. «Una pietra!».

La radice è cieca, non ha gli occhi. Però è dotata di arti infiniti, di milioni di escrescenze e di linguette vegetali che frugano, mangiano, succhiano. E la radice continua ad avanzare, rettile verde. Una forza irresistibile la spinge ad andare avanti, sempre avanti. Il suo sforzo ha qualcosa di incredibile, è una tragedia che ha luogo all’insaputa di tutti, senza che nessuno vi assista. A un certo punto un fremito e una speranza fanno rabbrividire la radice. Uno dei suoi innumerevoli arti, che fungono insieme da braccia e mani e bocche e antenne, riesce a infilarsi dentro una crepa invisibile della pietra.

«L’ho trovata!», esclama. Ormai tutte le energie del rettile verde si concentrano sulla crepa. La roccia va espugnata a ogni costo. Deve penetrare nel cuore della roccia perché ha bisogno di energia. E quindi di cibo. Ha bisogno di sostanze chimiche. Ed ecco la Forza che presiede a tutti questi impulsi strani e formidabili, gettare il cuore di Apostolu alla radice affinché se ne nutra.

«Prendi, questo è per te!».

Getta alla radice i begli occhi neri di Apostolu, il repubblicano Apostolu, che si riempivano di sogni quando contemplava l’orizzonte azzurro e diceva:

«Quando la repubblica sarà finalmente instaurata, andremo a festeggiare ad Atene, sull’Acropoli, dentro il Partenone. I greci antichi dalle loro tombe ci riconosceranno grazie allo squillo di tromba dei nostri Reggimenti e diranno: Ecco, il richiamo dei greci!».

Ma evidentemente, agli occhi di Dio è molto più importante una radice-tubero, che ha bisogno di energia per scavare dentro la fessura di una roccia, nelle viscere della terra.

Chissà…

La testa mi duole ancora a causa del rum inglese del capitano. Così faccio pensieri ancora più assurdi.

Ioannu e Apostolu hanno vissuto soltanto venticinque anni. Il resto dell’eternità lo trascorreranno da morti. Questa è la loro realtà permanente. L’eterno. Il resto, i venticinque, ridicoli anni della loro vita, sono venticinque gocce in un diluvio di anni, talmente tanti che basterebbero a soffocare nel silenzio della morte tutti i mondi e tutte le stelle, e alla fine ne avanzerebbe ancora un numero infinito. Accade dunque qualcosa di tragico, che in questo momento mi riempie di stupire perché non vi prestiamo mai abbastanza attenzione.

È che sotto la pelle di ognuno di noi si cela un Morto. Se ne sta buono e tranquillo ad aspettare l’occasione giusta per manifestarsi con la placida serenità propria di tutte le cose eterne. Nei pochi anni della nostra vita questo Morto non facciamo che immischiarlo nei nostri pasticci. Lo strattoniamo a destra e a sinistra, su e giù, lo travolgiamo con le nostre passioni, con i nostri sentimenti e con i nostri entusiasmi. Il Morto però tace, non fiata mai. Lo spingiamo verso gli altri e ci asseconda, lo gettiamo nell’abisso e non si oppone. Tanto lo sa che alla fine, nel giro di al massimo qualche decennio, sarà lui ad avere ragione. Che cosa sono pochi attimi di pena di fronte alla serenità eterna che lo attende?

Ricordo a un tratto che quando era vivo il povero Apostolu aveva una pessima abitudine, che mi mandava in bestia. Gli piaceva far crocchiare le dita. Ogni tanto di punto in bianco sentivi quel sinistro krik-krik-krik! Sembrava quasi un atto di presenza delle ossa ossa del suo scheletro. Chissà. Questi pensieri allucinati dimostrano che sono più ubriaco di quanto pensi. Eppure… Che strano. Se il sergente furiere potesse assistere ai funerali di Ioannu, assisterebbe anche alla sepoltura di se stesso. Sarebbe il primo essere umano ad assistere alle proprie esequie. Nelle tasche di Ioannu, infatti, ci sono le tre dita mozzate del furiere. Su una, all’altezza della falangina, me lo ricordo molto bene, si scorgeva il callo causato dalla penna. Due avevano la pelle ingiallita dalle sigarette.

Un topo sta rosicchiando una galletta nel mio zaino.

Non me ne frega niente.

 

Coup de main

Ecco come sono andate le cose.

Il capitano ha convocato tutti i sottufficiali nel suo ufficio. Ha disteso sul tavolo la pianta della trincea bulgara e ha tirato fuori un pacco di fotografie aeree del settore nemico. Ci ha mostrato la conformazione del reticolato, i punti deboli e quelli d’ingresso. Poi ci ha indicato con la massima precisione i ricoveri principali, gli uffici, i centri di comunicazione telefonica e le postazioni di artiglieria. Il tutto era frutto del lavoro scrupoloso e complesso delle nostre spie e dei servizi tecnici. Chissà quanto sangue umano era costato. Alla fine ha disegnato alcuni trattini rossi creando una specie di prolungamento della linea bulgara, una sorta di promontorio che si prolungava verso la nostra trincea come una lingua che fuoriesce dalla bocca. Ci ha spiegato che il reggimento aveva affidato alla nostra compagnia la missione di compiere un “colpo di mano”. Trenta dei nostri soldati più determinati e coraggiosi avrebbero attaccato nel punto delimitato dai trattini rossi allo scopo di catturare ostaggi e materiale da consegnare agli specialisti dello Stato maggiore. Il capitano ci ha guardato uno per uno negli occhi e ha detto:

«Per questa missione ho bisogno di due sergenti volontari. Non vi nascondo che si tratta di una missione pericolosa. Occorrono la furbizia di una volpe e il coraggio di un leone. Il commando avanzerà da tre punti del filo spinato e giunto alla trincea, coglierà il nemico di sorpresa e procederà al saccheggio. Chi di voi se la sente di partecipare alla missione e di onorare così la compagnia, si faccia avanti».

Quando il capitano ha finito di parlare, mio fratello, messosi sull’attenti, ha fatto un balzo, ha battuto i tacchi e ha detto con voce ferma:

«Ai suoi ordini, signor capitano!».

Io ero dietro di lui. L’ho visto raddrizzare le spalle larghe, alto e robusto, e ho provato una stretta al cuore. La sua corporatura atletica si stagliava nella luce della lampada ad acetilene. Dopo qualche istante anche altri due commilitoni si sono fatti avanti, insieme, come se li avesse spinti la stessa molla. Il capitano ha scelto mio fratello e un altro soldato. Quando ce ne siamo andati, loro si sono trattenuti assieme all’ufficiale designato a comandare la missione per ricevere le istruzioni e selezionare i trenta uomini migliori della compagnia.

Io intanto sono tornato al ricovero ad aspettare, con l’animo turbato dall’angoscia. Tre notti prima avevo sognato di perdere un dente. Me l’aveva fatta tornare in mente la storia di mio fratello offertosi come volontario in una missione dall’esito incerto.

Dopo circa un’ora anche lui è tornato al ricovero. Era allegro e piuttosto nervoso.

«Mi stavi aspettando?», ha domandato. Si è messo a fischiettare e a fare i preparativi per la partenza. Mi ha lanciato un pugnale cosiddetto “da trincea”. Tutti i membri del commando ne avrebbero avuto uno nell’eventualità di un combattimento corpo a corpo.

«Bello, vero?».

Lo guardavo senza rispondere. Lo aveva preso ua strana frenesia, non smetteva di chiacchierare ma senza guardarmi. A un certo punto abbiamo incrociato gli sguardi. Nei suoi occhi si scorgeva un lampo di sfida.

«Ti è dato di volta il cervello?», ho detto. «Lo sai che potresti rimetterci la vita?».

Ha ribattuto scuotendo lo straccio per l’oliatura delle armi:

«E a te che cosa importa?».

Nella sua voce ho notato un malcelato astio. Gli ho rivolto uno sguardo dolente e ho risposto stringendomi nelle spalle:

«Niente».

Siamo rimasti in silenzio fino all’ora della partenza. Ma un istante prima di uscire, mi ha abbracciato e baciaro nel buio. L’elmetto mi ha fatto male alla guancia. Si sono messi in fila e sono partiti. In silenzio. Si udiva soltanto il lieve tintinnio lieve dell’equipaggiamento che avevano con sé. Ho visto l’ultimo soldato che usciva dalla trincea segnarsi in fretta nella notte. Di lì a poco sono stati inghiottiti dalla notte. Il loro compito consisteva nel praticare un passaggio nel reticolato tagliandolo con le cesoie, prendere in ostaggio o uccidere senza il minimo rumore le sentinelle e saltare dentro la trincea. Una volta giunti a destinazione, dovevano lanciare un razzo di segnalamento per avvertire la nostra artiglieria di isolare quel pezzo di trincea mediante un impenetrabile “muro di fuoco”.

Siamo usciti in trincea e ci siamo messi in fila aguzzando lo sguardo. Un vento secco e gelido di tramontana paralizzava le gambe e sferzava le colline. Il cielo era quasi del tutto privo di stelle. Tutti seguivano mentalmente i compagni mormorando i propri pensieri. Gli occhi dolevano nello sforzo di penetrare le tenebre.

«Adesso saranno arrivati al gelso morto».

«E adesso? Saranno nella radura. A meno che non si siano nascosti per evitare le ronde di passaggio».

«Finora tutto bene, a quanto pare. Non hanno ancora lanciato alcun razzo».

«Sì, ma ci mettono troppo».

«Dimentichi che devono tagliare il reticolato».

Hanno detto qualcosa a proposito di mio fratello e il cuore ha cominciato a battermi più in fretta.

«Con loro c’è il sergente Kostulas, non hanno niente da temere».

«Neanche un sarto di alta moda sa usare le forbici meglio di lui».

Dalla parte opposta abbiamo udito l’esplosione di una bomba a mano. Abbiamo smesso di parlare rabbrividendo. Sono seguiti una raffica di fucile e poi il crepitio di una mitragliatrice. Sparava lentamente, senza fretta, come un martello che inchioda un asse di legno. Tap-tap-tap-tap. Tra una raffica e l’altra si udivano anche le esplosioni ripetute di bombe a mano lanciate una dopo l’altra. A un certo punto abbiamo finalmente visto i razzi di segnalazione, uno, due, tre, cinque, dieci. Tutti bianchi. Giungevano da tutte le direzioni e convergevano tutti verso lo stesso punto. Nel frattempo anche altre mitragliatrici avevano cominciato a sparare. Le raffiche si succedevano frettolose, micidiali, sembravano decine di macchine per cucire intente a ricamare (sudari forse?) tutte insieme. Ma di razzi verdi nemmeno l’ombra.

«Il segnale verde! Non vedo il segnale verde! Qualcuno lo ha visto?».

Sono corso dal capitano con le mani e le ginocchia che mi tremavano.

