Wars mediatiche

 

Di fronte agli orrori – da ambo le parti – lo spettatore medio vuole semplificazioni, anche perché tutti i media sanno che il 64% degli italiani (dai 16 ai 65 anni, cioè il pubblico dei social e delle televisioni) è vittima di analfabetismo funzionale, di conseguenza “coccolano” quel pubblico, il loro pubblico. Le immagini dei campi di concentramento nazisti si possono sovrapporre a quelle di Gaza (alloggi di fortuna, senza più casa, senza cibo, acqua o elettricità) manca solo il lavoro forzato, ma per la cremazione ci sono i bombardamenti…

Devo dire o recitare la formula che identifica ogni intervento possibile, cioè che si riconosce in “Chi è l’aggressore e l’aggredito?”. Già, questo è il punto di partenza della narrazione mediatica, pure diventato un “meme” sui social, poiché è la novità di questa guerra, oltre alle solite barbarie commesse su civili, donne e bambini in fuga o nelle loro case. Quasi una carta d’identità del pensiero, ripetuto ormai decine di migliaia di volte su ogni trasmissione televisiva, in grado di coprire quasi per 16-18 ore il palinsesto di tante reti. Non mi sento in colpa se molti anni fa all’università mi affascinarono Umberto Eco e Furio Colombo che insegnava “giornalismo di guerra”, eppure non l’ho seguito fino in fondo, occupandomi comunque di storia e sociologia della comunicazione degli audiovisivi. Queste guerre ci appaiono una cosa nuova perché viene espressa secondo le modalità di un gioco di ruolo, un wars game, e non c’è spazio per chi si pone domande o vuole riflettere su basi storiche (si veda la “cacciata” dagli schermi di Canfora, Rovelli, Ravelli, Cardini ecc.) così si sferza lo spettatore o il lettore sul piano dell’emotività e dell’orrore, trattato alla stregua di un film porno, dove la realtà è aumentata dal supposto potere dell’immagine, dove solo il più ingenuo scivola nell’attribuirgli uno statuto di verità. Semmai l’immagine può essere evocativa, emotiva, suggestiva, relativamente documentata, in base alle regole ristrette di ciò che è permesso dagli apparati che controllano, all’origine e sul campo, il lavoro dei reporter. Per i filmati è ancora peggio, si tratta sempre e comunque di una “messa in scena”, è la prima lettera dell’alfabeto del cinema. Le prime immagini prive di controllo furono quelle della nostra Seconda guerra di Indipendenza, poi le cose andarono sempre peggio. Nella Grande guerra, ogni esercito aveva un apparato militare che permetteva o meno di registrare immagini, nella Seconda questo sistema si amplificò, i nostri alleati avevano il Psychological Warfare Branch (traducibile come “Divisione per la guerra psicologica”; a Cassabile nel 1943 Badoglio e il sovrano firmarono la concessione e il controllo completo di ogni giornale e di ogni film fino al 1945, anno in cui le strette furono allentate, così fu per la guerra di Corea, del Vietnam, del Golfo uno e due, della Libia o di Suez, Grenada ecc. Comprendo che chi è arrivato a questo punto a leggere, chieda: “Ma da che parte stai se con riconosci l’aggressore?” Devo rispondere che prima di febbraio non è mai importato a nessuno, dalle guerre del Peloponneso, da quelle Puniche, dal “Secolo di ferro” a tutto il Settecento, dove non c’è stato anno senza guerra, e via via fino a ieri, senza mai distinguere l’aggressore o l’aggredito. In Ucraina ormai il conflitto dura da 8 anni, ma i media amano sempre e comunque solo l’escalation. E allora? – le dichiarazioni di guerra contemporanee all’istante sono sempre state difficili – viene da domandarsi semplicemente il perché di chi è titubante e non rispetta la “regola”, passi immediatamente dalla parte dell’invasore o di Putin.

Cercare le ragioni no, ciò che importa nella rappresentazione collettiva è quella di costruire la logica del tifo sportivo, di guelfi e ghibellini che hanno un impatto facile e riconoscibile, per mettere una bandierina sul tavolo. Gli inviati sul terreno per la prima volta sembrano migliaia e questa è una novità rispetto a chi nel passato da inviati (un paio di casi di quelli diventati poi direttori, celebri nell’essere stati in albergo stellato a bere champagne o in piscina perché faceva caldo) hanno raccontato il sentito dire o quanto è stato possibile raccontare, ma nell’arco di sei mesi più nessuno. Ora le uniche informazioni che vengono quotidianamente diffuse dai servizi inglesi o americani, (che per lora natura e scopo non devono mai divulgare la verità) oltre alla retorica vittoriosa degli eserciti in campo. Le aree del conflitto sono così ridotte e sottoposte a leggi marziali e propaganda.

Atto secondo: guerra tra Israele e Hamas, lo schema del “7 ottobre”, il pogrom sembra perfettamente ricalcare la logica precedente “aggredito-aggressore” che la definisce, senza interrogarsi, così i media ci vanno in fotocopia. Ampio dibattito su genocidio sì o no, su antisemitismo (dimenticando che i palestinesi sono Semiti), mettendo da parte la questione assai complessa del Sionismo, causa prima dell’antisemitismo francese e tedesco già prima del nazismo. Di fronte agli orrori – da ambo le parti – lo spettatore medio vuole semplificazioni, anche perché tutti i media sanno che il 64% degli italiani (dai 16 ai 65 anni, cioè il pubblico dei social e delle televisioni) è vittima di analfabetismo funzionale, di conseguenza “coccolano” quel pubblico, il loro pubblico. Le immagini dei campi di concentramento nazisti si possono sovrapporre a quelle di Gaza (alloggi di fortuna, senza più casa, senza cibo, acqua o elettricità) manca solo il lavoro forzato, ma per la cremazione ci sono i bombardamenti…

A questo punto, spengo la TV e aspetto che non ci sia più filtro e propaganda. Per capire ci vuole tempo e soprattutto che la guerre siano finite. È sempre stato così, ancor più oggi nel rischio di fare figure “barbine”, ma tanto la gente dimentica sempre, ogni volta che accende la lavatrice oppure la lavastoviglie.