7500 AMMALATI E 366 MORTI. NEL SILENZIO I NOSTRI SOLDATI CONTINUANO A MORIRE DI URANIO IMPOVERITO.

DI ALESSIA LAUDATI    11 GIUGNO 2019

Dalla fine degli anni Novanta, soprattutto dopo aver partecipato alle missioni di peacekeeping nei Balcani, migliaia di membri dell’Esercito italiano hanno cominciato a sviluppare patologie tumorali, apparentemente per motivi inspiegabili: 366 sono morti e 7500 si sono ammalati negli ultimi due decenni, secondo i dati del centro studi Osservatorio militare. La causa presunta è l’uranio impoverito, un metallo pesante utilizzato in ambito militare per la fabbricazione di munizioni e proiettili e che può rivelarsi tossico per l’organismo umano. L’uso di proiettili e blindature all’uranio non è però vietato da nessun trattato internazionale, nonostante se ne conosca da tempo la potenziale pericolosità e in diverse occasioni le Nazioni Unite abbiano espresso preoccupazione riguardo ai rischi per militari e civili.

L’Italia ha sempre negato di aver utilizzato equipaggiamenti che lo contenessero, ma l’uranio impoverito era comunque presente nei teatri di guerra, come nei Balcani, dove operavano le forze armate italiane insieme al contingente internazionale. È noto che la Nato abbia utilizzato bombe all’uranio impoverito in Bosnia, nei raid del 1994 e del 1995, e in Kosovo nel 1999. Per spiegare la contaminazione dei nostri militari, l’ipotesi più accreditata dall’Istituto Superiore di Sanità e dalla relazione della commissione parlamentare d’inchiesta del 2006 è che l’uranio, quando colpisce determinate superfici come le corazzature dei carri armati o dei depositi di munizioni, si polverizza fino ad assumere le dimensioni di nanoparticelle. Questi corpuscoli sarebbero in grado di mescolarsi all’acqua e all’aria dei territori colpiti dai bombardamenti con munizioni all’uranio. Nel 1999, quando cominciarono a emergere dubbi sulla pericolosità dell’utilizzo dell’uranio impoverito nei teatri di guerra, l’opinione pubblica, la politica e gli attivisti di Peacelink cominciarono a chiedere maggiore vigilanza sulle missioni all’estero e risposte sull’incolumità dei militari.

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