«Signor capitano, i razzi verdi ancora non si vedono! Che cosa combina la nostra artiglieria? C’è qualcosa che non va».

Il capitano parlava al telefono e non mi ha risposto. Gridava come un ossesso nella cornetta, stava quasi per farla a pezzi.

«Sbrigatevi, perdio, il nemico sta per sterminarmi tutti gli uomini e i vostri cannoni dormono della grossa! Come?». Drin, drin, drrriiin! «Hallo? Hallo? Come, aspettano il segnale? Quale segnale? Cominciate a colpire! Subito! Fate in fretta! Come? Cosa? Quale responsabilità? La responsabilità è mia, maledizione».

Comincia lo sbarramento di fuoco. Le granate ci sfioravano la testa, a grappoli, ininterrotte, rapide, allegre. Un fiume di acciaio che attraversava l’aria gelida e cadeva dalla parte opposta. Le granate volavano, cantavano e correvano. A me però sembravano lente, lentissime. Perché non andavano più veloci? Il boato dei cannoni faceva tremare le colline e i nostri cuori, e faceva vibrare l’aria. Le deflagrazioni di fronte, oltre il promontorio della linea bulgara, avevano formato un semicerchio corrusco, una mezzaluna di fiamme, un terribile corsetto di ferro e di fuoco. Intanto i fucili continuavano a sparare, sovrastati dal finimondo dei cannoni. Ben presto alle danze si è unita anche l’artiglieria bulgara. Adesso le granate volavano anche dalla linea nemica, dirette verso la nostra artiglieria. Alle nostre spalle si udivano esplosioni. Il capitano, accigliato, ordinò:

«Tutti dentro il ricovero! Tutti tranne i tiratori!».

«Con il suo permesso, signor capitano, io vorrei rimanere qui!».

Nessuna risposta.

Un’ora, un’ora interminabile. I cannoni avevano cominciato a calmarsi, da entrambe le parti, fino a tacere del tutto. Anche i fucili hanno taciuto e solo ogni tanto il silenzio era interrotto da qualche lancio di bomba a mano. I razzi di segnalazione continuavano a fendere la notte, a guisa di spettacolo pirotecnico. Un’allegra primavera di fantasmagorici fiori che sbocciavano, appassivano e fiorivano di nuovo. Dal suolo continuavano a spuntare flessuosi gambi rossi. A un certo punto anche il crepitio delle mitragliatrici ha smesso di fendere l’aria. L’ultima a tacere è stata quella che aveva sparato per prima. Doveva essere carica di colpi da sparare, come un martello che ficca grossi chiodi in una cassa di legno. (Forse una cassa da morto?)

A un tratto, nelle tenebre, si è udito un boato. Da vicino. Proprio davanti alla nostra trincea. Lamenti soffocati, schianto di ferraglia, gambe che correvano pesanti. Un grido prolungato. Eeeeee! Eeeeee! Sembrava un belato. Ombre che strisciavano al suolo, rotolavano nel buio o saltavano dentro la trincea.

«Di qua, di qua!».

Una voce incrinata, una voce rabbiosa:

«Che è successo, perché non avete sparato i razzi verdi?».

Una voce spezzata, una voce concitata:

«Signor capitano, ho l’onore di riferirle che gli uomini addetti alla segnalazione sono rimasti uccisi dalla prima bomba a mano lanciata dalla sentinella. Il nemico era al corrente dei nostri piani e ci stava aspettando».

Urto un tenente, gli pesto i piedi, striscio lungo le pareti della trincea.

«Il sergente Kostulas? Kostulas?», grido.

Risponde una voce nervosa, uscita da un quadrato di luce attraversato da ombre rapide:

«Kostulas è qui, lo abbiamo portato…».

Lo abbiamo portato? “Lo abbiamo portato”, ripeto in cuor mio, come se quell’espressione la sentissi per la prima volta. Mi faccio strada sgomitando in mezzo ai compagni, avanzo e chiedo scusa. Raggiungo il quadrato di luce. Frammenti di parole senza senso.

«Laggiù, ecco, laggiù!».

«Maledetti! Maledetti!».

Il grande ricovero, ampio come una galleria. Ovunque c’erano feriti, infermieri, barelle.

«Attenzione, attenzione, ha una frattura al femore».

«Cerca di resistere!».

«Fatti coraggio, vedrai che ce la fai».

«Dottore, me la dovete amputare?».

Mio fratello. Mio fratello con la giubba sbottonata sul petto. L’acetilene che gli illumina barbaramente il petto bianco. Un nastro rosso che parte dal petto e arriva fino al basso ventre. Sta su una barella e un sottotenente medico gli avvolge le bende intorno al collo facendole passare sotto l’ascella. Le bende, man mano che lui le avvolge, si colorano di rosso. Il tenente medico si muove con la destrezza e l’abilità di un artista.

«Dottore, mio fratello? Mio fratello?».

Mi guarda per un istante poi torna alla fasciatura. Tra i denti ha uno spillone da baia. Risponde biascicando, senza smettere di fasciare il ferito.

«Questo bravo soldato è tuo fratello? Ha avuto molta fortuna. Una pallottola gli ha attraversato il collo uscendo dal lato opposto, un millimetro appena e gli avrebbe tranciato la carotide. Purtroppo però la ferita rischia di infettarsi. Se tutto andrà bene, nel giro di un paio di mesi il sergente tornerà in servizio».

Mio fratello apre lentamente gli occhi e mi cerca con lo sguardo. È immobile, si muovono soltanto le pupille. Mi sposto a favore di luce. Mi vede. Mi guarda a lungo, con affetto. Mi rivolge un sorriso. Poi richiude gli occhi. Il medico infila la spilla da baia nelle bende e dice ai barellieri:

«Bisogna somministrargli l’antitetanica».

Gli coprono con cura le spalle e lo portano via. Un infermiere davanti e l’altro dietro.

«Hai sentito?», dico a uno dei due barellieri. È grasso e ha il volto paonazzo. Lo tiro per la manica e ripeto:

«Mi raccomando, l’antitetanica».

Lui tira avanti rivolgendomi uno sguardo irritato (mio fratello è grande e grosso).

Rimango qualche istante in silenzio, poi corroi dal capitano. È in fondo alla galleria, in piedi presso una fila di soldati sdraiati al suolo, nella penombra.

«Signor capitano, mi permette?».

«Che cosa c’è?», domanda senza guardarmi.

«La prego, mi lasci andare da mio fratello».

«Per quale motivo? Qui c’è bisogno di te. A partire da questo momento ti nomino vicesergente finché tuo fratello non si sarà rimesso».

«Signor capitano…».

Si volta e mi dice con durezza:

«Non vedi che cosa è successo?».

Dal tascone della giubba tira fuori una torcia elettrica. Preme il pulsante e illumina i soldati che giacciono in terra, feriti. Punta la torcia sui loro volti soffermandosi alcuni istanti su ciascuno di essi.

I feriti sono cinque. Hanno il volto inespressivo, gli occhi sono socchiusi e privi di vita. Uno di quei volti è privo di mento. La luce rischiara l’arcata dentaria superiore. Un altro, giovanissimo e ben rasato, ha le labbra serrate e gli occhi sbarrati. Il fascio di luce colpisce con violenza gli occhi ma questi restano immobili. Non soffrono né le palpebre sbattono o si chiudono.

 

ALIBERIS NON HA PIÙ PAURA DELLE GRANATE

È da un paio di settimane che sono cominciati i preparativi per un grande cimento. La nostra divisione e un paio di reggimenti stranieri di complemento dovranno penetrare nel territorio del nemico e impossessarsi di un’importante piazzaforte. L’operazione viene scientificamente pianificata fin nei minimi dettagli. Per ottenere lo sterminio degli uomini che vivono dentro il fango della trincea posta di fronte alla nostra non c’è conquista scientifica, tecnologica, psicologica, addirittura artistica dell’umanità cui non si faccia appello.

Ordigni infernali che sputano gas micidiali capaci di rendere ciechi e di causare ustioni irreversibili ai polmoni. Un fuoco inestinguibile, che non si spegne neppure con l’acqua, in grado di distruggere qualsiasi cosa in cui si imbatta. Tozzi siluri riempiti con materiale esplosivo e proiettili più piccoli sparati da cannoni ad aria compressa. Bombe incendiarie che esplodono liberando dal loro ventre migliaia di pallini incandescenti che saltellano indiavolati appiccando ovunque il fuoco. Bombe termiche capaci di sciogliere le bocche da fuoco. Un giorno ne abbiamo fatta esplodere una di prova dentro un elmetto, che si è accartocciato incenerendosi all’istante. Lanciafiamme che spargono ovunque morte e distruzione. Maschere antigas. Cinghie, elastici, respiratori, dispositivi chimici, macchinari elettrici dotati di microfoni in grado di ascoltare e di registrare qualsiasi informazione riservata, razzi sublimi che, una volta accesi, somigliano a variopinte costellazioni sulla testa di migliaia di persone innocenti, destinate a cadere al suolo con le ossa spezzate e le budella sparse nel fango, palpitanti come serpenti scuoiati.

Ma a mio avviso l’arma più terribile è il “pugnale da trincea”, in apparenza un normalissimo pugnale a lama larga, lo strumento principe dei cosiddetti “spazzatori”. Gli spazzatori sono i soldati incaricati di “bonificare” le parti di trincea già conquistate mentre l’attacco è ancora in corso. Tradotto in parole povere, gli spazzatori hanno il compito di tagliare la gola ai soldati nemici ancora nascosti, per paura o per astuzia, negli angoli più remoti o nei ricoveri abbandonati. Il termine “spazzatore” indurrebbe a pensare a innocui impiegati comunali. Invece si tratta di spietati professionisti che dietro si lasciano soltanto la morte. Il loro lavoro si svolge come segue. Innanzitutto lanciano un paio di bombe a mano dentro i ricoveri oppure usano il lanciafiamme. Il non plus ultra, però, sono le bombe asfissianti, che costringono gli eventuali soldati nemici ancora nascosti a venire allo scoperto, con i polmoni bruciati dalle fiamme e gli occhi ustionati dal gas. Gli spazzatori li aspettano fuori, fanno quello che devono fare e dopo passano al ricovero successivo.

Il piano d’azione viene preparato con l’ausilio di immagini, disegni e spiegazioni molto precise.

Ieri sera il capitano ha riunito la compagnia per annunciare che nel prossimo attacco non sarà tollerato neppure un atto di viltà. Basta poco, ha aggiunto, perché il panico si diffonda cagionando gravissime perdite materiali e umane. A me tutto questo sembrava affatto logico. Alla fine il capitano ci ha guardato e con un sorriso candido ha aggiunto con dolcezza che se qualcuno di noi non se la sentiva, se a qualcuno mancava il coraggio necessario, era invitato a farsi avanti e a dirlo con chiarezza.

