Sesso e genere

“Genere” è diventata una parola onnipresente, pur essendo relativamente nuovo il suo impiego al di fuori della grammatica. Il suo primo uso e significato è infatti distinguere nomi, aggettivi anche verbi (in altre lingue) di genere maschile, femminile e neutro (come in latino). È solo dagli anni ‘60 che la parola “genere” viene impiegata per denominare anche i ruoli sociali dei due sessi, cioè il fatto che ciò che fanno uomini e donne, il modo in cui si comportano in famiglia, nella sfera economica governata dal denaro, nel tempo libero, e poi i loro gusti, preferenze, abiti, hobby siano profondamente diversi, ma anche disuguali. Tali diversità e disuguaglianze sono normalmente concepite e propagate in tutte le società come un dato di natura: gli uomini sono così, le donne sono diverse, e generalmente il tuo sesso determina il tuo modo di stare al mondo, perché determina i compiti che ti sono assegnati, il tuo lavoro, il tuo ruolo nella famiglia, il tutto ritenuto normale e naturale. Il “genere” in senso sociale è qualcosa che diventa evidente solo quando questi ruoli sono contestati, come hanno fatto le femministe in ogni epoca, esprimendo disaccordo su regole e limitazioni penalizzanti per le donne (dopotutto viviamo nel patriarcato).
Contro la naturalizzazione dei ruoli sociali Simone de Beauvoir affermava: “Donna non si nasce ma si diventa” ne Il secondo sesso (1949), un libro estremamente popolare. Fu attiva nelle lotte delle donne degli anni ’70, in particolare per avere la possibilità di abortire in modo legale. Allora le femministe protestavano contro i doppi standard che rendevano e rendono il ruolo di genere maschile dominante su quello femminile, volendo la scomparsa di questi ruoli: che il lavoro domestico e di riproduzione familiare e sociale sia affidato gratuitamente alle donne, che certe professioni siano riservate agli uomini, che la vita sessuale dei due sessi debba svolgersi con regole opposte: lode al Don Giovanni e biasimo alla puttana!
Oggi invece “genere” è impiegato sempre più frequentemente come sinonimo di “sesso”. Se vivesse oggi Simone de Beauvoir sarebbe costretta a specificare “Donne si diventa, ma la società ti fa diventare tale se nasci femmina”! Se il sociale cancella il substrato biologico su cui è costruito, l’equiparazione di ciò che siamo (maschi, femmine, e anche una piccola minoranza di intersessuati che hanno caratteristiche degli uni e delle altre) con i ruoli sociali che ci sono assegnati origina concetti strani come: “parità di genere”, “identità di genere”, leggi antidiscriminatorie in base al “genere”, l’omosessualità definita nei Principi di Yogyakarta come “attrazione per lo stesso genere”. Sono gli esempi più eclatanti di come utilizzare il concetto di “genere” al posto di “sesso” sia diventato controproducente per le femministe e tutti coloro che credono nell’uguaglianza tra uomini e donne, cioè nel pari valore sociale dei due sessi. Questo Volantino militante mostra in dettaglio l’assurdità e le conseguenze negative di questa confusione, già visibili nel fenomeno degli adolescenti che vogliono cambiare sesso solo perché ribelli al genere.

 