Non ci aspettavamo un invito del genere. Il ricovero in cui ci trovavamo consiste in una serie di gallerie poste a sei metri di profondità. Il soffitto è sostenuto da robuste travi di legno e rinforzato da lamine di ferro. Poiché era dalle tre del pomeriggio che i cannoni bulgari non smettevano di sparare, quello era il posto migliore per ripararci. Gli altri ricoveri non sono altrettanto resistenti, i colpi di cannone li fanno crollare in men che non si dica seppellendo i soldati. Questo invece è una vera e propria fortezza. Tuttavia, nonostante le sue dimensioni, non è in grado di ospitare duecento uomini tutti insieme. Ben presto l’aria diventa irrespirabile ma durante i bombardamenti non è possibile uscire a meno che non si voglia rischiare la vita. I cannoni fuori sparavano a tutta forza e siamo rimasti a lungo in silenzio a sentire il sibilo delle granate che fendevano l’aria esplodendo al suolo. A un certo punto ci siamo sentiti mancare il fiato ed è stato proprio in quel momento che il capitano, con quel suo sorriso candido abbozzato sulle labbra rosa, ha chiesto a chi non se la sentiva di partecipare all’attacco di farcelo sapere.

La domanda era chiara e non aveva bisogno di spiegazioni. Nessuno però aveva il coraggio di aprire il proprio cuore e di palesare la verità al cospetto del capitano e di duecento compagni. Provavamo imbarazzo ma anche una certa curiosità. Al minimo rumore ci voltavamo a guardare credendo che finalmente qualcuno avesse deciso di farsi avanti. I nostri volti illuminati dalla lampada ad acetilene erano bianchi e scarni, ma negli occhi incavati bruciava un fuoco nascosto. Per un istante ho avuto la tentazione di raggiungere il capitano, di guardare i miei compagni e di dire:

«Vigliacchi, nessuno qua dentro ha il coraggio di dire la verità? Il capitano ha chiesto se qualcuno non se la sente di partecipare al contrattacco, io vi chiedo se c’è qualcuno abbastanza coraggioso da ammettere che sì, ha paura della morte. Altrimenti significa che nessuno di noi se la sente, che siamo tutti dei gran cacasotto».

Poi mi sono accorto che anch’io ero un cacasotto e anzi, probabilmente a tenermi la bocca chiusa era la Croce di guerra e il secondo gallone.

A un tratto però si è udita una voce provenire dal fondo della sala.

«Signor capitano, permette?».

A seguire un vocio e un tramestio. I soldati si sono scansati e hanno aperto un varco per lasciar passare il compagno. Si trattava di Aliberis Vasilis di Athanasios, un soldato tarchiato con le spalle larghe e i capelli ricci, il quale ha detto pressappoco le seguenti cose scandendo bene le parole:

«Signor capitano, ho l’onore di dirle che a me il coraggio necessario manca. La prego di non contare su di me per l’attacco».

«Hai paura?», ha domandato il capitano, quasi incredulo. Sembrava quasi offeso dal fatto che uno dei suoi uomini ammettesse di essere un vigliacco. Aliberis ha risposto con franchezza:

«Sì, signor capitano. Da borghese sono un semplice falegname. Non sono sposato perché con i soldi che guadagno devo mantenere mia madre e quattro sorelle nubili. Nostro padre prima di morire ci ha lasciato soltanto un poderetto e adesso che io sono qui è grazie a esso che tirano avanti. Le mie cinque donne sono la mia unica preoccupazione e se io dovessi restare ucciso in guerra, loro rimarrebbero completamente sole e indifese. In vita mia non ho mai fatto del male a nessuno. Ogni volta che sento il sibilo delle granate tremo come una foglia e la vista del sangue mi fa star male. Il lavoro invece non mi spaventa. So usare il tornio e ricavare dal legno qualsiasi tipo di oggetto. Signor capitano, mi scusi se mi sono preso la libertà di dire queste cose. Mi sono confidato con lei come con il confessore. Tutti sappiamo che lei è un uomo generoso e per questo ho deciso di dirle come stanno le cose visto che è stato lei a chiederci di essere sinceri».

Vasilis Aliberis ha chiuso la bocca restando sempre sull’attenti. Nel suo accento pesante mi è sembrato di sentire la dolce sordina di una seconda voce che era morta. Mi pareva che fosse l’afflizione di Gigantis. Con una differenza: Gigantis, che era molto più intelligente di Aliberis e aveva coltivato in maggior misura le debolezze dell’Io, non sarebbe mai stato capace di tanta sincerità al cospetto di tante persone.

Eravamo tutti ansioni di sapere quello che sarebbe accaduto. Aliberis stava ancora sull’attenti con gli occhi limpidi fissi sul capitano, in attesa di una risposta che sarebbe stata, senza alcun dubbio, determinante per la sua vita. Anche noi eravamo in attesa di quella risposta che, pensavamo, non sarebbe stata priva di conseguenze neanche per noi. Intanto all’esterno i cannoni continuavano a sparare. Il capitano era scuro in volto. Rifletteva con le mani dietro la schiena. C’era da scommettere che non si trattava di pensieri positivi. Il viso rosa si era coperto di rughe e nello sguardo si scorgeva un lampo di rabbia. Ma si è trattato soltanto di alcuni istanti, al termine dei quali il capitano ha sorriso con dolcezza (anche Aliberis ha sorriso, come un’immagine allo specchio). Poi ha invitato Aliberis a mettersi a riposo e ha ordinato:

«Sergente Pavlelis!».

«Sì, signor capitano!».

«Unisciti alla seconda pattuglia di ronda, prendi quattro uomini della tua compagnia e accompagnate il soldato Aliberis alla seconda fila del reticolato. Poi legate il soldato Aliberis al palo di ferro sulla destra, accanto all’ingresso, e lasciatevelo a oltranza. Così potrà fare l’abitudine alle granate». Si è interrotto, poi ha ripreso in tono epesegetico: «Questo è un ottimo sistema per far svanire la paura».

Aliberis era diventato una statua di cera. Ha alzato le braccia con lo sguardo rivolto sia al capitano sia al sergente Pavlelis. Poi gli occhi gli si sono riempiti di lacrime e si è messo a farfugliare:

«Signor capitano, la prego… Sono onorato di… No, signor capitano, la prego… Abbia pietà di me…».

«Guarda che non è una cosa così terribile», ha risposto il capitano. «Ti garantisco che non ti accadrà niente di male. In primo luogo quel punto è nascosto dietro il cespuglio di rovi e poi i nemici in questo momento stanno bombardando il lato sinistro. Voglio soltanto aiutarti a superare le tue paure. Sono sicuro che domani sarai un’altra persona. Tutti i falegnami di Grecia è necessario che diventino dei soldati coraggiosi e tutto quello che occorre è soltanto un po’ di buona volontà. Coraggio. E per favore niente piagnistei. In guerra non si piange, soldato Aliberis!».

«È per le mie cinque donne che piango, signor capitano».

Ieri sera tardi il sergente Pavlelis si è presentato nel ricovero del capitano per fare rapporto.

«Ordine eseguito, signor capitano».

«Quale ordine?».

«Quello relativo al soldato Aliberis. Lo abbiamo legato al palo della seconda fila del reticolato».

«Ha opposto resistenza?».

«Negativo. Ci ha soltanto pregato di risparmiarlo. Diceva che se lo avessimo lasciato solo, nel buio e in mezzo ai razzi, sarebbe morto. Non le nego che mi ha fatto compassione. Trema come una foglia ogni volta che una granata gli vola sopra la testa».

Quale tragedia si sia consumata di preciso ieri notte, presso la seconda linea del reticolato, a causa del buio pesto non lo saprebbe neppure Dio. Sta di fatto che stamani all’alba due soldati sono andati a ricuperare Aliberis e lo hanno trovato un’altra persona. Aveva la schiena appoggiata sul palo, la testa piegata sulla spalla sinistra e le braccia gli sanguinavano a causa della corda e del reticolato. I due soldati lo hanno liberato. Aliberis si è dato un’occhiata alle braccia, poi si è messo a fischiettare e a staccarsi i bottoni della giubba aiutandosi con le unghie. I soldati non capivano il motivo di quel comportamento, avevano soltanto fretta di tornare alla trincea prima che li avvistasse il nemico.

Aliberis non li sentiva. I due soldati si sono chinati, gli hanno dato un’occhiata nella semioscurità e soltanto allora hanno capito. Lo hanno tirato prendendolo sotto le ascelle e lo hanno spinto verso l’uscita. Poi da lì, uno avanti e l’altro indietro, lo hanno riportato alla trincea. Lungo la strada Aliberis ha continuato a fischiettare e a staccarsi con attenzione i bottoni. Oggi lo hanno portato all’ospedale. Le granate ormai hanno smesso di fargli paura, anzi, lo lasciano del tutto indifferente. La sua anima tormentata è rimasta uccisa la scorsa notte presso la seconda linea del reticolato, punita per eccesso di sincerità.

In questa vicenda quali sono le responsabilità del capitano?

 

L’esperto

Da ieri sera non facciamo altro che commentare un grave scandalo avvenuto nella nostra compagnia.

Si è scoperto che nella nostra trincea il mio amico Dimitratos procurava malattie e invalidità su commissione. A denunciarlo è stato Batalìs, un soldato anziano che, in cambio di venti dracme e di un paio di calze di lana nuove, ha chiesto a Dimitratos di procurargli un disturbo agli occhi. Purtroppo però le cose non sono andate come previsto. Quando il medico gli ha detto che sarebbe rimasto cieco per sempre, Batalìs si è messo a gridare disperato e a maledire Dimitratos che gli aveva distrutto la vita. Lo Stato maggiore ha avviato un’inchiesta, il reggimento ha notato l’aumento esponenziale di ammalati nella nostra compagnia, soprattutto negli ultimi tempi, in vista della prossima, grande manovra di attacco, e tutta la storia è venuta a galla.

Quando siamo arrivati qui, ho chiesto a Dimitratos di condividere il ricovero con me. Lui però ha rifiutato e ha preferito un angolino stretto e angusto in cui si rannicchia come un pipistrello. Soltanto adesso ho capito il perché. Il tenente che conduce le indagini gli ha preso lo zaino e ha perquisito il suo ricovero scoprendo vari attrezzi del mestiere. Dimitratos infatti, oltre a essersi specializzato nel procurare disturbi agli occhi, aveva con sé anche un’erba officinale che, strofinata tra le dita e sulle articolazioni, provocava un esantema facilmente confondibile con la scabbia. Poi è stata ritrovata una siringa che serviva a Dimitratos per iniettare piccole quantità di nafta. Nel giro di pochi giorni il punto in cui era stata praticata l’iniezione si ricopriva di piaghe purulente. C’erano anche delle sigarette allo zolfo che causavano una tosse perniciosa. I polmoni si infiammavano molto gravemente ma il soldato temerario se ne tornava a casa con tanto di licenza medica. In virtù della sua perizia i soldati lo chiamavano “il maestro” e fino a ieri nessuno ha mai tradito il suo segreto. Adesso invece lo scandalo è diventato di pubblico dominio e la corte marziale avrà il suo bel daffare. Il primo imputato è ovviamente Dimitratos. Tutti dicono che rischia la fucilazione.