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Introduzione

Sesso e genere sono due parole liberatorie! Le rende tali lo sfondo culturale comune alle tre religioni dette del Libro, cioè la Bibbia, fonte di precetti comuni all’ebraismo, al cristianesimo e all’Islam. Le tribù del deserto discendenti da Abramo esaltavano l’ascesi – per quanto riguarda il sesso – e richiedevano – per quanto riguarda il genere – la sottomissione assoluta agli uomini delle donne, fonte di ogni male e disgrazia secondo la loro mitologia. La colpa di Eva è la giustificazione morale del trattamento diseguale riservato alle femmine, dell’inferiorizzazione sociale che – tra le altre cose – tutt’ora impedisce l’accesso femminile al sacerdozio cattolico. Eva, nata dalla costola di Adamo (Genesi 2:22) con una clamorosa inversione dei fenomeni naturali, lo istiga a disobbedire a Dio, benché lei stessa sia una donna sottomessa, al contrario della prima donna che l’aveva preceduta: infatti Dio li aveva già creati maschio e femmina al sesto giorno (Genesi 1:26-7). Lilith – questo il nome dato alla prima creatura femminile dalla esegesi ebraica che rettificava le incongruenze della Bibbia – poneva un problema simbolico di genere nel suo rifiuto di fare sesso con Adamo stando sotto di lui, e per questa disobbedienza la divinità la tramutò in un demone.
Quando Paolo di Tarso, non ancora san Paolo, portò la religione cristiana a Roma, confermò sia il messaggio di ascesi, condannando l’edonismo che permeava la vita degli antichi Romani maschi nobili o benestanti, sia quello di sottomissione delle donne ai loro mariti (I lettera ai Corinzi 11:3). Sono questi i ruoli di genere con cui tutt’ora abbiamo a che fare: dominio maschile e sottomissione femminile permeano la tradizione e la realtà in cui viviamo, benché la distanza sociale tra maschi e femmine sia diminuita nel tempo.
È stato quindi liberatorio separare il sesso dal genere, termine usato dal femminismo della seconda ondata (anni ’60 e ’70) in lingua inglese per indicare gli obblighi sociali cui le femmine – ma anche i maschi – sono sottoposte. La parola “genere” è stata usata per riuscire a parlare delle imposizioni che limitavano, e limitano, l’esistenza delle donne, che il patriarcato attribuisce alle caratteristiche naturalmente legate al sesso – sono i ruoli sociali di genere – in italiano si usava piuttosto l’espressione “ruoli sessuali”. Nei loro incontri le giovani neofemministe mettevano in discussione la presunta realizzazione personale di tutte le donne con la subordinazione devota al marito e con la maternità. Affermavano che si trattava di un modello, di un ruolo imposto niente affatto corrispondente a ciò che le donne stesse vogliono. L’aspirazione a rapporti sentimentali paritari e all’accesso al mercato del lavoro era ed è infatti assai diffusa ben oltre il movimento femminista. Il genere – dunque il ruolo sociale femminile tradizionale – è una costruzione sociale basata sul sesso: questo il messaggio femminista. È la società patriarcale a insegnare alle femmine che sono per natura servizievoli e portate al sacrificio di sé, mentre addestra i maschi all’aggressività contro le femmine e alla competizione tra loro, sempre ritenendo che si tratti di natura femminile e maschile. Per liberare le donne, per avere relazioni paritarie tra i sessi, il genere deve essere abolito, cioè attivamente contrastato e poi dimenticato, cancellato. L’espressione individuale deve subentrare al ruolo: solo così l’uguaglianza tra uomini e donne potrà essere realizzata.
Parlare oggi di “sesso” e “genere” significa però confrontarsi con un uso diverso che si fa di questi due termini nel dibattito filosofico e politico, un uso solo apparentemente ancora liberatorio, perché in realtà fa ritornare a un unico concetto, che questa volta è chiamato “genere” e non più “sesso”. L’effetto è però il medesimo della naturalizzazione del genere: si chiudono quegli spazi di libertà delle donne che il femminismo della seconda ondata aveva aperto, si irrigidiscono i ruoli sociali di maschi e femmine con il pretesto di aiutare coloro che “non sono conformi al proprio genere” – fatto però coincidere con il proprio sesso.
Questi sono i temi del volantino militante che avete tra le mani a proposito di “sex’n’gender”. La mia prospettiva è ancora quella della liberazione del sesso e della liberazione dai generi, contro l’attuale ritorno in grande stile degli stereotipi.

1. Le parole e le cose: il sesso

La parola “sesso” deriva dal latino sexus, con la stessa radice del verbo secare, cioè dividere. È quella tra maschi e femmine la divisione morfologica fondamentale degli esseri umani, finalizzata alla riproduzione della specie, dimorfismo che abbiamo in comune con la gran parte delle specie animali e vegetali del pianeta. La voce “sesso” del Vocabolario degli accademici della Crusca (1622) così recita:

Sesso. L’esser proprio del maschio, e della femmina, che distingue l’uno dall’altro. Lat. sexus. Es: “ed è quello esecrabil sesso femmineo”