L’ho preso da parte e gli ho domandato:

«Dimmi, Dimitratos, è vera questa storia?».

«A quanto pare…», ha risposto stringendosi nelle spalle e soffiandosi rumorosamente il naso in un grande fazzoletto a quadrati marroni.

«E adesso?».

«Adesso cosa? Finirò in prigione e mi salverò da morte certa, e per giunta avrò vitto e alloggio gratis».

«E se invece il tuo atto verrà considerato alto tradimento?».

«Verrò fucilato con tutti i disonori! E vedrai quanti seguiranno il mio esempio prima del prossimo attacco. Dammi una sigaretta».

L’ha accesa, ha preso una boccata e si è grattato la barba con le cinque unghie.

«Dimitratos, dimmi la verità», ho ripreso io. «Non hai mai riflettuto sull’aspetto morale della tua iniziativa? Al fatto che in un certo senso hai aiutato il nemico?».

«Morale? Che cosa c’è di morale nella guerra? Se siamo qui è perché non avevamo altra scelta, perché per i disertori c’è il carcere a vita e anche la fucilazione. Il fiato che ci sentiamo sul collo non è quello dei tedeschi o dei bulgari, ma della la corte marziale. La mia iniziativa, come la chiami tu… Il senso della mia iniziativa era salvare la vita a quei poveri soldati e far avere alle loro famiglie allo sbando il sussidio ministeriale. Ecco tutto». Si è interrotto poi ha ripreso: «È soltanto ai miei figli che penso, di tutto il resto me ne fotto altamente».

 

I gas

A quanto pare i nemici hanno scoperto i nostri piani e sono venuti a sapere che stiamo preparando un grande piano di attacco. Sono tre giorni che l’aviazione bulgara ci bombarda senza pietà. A ogni incursione il cielo si riempie di bianchi fiocchi di bambagia che seguono gli aeroplani nemici come un gregge di agnelli.

Ogni tanto ne cade uno. Ieri mattina, proprio sopra le nostre teste, un aereo tedesco ha ingaggiato un duello con sette aeroplani alleati. Dopo averne abbattuto uno inglese, è tornato alla base sano e salvo lasciandosi dietro una cometa di fumo nero. Un’altra volta sono arrivati due aerei tedeschi e hanno colpito un enorme pallone giallo che fungeva da strumento di osservazione. Quando i proiettili lo hanno centrato, il gas del pallone è esploso facendo precipitare al suolo la navicella con il soldato che stava all’interno. La lingua di fuoco ha lambito il cielo come una saetta, ha raggiunto il picco di luminosità e poi si è spenta. Il soldato dentro la navicella era un giovane maggiore francese, che prima di esalare l’ultimo respiro, ha chiesto al comando di dire al fratello, arruolato anche lui in un battaglione in Francia, di abbandonare l’esercito e di tornare dalla madre, che aveva perso tutti e quattro i figli maschi tranne uno.

Qui in trincea il prossimo attacco è l’argomento preferito di conversazione. Tutto induce a ritenere che ormai non manchi molto e a quanto pare anche i nemici lo considerano imminente. Negli ultimi giorni l’artiglieria bulgara non ha taciuto un istante, in particolare al mattino. I soldati parlano di tutto questo con rassegnazione. Tutti faranno del loro meglio con la speranza di sopravvivere ancora una volta.

Stamattina all’alba i bulgari hanno cominciato a colpirci usando sia bombe dirompenti sia bombe asfissianti. Era la prima volta che venivano usate. Fino a quel momento ne avevamo soltanto una conoscenza teorica, cosicché la maschera antigas, che portavamo attaccata alla cintura, la consideravamo un accessorio inutile e scomodo.

Nel mio ricovero si erano riuniti una decina di commilitoni. Mentre chiacchieravamo del più e del meno a un certo punto abbiamo sentito il boato caratteristico delle prime bombe asfissianti. All’inizio queste ultime le abbiamo scambiate per semplici granate inesplose, inghiottite dal terreno umido. Dopo qualche minuto però ha cominciato a stuzzicarci le narici un odore lieve e piacevole, un profumo di mandorla amara, che a un certo punto si è trasformato in un lezzo acre e pungente. All’improvviso nella trincea è scoppiato il finimondo, un inferno di grida, di ordini impartiti a destra e a manca, di scarponi che battevano concitati il terreno. I sottufficiali si sgolavano:

«Le maschere! Indossate le maschere!».

Ma purtroppo nessuno di noi aveva sotto mano la sua maschera. La peggio l’hanno avuta i soldati che si erano allontanati dal loro ricovero. Ma neanche nel mio ricovero le cose andavano meglio. L’aria andava impregnandosi di gas, dentro non potevamo più stare, ma non era consigliabile neppure uscire perché in trincea la situazione doveva essere ancora peggiore. Sarebbe stato un suicidio. Dal cielo piovevano piombo e ferro. Le bombe dirompenti aspettavano che i soldati uscissero dai ricoveri contaminati per scoppiare sulla loro testa.

Così, prigionieri dentro i ricoveri, i soldati cercavano di proteggersi con le mani sporche di fango gli occhi che bruciavano e lacrimavano come se qualcuno li avesse cosparsi di peperoncino, oppure infilavano la testa sotto le coperte tenendo la bocca chiusa e correndo il rischio di restare soffocati. Finché a causa della gola e del naso irritati, tutti hanno cominciato a tossire. Una mostruosità del genere non l’avevo mai vista in vita mia né mai avrei potuta immaginarla. Dal canto mio, mi sono messo a cercare a tentoni la maschera antigas. Sono riuscito a trovarla e l’ho indossata. Dopo qualche istante ho riaperto gli occhi e ho guardato attraverso le lenti offuscate di vetro. La sofferenza dei miei compagni era indescrivibile. Ciechi ed emaciati si rotolavano nel fango mugghiando e mordendo le giubbe e le coltri come se fossero stati contagiati dalla rabbia. Le teste emergevano dal mucchio indistinto di corpi straziati come i musi di grossi cuccioli appena nati, con gli occhi ancora chiusi e immersi nelle tenebre dell’inesistenza appena abbandonata, che si servono dell’olfatto per conoscere il mondo attorno a loro. Avevo aderito alla parete del ricovero e con le mani mi tenevo la maschera antigas. Sconvolto com’ero dalla paura e dal dolore, non avevo la forza di recare il minimo aiuto a nessuno. Se in quel momento uno solo dei nostri nemici fosse entrato nel ricovero, avrebbe avuto ragione di noi in un batter d’occhio. E noi non avremmo mosso un dito per difenderci. Ci avrebbero massacrati e noi al massimo avremmo piagnucolato come mocciosi. Qualcuno forse avrebbe ringraziato Dio per essersi finalmente sottratto al martirio.

Per fortuna l’attacco non è durato a lungo. Ma soprattutto, subito dopo ha cominciato a soffiare un vento impetuoso che ci è entrato nei polmoni fresco come acqua sorgiva richiamandoci alla vita. In breve tempo il gas tossico si è disperso e l’aria della trincea è tornata respirabile. Soltanto il punto in cui è caduto la granata piena di gas asfissiante resta ancora inavvicinabile. Le altre granate invece le abbiamo sotterrate e per completare l’opera di risanamento, abbiamo acceso dei falò servendoci di alcol solido.

Nonostante tutto molti soldati sono stati ricoverati in ospedale. Molti avevano riportato lesioni molto gravi agli occhi e ai polmoni, alcuni avevano il volto tumefatto e sputavano sangue. Altri invece avevano riportato danni al tubo digerente e le palpebre avevano aderito come una pellicola al bulbo oculare. Sei non ce l’hanno fatta e sono morti, tra cui Dimitratos Gheorghios. Quando ne ho visto il cadavere, sulle prime non l’ho riconosciuto. Aveva il volto straziato e le labbra gonfie, tanto che i peli dei baffi gli si erano rizzati come gli aculei di un istrice. Ho pensato che era riuscito a non farsi processare dalla corte marziale e che non avrebbe pronunciato mai più le sue battute cariche di cinismo. Che riposi in pace per l’eternità.

A causa di questo bombardamento, i nostri occhi sono diventati estremamente sensibili. Basta una luce un po’ più violenta per farli lacrimare in abbondanza tanto che ormai preferiamo le tenebre del ricovero come se fossimo malati di rabbia. Anche lo stomaco è sottosopra. Non riusciamo più a nutrirci di cibo solido. A malapena riusciamo a mandar giù un po’ di tè.

 

In attesa delle due e un quarto

Mia amata, questa è la notte più terribile e decisiva della mia vita. L’attacco è previsto per le due e un quarto precise del mattino. Trentamila soldati, me compreso, balzeremo fuori dalla trincea e avanzeremo pancia a terra, coraggiosi e determinati, nella notte gelida, che è un grido e una deflagrazione ininterrotta. Spezzeremo il reticolato della linea bulgara, staneremo il nemico e occuperemo la sua trincea. La nostra artiglieria ha già cominciato il bombardamento da ieri mattina alle tre. Si tratta di ben millecinquecento cannoni che sparano ininterrottamente, senza requie, con un rumore insopportabile. Mi domando che cosa rimarrà dopo un trattamento del genere. Le carni dei soldati sono molto tenere e delicate mentre le palle dei cannoni sono fatte di acciaio! Le carni dei soldati sono morbide come il pane e per ridurle a brandelli basta un piccolo frammento di bomba a mano. E ogni bomba a mano di frammenti ne possiede a migliaia. Ma la parte più vulnerabile e indifesa del soldato è il ventre. Basta pochissimo a squartarlo e a strapparne i visceri. E ogni ferita causa una morte straziante.