Ecco, appunto. L’esempio seicentesco di uso della parola “sesso” non poteva essere che la colpa di Eva, con tutte le accessorie attribuzioni misogine di caratteristiche negative alle donne in generale[1]. Dopo altri, più accettabili, esempi il vocabolario così prosegue: “Diciamo ad amendune le parti vergognose, sì dell’huomo sì della donna”. Anche oggi “sesso” ha infatti due significati, o meglio tre: la grande partizione dell’umanità a fini riproduttivi, le parti anatomiche a questi relative per le quali siamo istruiti a provare vergogna, nonché le attività che le coinvolgono (generalmente non a fini riproduttivi), concetto più propriamente espresso oggi dalla parola “sessualità”.
Vediamole dunque, queste parti vergognose! Il pene maschile e i testicoli sono ufficialmente proibiti alla vista, ma le manifestazioni itifalliche non sono affatto scomparse con il paganesimo: ovunque spuntano falli e testicoli disegnati, palpati, mostrati alle femmine e paragonati tra maschi. Sembra di capire che la vergogna socialmente trasmessa per il proprio sesso abbia poca efficacia sui maschi. Anche la profusione di parole con cui indicare i genitali maschili è unica: per il sesso femminile scarseggiano i nomi. Rimane nascosto, così come il sapere ad esso relativo, persino a fini medici. Ancora circolano le antiche credenze deleterie, come l’equivalenza tra stato di verginità e presenza dell’imene, la membrana che drappeggia l’apertura vaginale – ma non in tutte le ragazze – e si suppone si laceri soltanto con il primo coito e con perdita di sangue. Invece normalmente è già parzialmente aperto, e un’intensa attività fisica è sufficiente ad aprirlo completamente.
Le parti sessuali maschili e femminili hanno un’origine comune e si corrispondono, sviluppandosi dal medesimo tessuto embrionale. Il glande della clitoride corrisponde a quello del pene, e corrispondono allo scroto le grandi labbra, quelle esterne, che possono anche essere molto più piccole delle “piccole labbra”. La clitoride è omologa al pene. Secondo il Vocabolario Treccani è “rudimentale” in confronto al pene[2] – chiaro esempio di come il maschile sia preso a norma. È invece il pene ad essere rudimentale quanto a sensazioni sessuali, che sono l’unica funzione della clitoride. Essa ha un numero e concentrazione di terminazioni nervose di molto superiore al suo omologo maschile, soprattutto nel glande, cioè la punta, che è ricoperta da un cappuccio o prepuzio (una piega mucosa). La clitoride non è affatto limitata a glande e asta (cioè alla sua parte anteriore) ma si estende intorno all’apertura vaginale con due radici – o crure – di tessuto erettile lungo 7-8 centimetri e attaccato alle ossa pelviche. È inoltre collegata a due bulbi del vestibolo, collocati a fianco dell’apertura vaginale. Con l’eccitazione sessuale i bulbi si erigono, si riempiono e si tendono proprio come le pareti della vagina: insieme alla clitoride sono i soli organi deputati unicamente al piacere sessuale. La risposta sessuale femminile è molto varia, ma principalmente incentrata sulla clitoride, e difficilmente le donne raggiungono l’orgasmo senza una sua stimolazione.
I futuri maschi e le future femmine nelle prime sei settimane di vita embrionale sono identici. Il corso naturale dello sviluppo è un corpo femminile: sono i geni contenuti nel cromosoma Y ad attivarsi al 36° giorno bloccando lo sviluppo femminile delle strutture e mutandole in maschili.
I caratteri sessuali primari (cioè direttamente collegati alla riproduzione) sono detti gonadi: quelli maschili sono i testicoli e quelli femminili sono le ovaie. Le gonadi producono i gameti, cioè le cellule riproduttive, e gli ormoni sessuali che differenziano morfologicamente maschi e femmine[3]. I caratteri sessuali secondari sono le altre caratteristiche sessuali che distinguono i sessi. Gli organi deputati alla riproduzione, cioè il pene, la vagina e l’utero, sono appunto caratteri sessuali secondari od “organi riproduttivi accessori”. Altri caratteri sessuali secondari sono tutte le differenze di aspetto non direttamente coinvolte nella procreazione: la voce, la barba e gli altri peli, le mammelle, la muscolatura, l’ossatura, il grasso corporeo. Lo sviluppo delle differenze sessuali è condizionato da fattori genetici e dagli ormoni, in particolare da quelli sessuali, in piccola parte prodotti dal corpo anche al di fuori delle gonadi. Gli ormoni sessuali non sono completamente distinti nei due sessi, né l’azione di androgeni e di estrogeni è limitata ai corpi rispettivamente maschili e femminili.
L’immaginario della riproduzione abbonda di equivoci ed errori. Dobbiamo abbandonare il concetto dello spermatozoo vincitore della corsa che – così come l’uomo penetra la donna – a sua volta penetra l’ovulo per formare un nuovo essere umano. In realtà l’ovulo sceglie uno degli spermatozoi che lo hanno raggiunto, inglobandolo grazie a processi biochimici sconosciuti e completamente omessi nelle varie forme di fecondazione artificiale, in particolare nell’ICSI, l’iniezione del Dna di spermatozoi inadatti alla fecondazione direttamente nel nucleo dell’ovulo. L’immagine dell’agente della penetrazione che prorompe in qualcosa che lo attende passivamente potrebbe essere completamente ribaltata anche per il coito, descrivibile ugualmente bene come un vorace sesso femminile che avvolge, ingloba, risucchia un fragile sesso maschile, appropriandosene – ma l’attività dell’ovulo è reale, non è questione di interpretazione.
Il fluido cervicale nella vagina nutre lo sperma e lo può tenere in vita fino a cinque giorni, proteggendolo da quell’ambiente acido con cui la vagina si prende benissimo cura di se stessa: non c’è affatto bisogno di “pulirla” con i prodotti dell’industria chimica. Il corpo femminile è infatti bersaglio di richieste di adeguamenti continui ed esagerati, che fanno leva sul senso di vergogna instillato per le sue funzioni fisiologiche come l’allattamento o le mestruazioni, con l’obbligo sociale di nascondere questa fase di decadimento del tessuto uterino. La vergogna per il corpo è imposta alle femmine anche dall’invadenza e dalle molestie maschili con scuse pseudosessuali – nessun uomo ha mai ottenuto favori femminili fissando parti anatomiche come le mammelle o commentandole a voce alta. In Noi e il nostro corpo si legge: “Le nostre mammelle ci rendono mammiferi. Queste ghiandole straordinarie producono latte che ha la capacità incredibile di nutrire i cervelli umani sovradimensionati e di combattere infezioni e malattie nei neonati” (Boston Women’s Health Collective 2011). Dovrebbero piuttosto essere fonte di orgoglio, a prescindere dagli standard sociali (in realtà propugnati dai mass media) di attrattività sessuale!
Si potrebbe proseguire a lungo sulla presunta inadeguatezza del corpo femminile naturale e sul suo presunto bisogno di aggiustamenti e correzioni, che vanno dalla cosmesi alla chirurgia plastica, che negli Usa – il paese con più chirurghi estetici e più operazioni praticate – viene eseguita per il 90% sulle donne.
Arriviamo infine alla nascita, con un ultimo esempio di immaginario erroneo: la posizione passiva della partoriente coricata sulla schiena e aiutata dal ginecologo o dall’ostetrica a partorire. Al contrario, il parto naturale non necessita di interventi estrattivi, e si avvale delle spinte della partoriente aiutata dalla forza di gravità, sostenendosi a persone o a cose in una posizione verticale.
La Treccani del 1994, nonché la sua versione correntemente on line, dà questa definizione:

Sesso
1. il complesso dei caratteri anatomici, morfologici, fisiologici (e negli organismi umani anche psicologici) che determinano e distinguono tra gli individui di una stessa specie, animale o vegetale, i maschi dalle femmine e viceversa [alcuni esempi]. Sotto l’aspetto biologico, la distinzione del sesso si ha soltanto negli organismi a riproduzione sessuale o gamica (la quale consiste, tipicamente, nella unione di un gamete maschile con uno femminile): il sesso maschile è caratterizzato dalla produzione di gameti piccoli e per lo più mobili (spermatozoi o spermi negli animali, microgameti nelle piante), quello femminile dalla produzione di gameti di dimensioni maggiori, talora molto cospicue, per l’accumulo di sostanze di riserva (uova negli animali, macrogameti o ovuli nelle piante). […] b. l’appartenenza di ogni singolo individuo all’una o all’altra delle due condizioni [esempi] disputare sul s. degli angeli, perdersi in discussioni sottili su problemi inconsistenti o su questioni non risolvibili. c. con valore collettivo, e con riferimento a persone, il complesso degli individui che appartengono all’uno o all’altro dei due tipi: la natural nobiltà del s. virile, cagione della prima potestà, che fu quella sopra il s. donnesco (Visco); le prerogative, i privilegi, i vantaggi del s. femminile, del s. maschile; sentire attrazione per il s. opposto, per il proprio s.; soprattutto in espressioni tradizionali ormai usate solo in tono scherz.: il s. forte, gli uomini; il s. debole o, galantemente, il bel s., il gentil s., le donne. Di uso più recente, il terzo s., gli ermafroditi, o anche, talora, gli omosessuali (la locuz. è esemplata sul fr. troisième sexe, coniata in origine per indicare le donne di comportamento mascolino).
2. letter. l’apparato sessuale, cioè gli organi della riproduzione, e più in partic. l’organo genitale esterno, maschile o femminile [esempi].
3. i fatti e i fenomeni legati agli organi della riproduzione, soprattutto per ciò che riguarda i rapporti sessuali e più genericamente. La vita sessuale, la sessualità [esempi].