Oltre ai cannoni, incredibilmente mostruose e letali sono anche gli altri ordigni di morte che hanno il compito di combattere contro queste cose fragili e delicate che si chiamano soldati. Chi potrà mai far capire che domani mattina alle due e un quarto a confrontarsi non saranno trentamila greci contro trentamila bulgari ma sessantamila corpi umani delicati e indifesi contro milioni di macchine di ferro progettate per maciullarli, spezzettarli, perforarli, affettarli, bruciarli vivi, intossicarli con gas venefici. Questo è il crimine che sarà perpetrato domani mattina alle due e un quarto precise e che nessuno riuscirà a impedire. Questo è il crimine che viene perpetrato da anni e che nessuno è ancora riuscito a impedire. È da ieri mattina che i millecinquecento cannoni ci spianano il terreno per l’attacco. Questo vuol dire che ogni secondo millecinquecento granate scavano senza sosta il terreno della trincea bulgara cercando carne umana con le loro unghie di ferro. Il mondo intero trema e ne viene scosso come se migliaia di vulcani si fossero messi a vomitare lava. Ogni tanto gli spostamenti d’aria causati dai proiettili più grossi mi fanno spegnere la candela e io sono costretto a riaccenderla. Questi spostamenti d’aria sono violenti come un pugno improvviso nello stomaco. L’aria è agitata da rumori sinistri, prodotti, si direbbe, da un mostro emerso dalle viscere della terra, immane come una cortina di pioggia che abbia riempito l’aria. Un mostro inseguito da un Titano vendicatore che tiene in mano ferri roventi e lo costringe a inginocchiarsi e a piegarsi nelle tenebre facendolo gridare, gemere, minacciare e lamentarsi con le sue innumerevoli bocche tutte spalancate. Ma in realtà è tutto il creato a gemere, a sibilare e a imprecare. Le caverne sono diventate bocche che sputano grida e le forre incassate nelle rocce nude si sono spalancate simili alle fauci di un’enorme creatura che ruggisce per il dolore insopportabile. In questa notte gelida e bagnata da un nevischio sottile tutto il creato è sottoposto ai colpi di una frusta divina che si abbatte sibilando sulla groppa della Terra viva. Quest’ultima si dibatte nel tentativo di sottrarsi alle catene della legge che la tengono avvinta alle orbite del mulino celeste. Si dimena nel tentativo di liberarsi, di fuggire, folle di un terrore che ne fa fremere la crosta come se fosse pelle, mentre cerca disperatamente di tornare nel nulla del Caos primordiale, di nascondersi nell’angolo più sperduto di esso per ritrovare la calma tremando come un cucciolo bastonato.

Millecinquecento cannoni che corrono in fretta come giganteschi corpi invisibili nelle tenebre infuocate lasciandosi dietro grida feroci. Di fronte ha cominciato a eruttare un vulcano dai mille crateri. Lingue corrusche di fuoco scaturiscono dalla terra lambendo la notte. I riflettori riversano sulle trincee bulgare violente cascate di luce.

Io però ho deciso di scriverti.

Amore mio, in questi terribili, spaventosi momenti non ho che te a cui rivolgermi. Qui nel ricovero non sono da solo. Alcuni pregano, uno sta leggendo i salmi di Davide. Nessuno parla a voce alta. Forse hanno paura che i mostri di ferro là fuori si accorgano di noi. Per sentirci l’un l’altro, avviciniamo la bocca all’orecchio del nostro interlocutore, come si fa con i sordi. Siamo tutti pallidi, emaciati, come le incerate dei pescatori. Lo sguardo di tutti tradisce il terrore e l’angoscia.

Ogni volta che udiamo un colpo esploderci proprio sopra la testa, e il soffitto tremare come se ci fosse stato il terremoto, tutti smettono di scrivere, di parlare, di pregare, e alzano lo sguardo. E dopo qualche istante ricominciano. Il compagno che legge i Salmi, ogni volta che viene interrotto si fa il segno della croce.

Ieri ci hanno consegnato indumenti nuovi di zecca, dagli scarponi fino al fazzoletto azzurro che ci leghiamo intorno al collo. Si tratta di un provvedimento volto a impedire che eventuali ferite riportate durante il combattimento vadano in suppurazione a causa del contatto con indumenti sporchi. C’è da perdere la testa a pensare a queste cose. D’altro canto è piacevole indossare abiti nuovi e vivere per un po’ senza il martirio dei pidocchi. Per non parlare dell’aspetto psicologico, molto importante per uno come me, che quando si vede una macchia sugli abiti, ha la sensazione che anche l’anima si sia macchiata. I miei commilitoni invece questa storia degli indumenti nuovi la vedono diversamente. Secondo loro i nostri sono sudari, non indumenti.

Dicono proprio così: sudari. Anche il sergente furiere che ce li ha distribuiti ha usato la stessa parola.

«Li hai presi i tuoi sudari?».

Prima dei sudari, il cappellano militare ci ha distribuito anche la santa comunione perché Balafaras è un uomo assai timorato. Io la comunione non l’ho fatta. L’espressione del cappellano mi dava il voltastomaco. Recitava in fretta le preghiere, diceva qualcosa al capitano e infine immergeva in modo del tutto meccanico il cucchiaino nel calice. Non mi rassegno all’idea che questa cornacchia alcolizzata, questo invertito con il culo grosso così che si scopa il suo attendente sia da considerare un intermediario tra noi e Dio. Quale Dio accetterebbe di farsi rappresentare da un farabutto del genere?

Tutto questo per dire che la comunione impartita dal cappellano è stata una cerimonia tutt’altro che consolante. Al contrario, per quanto mi riguarda la definirei una gaffe psicologica perché la comunione è apparsa a tutti piuttosto come una estrema unzione. Anzi, in tutto questo mi pare che ci sia anche una buona dose di ipocrisia.

Il colonnello ha invitato tutti gli ufficiali a una cena che subito è stata definita “l’ultima”. Un ufficiale di complemento, che da borghese faceva il giornalista, ha battuto a macchina il seguente invito:

 

Gran ballo in maschera

Invito

Domani alle 2.15 a.m. la sig.ra Patria, famosa presso tutti i circoli mondani dei Balcani, offre agli illustri invitati a quota 386 un garden party con ballo in maschera. Riunione en garçon. Le signore sono escluse causa alcuni dei numeri in programma non adatti a un pubblico femminile. Unica eccezione le crocerossine, che saranno accolte… a festa finita. Rallegrerà la serata la musica della International Jazz Band con mille e cinquanta strumenti. Per gli invitati è vivamente consigliato uno stile adeguatamente pittoresco. Le maschere saranno forniti dal magazzino di sanità. Il buffet sarà una cannonata. A innaffiarlo sarà il famoso liquore marca Liquides enflammés. Gli astemi potranno bagnarsi il velo pendulo con i seguenti aperitivi frizzanti: Gaz asphyxiants e Gaz Lacrymogènes. Il menù sarà a base di pesce siluro catturato con la rete di filo spinato. Al posto delle posate ci saranno coltelli da trincea, saette tedesche al posto delle forchette mentre i tovaglioli saranno di seta ricavata dal paracadute dei razzi di segnalazione. Attrazioni: fuochi pirotecnici con razzi di tutti i colori per tutti i gusti. Cotillons mozzafiato. Travestimenti mirabolanti. Acrobazie senza rete e numeri straordinari come l’uomo senza testa, l’uomo che salta in aria e l’uomo mangiafiamme e mangiabaionette. Al termine della serata, prima che gli spazzatori rimettano tutto in ordine, i gentili ospiti riceveranno in dono bomboniere-ricordo contenenti confetti d’argento marca Dirompente. Ingresso libero e obbligatorio. Per gli invitati che marcano visita sono previste sanzioni severissime quali la degradazione, il deferimento alla corte marziale e la morte. Il primo brindisi sarà a cura del cappellano, che leverà il Calice della Santa Comunione. Accorrete numerosi! Ridere! Ridere! Ridere!

 

Questo testo-parodia è circolato in tutta la trincea. I soldati l’hanno trovato molto azzeccato e divertente, e hanno riso tantissimo. Ma l’umor nero che lo caratterizzava ha lasciato in ciascuno un retrogusto amaro, un presentimento di morte. Quanti di noi, domani, saranno ancora vivi e quanti invece saranno sepolti sotto un metro di terra? E io? Ci sarò, io? Perché anche io potrei morire, domani.

Tutti continuano a guardare l’orologio o a chiedere l’ora. Le lancette ruotano senza sosta sul quadrante a passettini brevi ma costanti, dirette verso la tappa finale: le due e un quarto.

Per quante migliaia di uomini questa sarà l’ora della morte? Nessuno può dirlo con sicurezza e nessuno pensa che sia giunta la sua ora. Così come nessun parente, nessuna madre, nessuna fidanzata, nessun figlio o moglie dei soldati pensano che alle due e un quarto potrebbero trovarsi con un morto un famiglia. L’unica certezza è che la morte, stasera, sta in agguato dietro migliaia di porte chiuse serenamente nella notte, in attesa che il portalettere arrivi con le cartoline azzurre del Fronte, che ogni tanto fanno la loro comparsa come uccellini allegri: “Distretto postale 999. Sto bene, lo stesso spero di voi”. Le case dei soldati stanno in piedi nel buio e guardano anche loro l’orologio del campanile con le lancette luminose. Aspettano le due un quarto perché alle due e un quarto precise migliaia di sveglie suoneranno all’unisono dentro migliaia di case. E non sarà il portalettere con gli uccelli azzurri del Fronte.

D’altro canto io non ho alcuno di quei presentimenti che, a quanto si dice, hanno spesso coloro che sono in procinto di morire. Mi sembra impossibile che morirò in guerra. Sono sopravvissuto anche alle battaglie del 1912 e del 1913, e neanche allora mi sono stupito. Forse è perché mi sembra assurdo pensare che un bel giorno potrei smettere per sempre, per tutta l’eternità, di scrivere, nuotare, correre, amare, soffrire, odiare e immaginare tutte le cose belle e struggenti che riempiono la mia anima di felicità, di orgoglio e di una fame di vita tale che a volte a stento mi trattengo dal prorompere in un grido di gioia irrefrenabile e assoluta.

Oltre la linea di filo spinato, di fronte a noi, sul lato sinistro della nostra trincea, si trova una fossa grande e poco profonda, piena di cadaveri francesi, bulgari e tedeschi. Ogni due o tre giorni, nottetempo, una squadra di lavoro esce per gettarvi sopra un po’ di terra. Poi, la mattina dopo, l’artiglieria bulgara li disseppellisce e tutto torna come prima. Solo che quando il vento soffia verso di noi, il lezzo proveniente dalla fossa è un vero martirio, che ci entra dentro nei polmoni e nello stomaco. Ai soldati vengono i conati si vomito. Quando i bulgari cominciano a bombardare, dalla fossa balzano in aria tronconi di braccia simili a rami secchi di fico. Altre volte si vedono teste scuoiate e con gli occhi penzoloni sulle guance, riversatisi, si direbbe, assieme alle lacrime, che guardano la nostra trincea assorti e immobili. Ci sono anche pezzi di gamba con tanto di scarponi, che sono la cosa più difficile, se non impossibile, da seppellire. Quando le granate scoppiano, non c’è verso che gli scarponi non sussultino e sembra che si mettano a menare calci a destra e a manca. Una notte abbiamo persino appeso degli avvisi al filo spinato bulgaro per dirgli di smetterla di bombardare da quella parte. Quelli però se ne sono infischiati altamente.