Affrontiamo subito quella che è l’obiezione postmoderna a questa descrizione anatomica, morfologica, fisiologica dei due sessi (quanto agli aspetti psicologici, ci torneremo). Esistono infatti persone che non sono nettamente maschi o femmine a causa di anomalie, o disordini, dello sviluppo sessuale (non sempre visibili). Anticamente erano chiamate “ermafroditi”, oggi la parola usata è “intersessuali/interessuati”, e in inglese si preferisce addirittura chiamarli “persone con disordini dello sviluppo sessuale” perché tutte le altre espressioni sarebbero stigmatizzanti.
Le teorie postmoderne che pretendono di “decostruire” i concetti, tra cui quello biologico di “sesso”, usano l’intersessualità per smentire il dimorfismo sessuale umano. La biologa Anne Fausto-Sterling ad esempio afferma che esistono almeno cinque sessi – i tre aggiuntivi essendo forme di intersessualità. Molti altri, non biologi, collocano i sessi su un continuum, con il maschio “puro” e la femmina “pura” come polarità di infinite gradazioni intermedie. Ma né Fausto-Sterling né i teorici del continuum possono riconciliare la loro inedita visione con il fatto che i gameti sono solo di due tipi, o maschili o femminili, e hanno una precisa funzione riproduttiva ed evolutiva.
Questa nuova (o errata) visione potrà farsi strada nella cultura (dubito che ciò avverrà in biologia) solo cancellando i significati delle parole che da molto tempo usiamo. “Sesso”, in breve, è l’apparato che produce i gameti maschili e femminili necessari alla procreazione. Possiamo anche decidere di chiamare “sesso” qualcosa di diverso, tuttavia le parole rimangono strumenti utili per nominare le cose, e se assegniamo un significato diverso da quello originario alla parola “sesso”, dovremo allora trovare un’altra parola per dare un nome allo stesso fenomeno, che rimane immodificato. Meglio dunque rifiutare le innovazioni linguistiche che creano confusione, mantenendo il significato originario di tutte le parole che sono necessarie alla comprensione di fenomeni naturali[4].
E che cosa vogliono poi gli intersessuati? Chiedono rispetto per i propri corpi, che dal dopoguerra sono invece sottoposti di routine ad adeguamenti “estetici” fin da neonati, normalizzati con operazioni dolorose per avvicinarli a un aspetto genitale maschile o femminile – più spesso quest’ultimo perché è più facile togliere un pene “inadeguato” che aggiungerne uno. Tuttavia gli intersessuati organizzati nell’ISNA ritengono un’ulteriore stigmatizzazione il marchio come terzo sesso sui documenti (né tantomeno ne auspicano un quarto o quinto). Vogliono piuttosto essere normalmente iscritti alle anagrafi come maschi o femmine a seconda del sesso a cui assomigliano di più, ma senza alcuno snaturamento dei loro genitali: le operazioni sono rischiose e possono diminuire la capacità di provare piacere. Invece in Germania l’associazione di intersessuati Dritte Option ha ottenuto l’inserimento di un terzo sesso nei certificati di nascita di coloro che da adulti lo desiderano. Sono state approvate opzioni simili negli Stati Uniti: “nonbinary” o campo vuoto in California, “X” nell’Oregon, “neutrale” nel New Jersey, “X” a New York. Anche l’Ontario canadese ha introdotto una terza opzione sui certificati di nascita, mentre la Tasmania australiana permette di non indicarvi il sesso – che generalmente sui documenti in lingua inglese è chiamato “genere”.
Alcuni genitori vorrebbero barrare la casella “X” per nascondere il sesso del proprio neonato, non volendo sottoporre i propri figli agli stereotipi di genere: “Se la gente non conosce il sesso di Zoomer, non possono trattarlo come un maschio o una femmina, ma piuttosto come l* straordinari* ragazzin* che loro sono, e fare esperienza di una prima infanzia libera da stereotipi”. In inglese è più facile mantenere l’ambiguità del genere grammaticale (che in italiano si può rendere con l’asterisco) tranne quando si arriva a usare un pronome personale – per questo i genitori di Zoomer ne parlano al plurale, dove la loro lingua non distingue il maschile dal femminile. Vogliono che Zoomer non sia sottoposto agli stereotipi di genere nascondendo il suo sesso – che però esiste ed è chiaramente visibile, soprattutto nella prima infanzia in cui si necessita di cure intime da parte di altri. La terza opzione offerta riguarda però i certificati di nascita di persone adulte che documentano di avere caratteristiche sessuali intermedie. Il caso dei genitori di Zoomer non è contemplato perché la loro soluzione alla pervasività del genere non sembra ragionevole, soprattutto il nascondere allo stesso bambin* la sua identificazione sessuale. Il Dipartimento della salute di New York ha anzi esplicitamente negato che il “terzo genere” sui documenti possa essere una decisione presa dai genitori, a causa della prevedibile stigmatizzazione futura cui un neonato non può evidentemente consentire – questo il suggerimento, accolto, del gruppo di intersessuati InterAct.

2. Le parole e le cose: il genere

Il Vocabolario degli accademici della Crusca così definisce la parola:

Genere Secondo i Loici [logici], quel, che comprende sotto di sé le spezie [le specie]. Lat. genus. Gr. γένος [esempi] E GENERE diciamo a tutta la generazione vmana. […]
Genere/o è anche termine gramaticale.

Quest’ultimo significato riguarda, per così dire, “il sesso delle parole”. Così nel 1929 lo descrive Tommaseo nel suo Dizionario:

12. Grammatica: forma de’ nomi, denotante il maschio o la femmina, o enti altri dagli animali, a quali in origine fu dato nome masch. o femm., per alcuna qualità che riguardavasi più conforme al concetto dell’uno o dell’altro sesso.