Ebbene, ogni volta che sono stato di vedetta e ho assistito a questo spettacolo, non sono mai riuscito a rassegnarmi all’idea che anche un mio braccio, magari quello con la mano che ti sta scrivendo in questo momento, o la mia testa, quella che sta pensando a te, potrebbero fare la stessa fine. No, mi sembra impossibile. Ho la sensazione di godere di una immunità particolare, di cui non gode nessun altro.

Stasera molti soldati hanno deciso di scrivere lettere di addio. Altri invece hanno affidato i propri effetti personali alla tesoreria della Divisione. E quasi tutti sono raccolti in preghiera. Quelli che pregano apertamente, come il soldato che sta recitando i salmi e si segna ogni volta che sente un’esplosione, non sono molti. La maggior parte si vergogna e finge soltanto di pensare. Ma che stiano pregando si capisce subito. Hanno gli occhi socchiusi, l’espressione assente e l’espressione commossa, e a prima vista comica, di coloro che si rivolgono a Dio come se Dio potesse davvero sentirli. Basta guardarli per capire che Gli stanno raccontando tutte le loro miserie private.

Uno in particolare, anche di lui di Lesbo, da giorni ha mangiato tutte le vettovaglie di riserva contenute nello zaino e nello spazio così ricavato ha riposto un grosso libro del Vecchio Testamento. Il suo modo di pregare, ad alta voce, che mi dà ai nervi. Neanche stesse parlando al telefono con Dio. Hallo! Hallo! Questo soldato ha un paio di labbra molto grosse e denti ancora più grossi. A questo proposito una volta Gigantis ha osservato che quelle labbra, sebbene fossero le labbra più grandi che avesse mai visto, rispetto ai denti sembravano piccolissime. Questo soldato, dunque, mentre prega si sbircia intorno come un fariseo e questo è l’unico istante in cui le labbra sembra che riescano a coprirgli i denti. Ma purtroppo ben presto le due labbra si schiudono di nuovo.

Nei momenti critici della guerra io non ho mai sentito il bisogno di pregare. Forse perché i monologhi non mi piacciono. Preferisco parlare con te, amore mio. Se esiste un Dio dell’Amore, tu ne sei la creatura più preziosa. Nei momenti cruciali della mia vita in trincea è a te che mi rivolgo. E quando sento il bisogno di inondare di luce le tenebre della mia anima, cerco di rievocare con la forza della fantasia tutti i momenti più belli del nostro amore a Lesbo. Chiudo gli occhi e dico:

«Rieccomi finalmente a Lesbo. Là, accanto al mare, ecco le adorate betulle del Giardino Comunale! Belle come sempre, ciarliere come sempre e come sempre coperte di polvere. Ed ecco le strade. È estate. Ah, a Lesbo è sempre estate. È estate, è notte fonda e c’è la luna piena. E sto tornando a casa da te, amore mio. La città è immersa nel sonno, le viuzze dormono nel silenzio. Si ode soltanto l’eco sonnacchiosa dei miei passi. Nelle notti di luna piena adoro passeggiare da solo per la città addormentata. Ho la sensazione di riuscire a comunicare meglio e più in profondità con gli alberi, le navi, i lampioni, le fontane e le case che costeggiano la strada e che mi osservano mentre cammino accanto a loro. Di notte tutto sembra più cordiale. Ma quando il sole spunta e la città si sveglia, la città si chiude subito in se stessa. È come se la luce e le strade affollate la intimidissero. Stanotte però è di nuovo notte, è di nuovo estate, c’è di nuovo la luna piena e sono solo a udire i miei passi lungo la strada. E sto tornando da te… A casa…

»Hop-là! Il cuore mi sfarfalla di gioia. Mi viene voglia di cantare una canzone, ma la canto in cuor mio per non richiamare l’attenzione dei gendarmi. Infatti “dopo le dieci di sera in città è vietato cantare e suonare”. Quando si è felici si è sempre assai ligi al dovere! Per questo canto dentro il mio cuore. Un canto veloce e pimpante che scandisce i miei passi. Simile a una marcia trionfale. Dentro di me arrivo quasi a gridare. Il gendarme non sente niente. Soltanto io la sento. Mi rendo conto di violare la legge e sorrido nel mio cuore accorgendomi che il gendarme non si è accorto di niente.

Le case sorgono serene a destra e a sinistra. Sono alte, silenziose e soddisfatte. Vegliano con i loro tetti sulle famiglie immerse nel sonno, sulle coppie che fanno l’amore. Sugli amici e sui nemici. Proteggono gli occupanti con i loro muri spessi e solidi, e le porte chiuse a doppia mandata.

La vita segreta delle case ha inizio appena gli occupanti vanno a dormire. Le case sono orgogliose del fatto che se ne prendono cura. Certe casette basse hanno i tetti piatti e allungati come ali. All’interno si ode un pianto stizzito di infanti. Queste case assomigliano a chiocce. Poi ci sono le case che si prendono cura di persone ammalate come se fossero infermiere. Mettono a tacere ogni angolo, stanno attente a non far cigolare le porte quando si aprono, tengono le finestre ben chiuse per evitare che l’ammalato si prenda un colpo d’aria. Stasera tutte le case mi guardano con amore, con le finestre e i lucernari rotondi, e mi indicano alle case di fronte come se dicessero:

‘Ecco il nostro amico! Eccolo diretto a casa della sua fidanzata!’.

Mi verrebbe voglia di togliermi il cappello – in testa ho un cappello vero – e di salutarle tutte una per una. Quella verde (ma guarda, ti hanno appena riverniciato lo stipite), quella beige con la grande buganvilla viola che ha riempito con i suoi fiori l’intero muro di cinta. Quella piccola e carina che sembra una casa di bambola, con la pergola simile a un grembiale verde, e quella stretta e alta, vecchio stile, con il loggiato in rovina. E poi quella ridotta a un mucchio di ruderi appoggiati a due colonne simili a due stampelle, con la fontanella che continua a scorrere accanto alla porta d’ingresso. Ogni volta che ti vedo, ho sempre la sensazione che tu sia come quei vecchi rimbambiti e incontinenti che circolano nel quartiere.

Ed ecco il primo lampione della strada dove abiti tu! Si tratta di un lampione a petrolio che sbuffa sempre un sacco di fumo. Sembra pure un po’ curvo e non smette mai di sbuffare nonostante i graffianti articoli del tuo vicino giornalista, che ogni sera torna a casa ubriaco fradicio.

Poi c’è la grande fontana che notte e giorno riversa l’acqua dentro una vasca di pietra. Non è strana una fontana la cui acqua scorre in continuazione, anche di notte, pur sapendo che non c’è nessuno a sentirla? Forse il suo melodioso gorgoglio è destinato soltanto alle case capaci di ascoltarlo. O ai cani randagi che si fermano a bere. In ogni caso bisognerebbe che qualcuno la ringraziasse nello stesso linguaggio rinfrescante con cui esprime il suo canto. Ma come si fa?

Ed ecco finalmente la tua casa!

Il terrazzino dove ci appartiamo, lontano dagli occhi indiscreti delle tue sorelle. La tua stanzetta con le tendine bianche abbassate. In questo momento stai dormendo. Dormi in pace, amore mio. Domattina ti attende la fatica quotidiana del lavoro. Non ho intenzione di disturbarti. Continuerò per la mia strada, raggiungerò il molo dove sono attraccate e dondolano a pelo dell’acqua le barche. Portano nomi di fanciulla e le conosco tutte una per una. Sono tutte bianche, tranne una che è beige. La “Pipina”.

Stasera la distesa del mare è tranquilla, ma non sta dormendo. La distesa del mare non dorme mai. Non si riposa mai. Ride, danza, si specchia nelle sue stesse acque, indossa broccati purpurei o viola, panni di seta color argento, scialli color oro o candide pellicce. Si spoglia e agita nell’aria i veli. Si riempie di sciami di farfalle d’argento, getta in aria manciate di monete d’oro, sogna, vagheggia con nostalgia, serba la verginità, veste abiti da sposa, si dimena come una menade in calore, porge le mammelle gonfie verso il cielo, lo titilla con i capezzoli, è colta da una foia incontenibile. Poi ridiventa il sogno azzurro di una fanciulla acerba, declama sonetti lirici celebranti la castità, si cinge di una coroncina di perle e sogna a occhi aperti. Per poi sentirsi afflitta dal tedio tipico dell’innocenza. Allora si stiracchia, sbadiglia, danza sulle punte come una ballerina con il tutù, indossa candidi pizzi e sgargianti paillettes.

A volte la distesa del mare è agitata benché in apparenza sia calmissima. Ma a ben guardare i reconditi recessi sono gonfi e si dirigono senza far rumore e senza fretta, con solenne magnificenza, verso levante. Allora mi torna in mente un versetto delle Scritture: il mare procede!

Se fosse giorno, mi spoglierei sotto il sole e mi tufferei nell’azzurro. (Quando la superficie del mare è così immobile e cristallina, e mi tuffo a testa in giù dall’alto, ho la sensazione di tuffarmi nel cielo azzurro.) Mi tufferei e poi mi lascerei asciugare, mi sdraierei e chiuderei gli occhi, con le mani intrecciate dietro la nuca, e mi lascerei inondare il corpo e l’anima d’acqua e di sole. Hai mai provato il piacere di abbandonare il tuo corpo al dominio del mare e del sole? La distesa del mare è tiepida e ti culla sul suo seno come una donna, con un ritmo erotico. In questi momenti non sei molto diverso da un’alga o da una pigna caduta nell’acqua salata, che diventa un tutt’uno con essa galleggiando come una boa di pescatori. L’acqua ti dondola, ti porta qua e là, e infine ti depone con delicatezza sulla spiaggia.

Adesso però è notte e io sono qui da solo a camminare sul molo. Da un lato il mare e dall’altro il bosco di pini. La luna sparge il suo chiarore copioso sia sull’acqua sia sulla terraferma. La luna ha riempito il mare. Gli scogli di Fykiòtrypa somigliano sempre a un enorme ranocchio, uno di quei ranocchi che balzarono sulla terraferma all’epoca in cui essa era ancora dominata da alberi giganteschi e i rettili mostruosi strisciavano nelle paludi. Una volta un ranocchio del genere decise di uscire dal fango per gracidare attonito alla grande Luna. Il ranocchio si pietrificò, forse per la paura causatagli dalla formidabile vista della luna rossa incollata sul dorso del cielo come una macchia vermiglia di sangue. Quel ranocchio adesso si chiama Fykiòtrypa e vi abbiamo costruito sopra un faro altissimo. Ma se un giorno, Dio non voglia, il ranocchio dovesse tornare di carne, è certo che sia il faro sia il guardiano sia la moglie del guardiano e i loro figli adesso placidamente addormentati precipiteranno tutti in mare.

Poco lontano il vecchio castello con la sagoma dentata sembra dipinto con rossetto nero sulla tela indaco del cielo. I vecchi cannoni di bronzo giacciono sul dorso, con i blasoni dei crociati e gli arabeschi votivi dei sultani turchi. Sugli spalti i lancieri dei Gatteluso, i caparbi genovesi, non si aggirano più con gli elmi di ferro in testa e gli alabardieri hanno deposto le alabarde in terra per addormentarsi nei secoli dei secoli.

Il castello ha un tozzo torrione piantato dentro il mare. Pende da un lato ma è ancora tutto intero. Somiglia a un guerriero titanico con tanto di armatura, che si sia inginocchiato per allacciarsi i sandali.

Stanotte intorno al torrione si aggira un caicco da pesca. Benché non si vedano, dietro forse ce ne sono anche altri. Il caicco gioca a rimpiattino con l’ombra gettata dal torrione e con il chiaro di luna. I pescatori ci danno dentro con i remi e accompagnano il movimento con il battito ritmico dei talloni sugli assi di legno della prua. Du-dup! Du-dup! Du-dup! I pesci spaventati dal rumore si dirigono verso le reti. Lo sciabordio dei remi rimbalza sul torrione per poi precipitare sordo nell’acqua. Io intanto sono qui a guardare compiaciuto il pescatore che si aggira nella notte sulla superficie vivace dell’acqua per catturare i pesci dentro il cono d’ombra del torrione di un vecchio castello abbandonato, che si stupisce di non essere ancora crollato e di sorgere ancora, dopo lunghi secoli, dentro il mare. Il tutto in accordo perfetto con lo spirito fresco della natura circostante.

Prendo un ciottolo e lo lancio nell’acqua. Poco dopo sento la risposta del mare che fa ciuf!

Torno sui miei passi e decido di attraversare il bosco. Il sentiero è morbido, i piedi affondano dolcemente nell’erba. Quest’anno è caduta pioggia in abbondanza e la vegetazione è lussureggiante. Le scarpe si inzuppano di umidità. Mentre cammino, sento lo scrocchio dell’erba calpestata e il forte aroma che emana. A un tratto una brezza salmastra di mare comincia a soffiare con delicatezza in mezzo ai pini. Ben presto il fruscìo sommesso si trasforma in un soffio piacevole, imponente. Innumerevoli applausi si sentono giungere da lontano, da un teatro all’aperto enorme e invisibile. Gli aghi di pino filtrano la luce spettrale della luna. In sottofondo continua a sentirsi lo sciabordio sordo del pescatore. Du-dup! Du-dup!

 

Qualcuno grida all’ingresso della galleria sotterranea.

«Largo, fate largo!».

Tutti interrompono il lavoro e corrono a vedere. Il sergente di servizio accende la torcia elettrica puntandola sulla scala del ricovero. Due soldati trasportano di peso un ferito tenendolo per le gambe e sotto le ascelle. Chiedono che gli si faccia strada. Un infermiere corre con una barella e fanno sdraiare il ferito. Si tratta di un esploratore. Gli tolgono l’elmetto, gli sbottonano la casacca. Qualcuno avvicina il tavolo con la lampada ad acetilene alla barella. La giubba e la casacca sono imbrattati di sangue. L’infermiere cerca di slacciargli il bottone centrale facendolo gridare per il dolore.

È Giacobbe. Il povero Giacobbe. L’infermiere prepara l’ovatta e le bende. Gli sfiliamo la divisa con gesti cauti e delicati perché le fibre strappate sono diventate tutt’uno con le sue budella. Un proiettile grosso come un bullone gli ha spappolato il ventre, deturpato orribilmente da una ferita vermiglia da cui fuoriescono il tubo intestinale e fiumi di sangue fino ai genitali. L’infermiere non sa che cosa fare. Il capitano ordina di chiamare il medico e un soldato corre al telefono.

A un tratto Giacobbe smette di rantolare. Le sue ciglia bionde si immobilizzano e la mano destra, stretta al bordo della barella, si rilassa. Giacobbe è morto.

La luce artificiale fa sembrare bianco come la calce il viso del nostro compagno. Adesso che lui è morto, la pelle squarciata del suo ventre sembra ancora più orribile. Non ha niente a che vedere con lo Giacobbe che conoscevamo da vivo. Lo spogliano completamente di tutto quello che ha addosso per evitare che se ne approprino i barellieri e lo preparano per rimandarlo dai suoi.

Gli sfilano l’orologio da polso d’oro, che continua a ticchettare, ignaro della sorte del suo proprietario, tra le mani del capitano.

Mi fa uno strano effetto questo orologio che funziona ancora sebbene il suo proprietario abbia smesso di vivere. Se non ci fosse da piangere, verrebbe quasi da ridere.

Un soldato tiene lo sguardo fisso sul cadavere. È un ragazzone robusto e peloso, e si pulisce il naso con il dorso della mano, priva di un dito. Si chiama Gheorgalàs. Ha gli occhi rossi e lunghi baffoni frementi di commozione. A un tratto si accascia per terra, accanto alla barella, e scoppia in un pianto disperato e inconsolabile.

«Perdonami, che Dio ti perdoni e perdoni anche me, perdonami!».

Il capitano lo aiuta a rialzarsi. Lo annusa disgustato poi chiede al sergente:

«Chi è che lo ha fatto ancora ubriacare questo mascalzone?».

 

In questo momento vorrei essere da te, vorrei tornare da te, a Lesbo, per riempirmi di forza e di bellezza il cuore sconvolto. È sera e sto per venire da te, amore mio. La guerra è finita. C’è il chiaro di luna, è estate e io sto per venire da te. La luna inonda di luce la strada lastricata di marmo luccicante. Il rumore dei tacchi rimbalza sulla salita. Tu lo sai che sono io e apri la porta ancor prima che io bussi. Il cuore mi sobbalza nel petto di dolcezza e di gioia. La tua vecchia madre sta per andare a dormire mentre tua cugina Tzelika ci sorveglierà tutta la serata con i suoi occhi sfarfallanti e ingenui. Ma soltanto in apparenza perché Tzelika sa quando deve chiudere un occhio. Cosa che rende a situazione ancora più piacevole.

Per mandarla in cucina e restare un po’ per conto nostro, le chiederemo di prepararci un tè e lei risponderà che sì, molto volentieri. Il fornello portatile è proprio lì nel tinello e non occorre neppure che vada in cucina.

Allora io le chiederò di raccontare la storia del tuo maestro di chitarra, che era cieco e ti faceva una corte spietata, e quando veniva a casa vostra, restava anche dopo la fine della lezione e voi non sapevate come liberarvene. Il clou della narrazione è quando il povero maestro unendo la sua voce tremolante alla tua dice:

«Oh, madamigella, come vorrei essere il vostro accompagnatore per tutto il resto della vostra vita».

Tua cugina farà una sosta, convinta che io scoppierò a ridere. E invece no. Spalancherà gli occhi stupefatti e si accorgerà del nostro scambio di sguardi. Saremo felici, estatici di amore e di desiderio, oltre il tempo e lo spazio. Allora la nostra brava Tzelika capirà finalmente che le sue chiacchiere sono un monologo privo di ascoltatori e con affettato disappunto si affretterà alla conclusione.

Per lui tutto era meraviglioso o molto chic. Soprattutto gli abiti che indossava lui. «Non è meravigliosa questa cravatta?», diceva e intanto se la scioglieva intrecciando penosamente le sue lunghe dita per poi riannodarsela da solo, e sempre da solo si sistemava il fiocco verde a forma di farfalla per mostrarvi che, pur essendo cieco, queste cose le sapeva fare benissimo.

«Madamigella, questo papillon è davvero molto chic, non le sembra?», domandava schiudendo la bocca in modo patetico, con le sopracciglia aggrottate e il mento sollevato come fanno di solito i ciechi. Una sera lo portaste con voi a fare una gita in barca. Lui si era messo la chitarra tra le ginocchia e a un certo punto domandò puntando i suoi occhi spenti verso il cielo:

«Stasera c’è una luna davvero molto chic, non trovate?».

No, Tzelika non mi racconterà queste cose né la storia di Anastasis, un altro dei tuoi spasimanti, e neppure altri aneddoti sul conto di altri pretendenti. Si limiterà a un gesto stizzito con la testa, si tirerà indietro sulle spalle la folta chioma castana, che un bel giorno deciderà finalmente di «raparsi a zero», per usare le sue parole, e assumendo un’espressione austera e severa pronuncerà le seguenti parole:

«Peggio per me che spreco il mio fiato e il mio tempo. Con voi due non c’è niente da fare, quando siete insieme tutti quelli che vi stanno accanto non sono più importanti della tappezzeria. Così vi annuncio che me ne starò zitta e buona a compiere il mio dovere di sentinella fino a quando il signore qui presente non si degnerà di liberarci dalla sua presenza».

«Suvvia, cuginetta, per quanto ti ci provi, il ruolo di cattiva proprio non ti si addice!».

«Davvero? Non mettermi alla prova. In ogni caso se ne avete ancora per molto, sappiate che sono stanca di fare la bella statuina».

«Pietà, generalessa Tzelika, pietà! Ogni vostro desiderio è un ordine, diteci e verrete esaudita!».

«Finalmente ci intendiamo. Perché non ci fai sentire una di quelle belle poesie che recitate per conto vostro quando siete di buo umore? Così il signore qui potrà prendersi una pausa e dedicarsi al suo piattino di mandorle».

Allora i tuoi occhi mi domanderanno che cosa preferirei sentire e io risponderò la “Preghiera all’Amore” di Kostìs Palamàs.

Tu arrossirai, rivolgerai uno sguardo supplice a tua cugina sperando di ottenerne aiuto. Lei però smetterà di mangiare e ti inviterà ad accontentarmi, pur sapendo che recitare questa poesia ti turba, soprattutto quando ci sono io, cosicché ti rassegni ma i versi li snoccioli uno dietro l’altro, a gran velocità, per far finire al più presto questo martirio. Al termine mi stringi la mano. Io scorgo i tuoi occhi lucidi e il tremore impercettibile delle labbra.

Allora a parlare è tua cugina, che nel frattempo ha preso in mano la chitarra.

«Voi innamorati siete tutti uguali». (Intanto pizzica una corda con il dito e si sente un tin!). «Nel senso che a guardarvi da fuori, se non si è innamorati, sembrate davvero ridicoli».

«Questo lo so già, cugina. Ma tu, tu, hai deciso di non innamorarti mai?».

Tzelika ridiventa seria e risponde in un filo di voce, con sincerità:

«Non è di me che stiamo parlando». Si interrompe poi continua guardandomi: «Su, adesso tocca a voi. Vi andrebbe di raccontarci qualcosa? Magari una storia strana? Vado matta per le storie strane. E non poesie, mi raccomando. Ad affliggerci c’è già la cugina».

Amore mio, e adesso che cosa le racconto? Forse potrei raccontarle una storia di guerra, un sogno che ho fatto di giorno (visto che di notte non si dormiva, in trincea) mentre ero immerso nel fango? Potrei raccontarle il sogno che ho fatto la scorsa notte e da cui ancora non mi sono ripreso.