“Genere” ha assunto solo nel post-1968 il significato di “ruolo assegnato a ciascun sesso”, o ad amenduni i sessi – come avrebbero detto i nostri antenati secenteschi. Etimologicamente proviene dal latino genus –nĕris, affine a gignĕre, “generare” e alle voci gr. γένος “genere, stirpe” γένεσις “origine”, γίγνομαι “nascere” (Treccani). La parola “genere” nel significato grammaticale ha quindi il senso di un’assegnazione sociale, convenzionale, di mascolinità o femminilità, ed è usata nello stesso senso anche al plurale “generi”.
Per la psicologa Viviane Burr: Genere è “il significato sociale del sesso” e Ruolo di genere è “l’insieme di comportamenti, doveri e aspettative connesso alla condizione maschile o femminile” (Burr 1998, 164 e 165). L’utilità di distinguere tra “sesso” e “genere” sta quindi nel rilevare che a un gruppo sociale identificato in base al suo sesso si applicano norme che ne plasmano i comportamenti e principalmente – come detto – chi appartiene al sesso maschile viene plasmato nella superiorità su chi appartiene al sesso femminile, chi appartiene al sesso femminile è plasmata nella sottomissione a chi appartiene al sesso maschile. Nell’interazione sociale gli uomini interrompono le donne, o non le ascoltano, mentre le donne si rivolgono agli uomini sorridendo e mettendoli in una posizione di autorità. Nella rappresentazione sociale, gli uomini agiscono e le donne appaiono. Passività e disponibilità sono gli imperativi femminili. La reputazione sessuale raggiunta da chi è promiscuo è ben diversa da quella che stigmatizza chi è promiscua. L’uomo adulto è sempre signore, mentre le donne vanno distinte in “signore” o “signorine” a seconda della loro appartenenza o meno a un marito – per indicare solo alcune delle polarizzazioni gerarchiche tra i generi. Ci sono poi le differenze materiali di potere e di reddito e proprietà tra i sessi che fungono da base per la perpetuazione delle differenze di genere. Ecco, nelle parole di Maria Nadotti (1996, p. 9), un catalogo di stereotipi di genere:

si suppone che le femmine siamo naturalmente inclini al sacrificio e al lavoro di cura, docili, abnegate, accomodanti, passive, portate alla sedentarietà e alla stabilità, paurose, fragili, bisognose di protezione, incapaci di pensiero astratto, emotive, inaffidabili, e i maschi naturalmente attivi, aggressivi, coraggiosi, forti, capaci d’iniziativa e portati al movimento e all’esplorazione, protettivi, ardimentosi, adatti ai mestieri rudi e all’aria aperta, razionali.

La forza maschile, tuttavia, è una differenza biologica: per quanto esistano maschi deboli e femmine forti è innegabile che il corpo maschile tipico abbia una muscolatura più possente, certamente mantenuta con l’allenamento, ma in primo luogo sviluppata dagli ormoni maschili. Quanto alle differenze psicologiche, sono innate o costruite? Non si può negare il fatto che il cervello è un organo sessuato. Non sono un’esperta e invito ad approfondire il tema, ma dalla ricerche risultano differenze innate in questi ambiti: modalità visiva e capacità uditiva, risposta allo stress e a situazioni rischiose, aggressività, tendenza a un pensiero più sistematico per i maschi e a un pensiero più empatico per le femmine – come differenza media tra i gruppi, senza capacità predittiva al 100% sugli individui. Il pensiero empatico identifica le emozioni e i pensieri degli altri e risponde con emozioni appropriate, mentre il pensiero sistematico analizza le variabili di un sistema per scoprire le norme che lo governano secondo lo schema input-operazione-output (Baron-Cohen 2007). Una ricerca dell’Università di Cambridge su neonati di un giorno di vita ha mostrato che i maschi sono più attratti (con probabilità più che doppia) dalle forme in movimento, mentre le femmine da visi umani statici. Altri tratti tipici li vediamo nella sessualità, ambito certamente influenzato dalle norme sociali ma che ha radici molto profonde nella psiche: la preferenza per una sessualità legata all’amore nelle donne, e viceversa slegata dall’affettività negli uomini si ritrova all’ennesima potenza nelle pratiche del mondo lesbico rispetto a quello gay. Sono differenze che possono avere un senso evolutivo, radicate in strategie riproduttive diverse per i due sessi. Un’altra differenza interessante risulta dagli esperimenti sull’eccitazione sia soggettiva (ovvero dichiarata) che oggettiva (ovvero accertata tramite l’osservazione dei genitali). Gli uomini mostrano una elevata specificità nel sesso che suscita il loro desiderio: sono in maggioranza eterosessuali e in minoranza gay, quasi mai bisessuali. Al contrario le donne si eccitano sia con scene di sessualità eterosessuale che tra donne. Naturalmente rimane il problema di distinguere ciò che è naturale da ciò che è sociale, insieme al fatto che i comportamenti non sono nettamente divisi tra i due sessi. Tuttavia si tratta di differenze tra i due gruppi assai rilevanti, e sembra poco sensato escludere ogni influenza genetica. È chiaro invece che le differenze tra i due sessi comprendono una grossa componente sociale che nel patriarcato li ordina in una chiara gerarchia.
Simone de Beauvoir, “madre” delle femministe della seconda ondata, ne Il secondo sesso (1949) affermava che: “Donna non si nasce ma si diventa” – ovviamente venendo educate come tali sulla base del possesso di un’anatomia femminile. Così scrive:

Ma per la prima volta dobbiamo chiedere: che cos’è una donna? Tota mulier in utero, dice uno, la donna è un utero. Ma parlando di certe donne, i conoscitori dichiarano che non sono donne, benché equipaggiate con un utero come le altre. […] Se il suo funzionamento come femmina non è sufficiente per definire una donna, se vogliamo anche evitare di spiegarla con “l’eterno femminino”, e se nondimeno ammettiamo, provvisoriamente, che le donne esistono, allora dobbiamo affrontare la questione: che cos’è una donna?

Questo è il genere: il fatto che la biologia non sia sufficiente per definire socialmente una donna o un uomo. Come deve esprimersi socialmente un essere umano di sesso femminile per essere considerata una vera donna? Le regole e le costrizioni relative, nota de Beauvoir, sono molto più stringenti di quelle che servono a fare un vero uomo. Inoltre l’uso comune di “uomo” denota l’essere umano in generale, mentre “donna” è una limitazione: “Pensi così perché sei una donna”, si sente dire, mentre essere un uomo non è una particolarità. Le donne sono state spesso chiamate semplicemente “il sesso”, cioè ciò che appare all’uomo essenzialmente come un essere sessuale. Il punto di vista del soggetto umano è a ben guardare un punto di vista maschile.
Pur descrivendo i condizionamenti sociali negativi sulle donne, de Beauvoir non ha usato il termine “genere”. Di “sistema sesso/genere” ha parlato invece l’antropologa Gayle Rubin nel saggio The trafficking in women (1975) considerandola un’espressione analoga a “patriarcato” o “modo di riproduzione”. Rubin scrive: “alla materia prima biologica del sesso e della procreazione umana è data una forma con l’intervento umano, sociale” (p. 165). Il genere è strutturato esacerbando le differenze biologiche: “Genere è una divisione dei sessi socialmente imposta” (p. 179). Anche gli uomini vengono oppressi dalla divisione delle caratteristiche personali tra “maschili” e “femminili”. Il genere assegnato a ciascuno e a ciascuna implica inoltre che il suo desiderio sessuale debba essere diretto solo verso l’altro sesso, sopprimendo la componente omosessuale della sessualità umana. Rubin considera ideale una società androgina e priva di genere (genderless), nonché pansessuale – abolendo i diversi orientamenti sessuali (a cui pure in molti rimaniamo affezionati).
Joan Scott (1986) esorta a usare “genere” in campo storico per mostrare l’intreccio delle concezioni variabili del maschile e del femminile nelle diverse epoche. “Genere” per Scott si riferisce alle origini esclusivamente sociali delle identità soggettive di uomini e donne: “Il suo uso rifiuta esplicitamente le spiegazioni biologiche, come quelle che trovano un comune denominatore alle diverse forme di subordinazione delle donne nel fatto che le donne hanno la capacità di partorire e gli uomini hanno maggiore forza muscolare” (p. 1056).
Questa terminologia inglese (gender) si è lentamente diffusa in tutto il mondo, arrivando in Italia negli anni ’90 attraverso gli studi accademici, e negli anni ’90 la parola “genere” è entrata anche nel linguaggio dei trattati internazionali. La sostituzione di “genere” a “sesso” ha avuto buon gioco perché “sesso” rimanda sia all’anatomia che all’attività sessuale, ed è quindi una parola disdicevole. A volte nel linguaggio ufficiale si è operata una semplice sostituzione tra i due termini, a volte invece si vuole sottolineare come il problema per le donne non sia il loro sesso ma il ruolo assegnatovi, il genere appunto. L’impegno contro la violenza basata sul genere (gender-based violence) è presente sia nel lavoro della CEDAW (General Recommendation n. 19, 1992) sia nella Convenzione di Istanbul contro la violenza nei confronti delle donne (art. 3, 2011). La CEDAW definisce questa violenza come “una forma di discriminazione che impedisce gravemente la capacità delle donne di godere di diritti e libertà su una base di eguaglianza con gli uomini”, e la Convenzione di Istanbul dà una definizione analoga. Per “violenza di genere” si intende oggi solitamente la violenza che è motivata dall’imposizione di ruoli di genere, quindi tutte le forme di violenza contro le donne motivate dalla svalutazione del femminile, ma anche la violenza perpetrata contro gay, lesbiche e bisessuali proprio per il fatto di non essere eterosessuali, non rispettando questa prescrizione del ruolo di genere, nonché contro i e le trans per la loro scelta di un sesso/genere non conforme al sesso di nascita.
Alla IV Conferenza mondiale sulle donne organizzata dall’ONU a Pechino/Beijing nel 1995, il Vaticano e altri stati di religione cattolica si opposero all’uso del termine “genere”, che consideravano una parola in codice per “omosessualità”. Non riuscirono a impedirne l’uso nei documenti finali, ma la definizione di “genere” rimase ufficialmente indeterminata.
All’ONU ormai “genere” ha soppiantato “sesso”, mantenendo lo stesso significato: nel 2000 la parità o uguaglianza di genere appare tra gli obiettivi di sviluppo del millennio, e nel 2015 tra gli obiettivi dello sviluppo sostenibile. L’Unione europea vuole impegnarsi per l’eguaglianza tra uomini e donne, chiamandola però “eguaglianza di genere” e nel 2010 ha inaugurato l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (ma l’articolo 23 della Carta di Nizza del 2000 è ancora intitolato alla “Parità tra uomini e donne”). L’espressione “parità di genere” è però evidentemente assurda nel lessico del femminismo della seconda ondata, e non si comprende perché – se “genere” è sinonimo di “sesso” – non si possa continuare a parlare di “parità tra i sessi”. Dagli enti sovranazionali questa confusione di concetti è trasmessa ai documenti ufficiali di tutti gli stati – che non citano Judith Butler, ma aprono la strada alla sua ridefinizione postmodernista sia di “sesso” che di “genere”, come vedremo nel cap. 4.