Ecco il sogno, Tzelika, visto che ci tieni tanto.

Ero stato di sentinella tutta la notte e comandavo una pattuglia di quindici soldati. In vista dell’attacco ci avevano affidato il compito di assemblare i pezzi delle bombe a mano. Davanti a noi avevamo due casse: in una c’erano i gusci di ferro, simili al dorso di una tartaruga, e nell’altra i detonatori. I gusci di ferro andavano riempiti con una miscela esplosiva densa e gialla formata da polvere pirica e olio di ricino, che esplode soltanto con l’apposito detonatore al mercurio. Si prende il guscio con la sinistra, lo si riempie di miscela, poi, attraverso il foro di apertura, con la destra si immerge un bastoncino nella miscela e si fa spazio per il detonatore, che va maneggiato con estrema cautela. Poi si leva il bastoncino e sempre utilizzando la mano destra, si prende un detonatore e lo si avvita sulla bomba a mano. A questo punto la bomba è pronta e la si mette da parte. Questo è quello che abbiamo fatto ieri notte, tutta la notte, e io ero il responsabile. La mattina, stanco morto e con i nervi a pezzi a causa della tensione nervosa, sono crollato e il sonno è arrivato in men che non si dica.

Mi trovai in un altro settore, sulla cima di un monte davanti al Pelister. C’era il sole ed era una giornata splendida. Noi, una decina tra sottufficiali e soldati, ci godevamo la luce e il calore sospesi su uno spuntone di roccia sospeso sulla forra incassata tra le pareti della montagna. Questo spuntone noi di Lesbo lo chiamavamo Fykiòtrypa a causa della somiglianza con il promontorio della nostra isola. Sembrava che non fossimo in guerra e che non corressimo alcun pericolo a stare su quel promontorio in pieno giorno, alla luce del sole ed esposti alla vista di tutti. La piramide del Pelister era inondata di sole. I cedri profumavano, i boschi sussurravano come il mare e sotto le nostre gambe penzolanti sopra l’abisso verde della forra, scorreva fragoroso e gioioso il Dragor. Eravamo testimoni di uno degli spettacoli naturali più straordinari a cui si possa assistere: la burrasca bianca. All’inizio era soltanto una nube di bambagia che scivolava leggera dalle vette del Pelister per abbeverarsi al fiume. Mentre scendeva, la nube si ingrossava, ingrossava il ventre bianco fino a riempire la vallata intera e infine si trasformava in un candido mare, in una massa d’acqua che continuava a espandersi fino a inondare tutto quanto. La sua spuma lattiginosa aveva coperto i vigneti, aveva travolto le campagne, aveva soffocato le casupole diroccate di Majarevo, il villaggio che si trovava in mezzo alle due linee. Il Pelister era diventato un’isola verde che galleggiava sopra questo mare bianco mentre il sole al tramonto declinava verso la superficie morbida.

La burrasca si fermò alla base dello scoglio di Fykiòtrypa. Sotto i piedi ne vedevamo la distesa bianca e schiumosa come la panna, così invitante che veniva voglia di tuffarcisi dentro. La burrasca bianca però non si limitò a inondare la vallata. Essa si espanse a perdita d’occhio, fino all’orizzonte diventando uno sterminato oceano di latte riversatosi dai secchi del cielo. In questo mare sordo e muto, soltanto una grande isola emergeva, la vetta del Pelister, e la Fykiòtrypa, lo svoglio su cui ci trovavamo noi, isolati dal resto del mondo. Il sole continuava la sua marcia verso la notte, giallo come una moneta d’oro.

Quando superò la linea dell’orizzonte, nell’aria rimase soltanto una fosca penombra che costringeva ad aguzzare gli occhi per vederci meglio. A un tratto il creato fu avvolto da un silenzio spaventoso, assai simile a un fremito. In breve tempi fummo avvolti in una cappa di silenzio. Poi a poco a poco, piano piano, una sensazione indefinibile, insinuante come l’angoscia cominciò a vibrare nell’aria fino a riempirla tutta. Il creato trattenne il respiro in attesa dell’evento strarodinario in procinto di accadere, e lo spasimo dell’attesa penetrava nelle carni come un oggetto appuntito. “Sta per succedere qualcosa di terribile”. Questo era quello che pensavo e nel cuore mi sentivo uno spiacevole formicolio. Così rivolsi uno sguardo interrogativo ai miei compagni.

Mi voltai a sinistra, mi voltai a destra ma dei miei compagni non c’era traccia. Provai una stretta al cuore.

“Quei farabutti mi hanno lasciato solo!”, ho pensato ma non credevo che se ne fossero andati davvero. Così cercai di farmi coraggio. Ben presto l’attesa divenne ancora più intensa e dolorosa. Com’era possibile che in quel silenzio ovattato si muovessero forze tanto soverchie? Intanto dal mio corpo e da tutto me stesso prorompeva una supplica accorata: che accadesse finalmente quello che doveva accadere, qualsiasi cosa fosse! Guardai il cielo senza stelle, coperto appena da una nuvola grigia. Sembrava una comunissima nuvola grigia ma avevo la sensazione che dovessi tenerla d’occhio. Anche il creato mi pareva che volesse tenerla d’occhio. Il vento, il Pelister, la montagna, gli oceani, i boschi, gli insetti, gli alberi, i vermi, il terreno, le formiche, tutto, ma proprio tutto sapevano che là, in quella nuvola grigia, stava per compiersi l’esito della nostra attesa.

A un tratto il cuore cominciò a battermi in fretta. Qualcosa era spuntato dal cielo, proprio sotto la nuvola grigia, qualcosa che guizzava e precipitava veloce, sempre più veloce. Non tardai a rendermi conto che si trattava di una piovra gigantesca che allungava i tentacoli verso la terra. Erano tentacoli enormi, nerastri, grossi, dotati di una forza sovrannaturale, punteggiati da centinaia di ventose viscide e bianchicce. I tentacoli frugavano alla cieca nel vuoto e si attorcigliavano nell’aria. Sembravano un mucchio di serpenti ciechi che qualcuno teneva per la coda, e quelli, inferociti, si dibattevano in ogni direzione e ondeggiavano flessuosi alla ricerca di qualcosa in cui conficcare i denti, di qualcosa da stritolare nel loro abbraccio mortale.

Il mio primo istinto fu quello di mettermi a correre. Volevo andarmene, scappare, sottrarmi a quello spettacolo terrificante, ma il mio corpo pesante come il piombo non riusciva a muoversi. Non riuscivo neppure a gridare. Dalla gola non usciva nulla o se anche qualcosa usciva, io non sentivo nulla. Ero stordito, con gli occhi sbarrati fissi su quella creatura da incubo. Magari potessi gridare, pensavo, così farei uscire dal petto il terrore che mi attanaglia le membra. Intanto i tentacoli continuavano a scendere verso la terra, enormi e nerastri, fendendo l’aria con violenza.

A muoverli era una forza invincibile che agiva sotto la pelle viscida. A un tratto sfiorarono la superficie della burrasca bianca ed ebbio l’impressione che fremessero di piacere. Poi, tutti insieme, i tentacoli si immersero come altrettante braccia dentro il vapore lattiginoso raggiungendo il fondo, con impeto e voluttà. Compresi che si erano messo a frugare dentro la burrasca, nell’oscurità. Immaginai che sradicassero alberi, livellassero montagne, radessero al suolo il villaggio abbandonato, scavassero le colline…

A un tratto mi venne in mente che laggiù, alle falde del Pelister e della catena di colline che sorgeva dalla nostra parte, e per tutto lo spazio che svaniva all’orizzonte, coperto da quel mare bianco di silenzio colpevole, si trovavano le trincee e le installazioni militari: una folla di migliaia di soldati travolti dalla bambagia sorda della burrasca. Greci, francesi, turchi, bulgari, tedeschi, schiavi delle colonie. Un pensiero improvviso mi balenò in testa e mi apparve chiaro il senso di questo silenzio colpevole, ovattato, che aveva il compito di celare quanto andava accadendo dentro il suo seno.

Migliaia di esseri umani e alberi e animali innocenti, reticolati e cannoni furono avvolti come balle di fieno. Tutto si ridusse a una massa sanguinolenta che si sparse ovunque. In quel momento capii anche qual era il compito dei tentacoli rossastri, mossi da una infaticabile e inesauribile energia muscolare, che li faceva attorcigliare con la morbida flessuosità dei serpenti avvolgendosi e dispiegandosi, allungandosi e accorciandosi, stritolando e scorticando, inghiottendo e distruggendo con furore insaziabile.

Allora mi sforzai di sentire l’interno di quel silenzio bianco. Nella massa spumeggiante mi parve che si aprisse una fessura e dal fondo muto del mare sentii salire fino a me grida soffocate. Sembravano filtrate da montagne di ovatta. Erano preghiere strazianti, levate da migliaia di voci dolenti. Erano gemiti rochi, sospiri strozzati, il rantolo di povera gente assassinata, lamenti di animali e di uomini uccisi senza un motivo. Un grido penetrante che gelava il sangue nelle vene. A volte invece le grida giungevano affievolite. Erano voci di donne, di ragazzi…

 

Amore mio, per oggi mi fermo qui. Lo scopo di questo diario era soltanto quello di consolarmi con il ricordo di te e il ricordo di Lesbo. Sento il richiamo del capitano che mi ordina di prendere l’equipaggiamento e di raggiungere il mio posto. Le lancette dei minuti avanzano inesorabili, ruotano tutti insieme in migliaia di orologi, osservate da migliaia di occhi. Tra mezz’ora saranno le due e un quarto e trentamila soldati tutti insieme balzeranno fuori dalla trincea, completamente indifesi, battuti dalla pioggia di ferro e di fuoco dell’artiglieria.

Prima di lasciarti, voglio dirti che non devi stare in pena per me. Tra un paio di giorni ti scriverò i dettagli della prossima, imminente strage. Quello che avrà inizio tra mezz’ora mi riempie di sgomento e di terrore ma io già so che mi comporterò come tutti gli altri. Darò tutto me stesso per la vittoria finale e non mi sottrarrò alle mie responsabilità di sottufficiale. Alla base di tutto c’è l’amor proprio, l’orgoglio. È una cosa ridicola, lo so (in questo caso infatti l’amor proprio non è amore per se stessi), ma non riesco a resistere. Perché nessuno accetterebbe di sembrare da meno del barbiere della compagnia o del proprio commilitone. Questo vuol dire che ancora non ho imparato a dominare il mio io, questo avversario furbo e imprevedibile che conosce a menadito tutte le mie debolezze e non si mostra indulgente nei confronti di nessuna. Niente di cui stupirsi.

Per il momento, amore mio, questo è tutto. A domani! A domani!

(Qui finsicono i diari di guerra del sergente Antonis Kostulas.)