3. La gerarchia dei generi

Oscura è l’origine della dominazione maschile nei popoli europei, diffusa poi in tutto il pianeta con l’imperialismo e la religione che l’ha accompagnato. Nel cristianesimo solo il maschile ha un ruolo sacro mentre il femminile funge da suo ausilio. Il ruolo della antica Dea madre è rivestito da Maria madre di Dio, culto popolare che la religione ufficiale non è mai riuscita a spegnere. Il matriarcato è stato per Marija Gimbutas, che constata la prevalenza di simboli e raffigurazioni femminili nelle fasi iniziali della cultura umana, la condizione di partenza della nostra specie. In Europa fu sconfitto dall’invasione della cultura dei Kurgan intorno alla metà del V millennio. Barbara Ehrenreich (1998) invece attribuisce lo status inferiorizzato del sesso femminile alla condizione di pericolo che il sangue mestruale creava per le piccole bande in cui era organizzata la specie umana nella preistoria, alla mercé degli animali predatori.

Per Shulamith Firestone: “la disuguaglianza fondamentale l’ha creata la natura facendo sì che metà della razza umana dovesse far nascere e allevare i figli di tutti” (1970, 205). Sarebbe quindi folle mettere in discussione la disuguaglianza tra i sessi prima di un certo livello di sofisticazione tecnologica, perché solo la scienza renderà possibile l’uguaglianza tra i sessi grazie a gravidanze maschili e uteri artificiali. Ritenere che le donne possano raggiungere l’uguaglianza con l’altro sesso solo tramite la riproduzione artificiale non pare comunque una prospettiva propriamente femminista: il femminismo è nato per dare considerazione sociale al corpo femminile (cioè alle donne), per rivendicarne l’autodeterminazione, l’importanza del suo rispetto (”inviolabilità”) e il riconoscimento delle sue facoltà.
Le dita tagliate su cui l’antropologa Paola Tabet (2014) ha attratto l’attenzione (accade o accadeva tra i Dugum Dani della Nuova Guinea) sono un’immagine sia reale che simbolica della costrizione all’impotenza femminile da parte degli uomini nel patriarcato. È un caso estremo di come alle donne sia generalmente negata l’autonomia, e anche l’uso delle armi con cui difendersi dalle prevaricazioni maschili, venendo così costrette a scambi sessuo-economici umilianti. Sconvolgente è anche l’immagine-simbolo dei piedi fasciati – e quindi deformati, mutilati nella loro funzione – delle donne cinesi, che per gli uomini rappresentavano l’apice della bellezza femminile e un feticcio sessuale. Mary Daly (1979) ha descritto con parole sferzanti questo collegamento tra subordinazione delle donne e piacere sessuale maschile – piuttosto tipico anche in forme meno estreme.
Ma, a differenza del quadro tracciato da queste femministe, la dominazione maschile non è universale. L’antropologa Peggy Sanday Reeves in Potere femminile e dominazione maschile. Sull’origine dell’ineguaglianza tra i sessi (testo sconosciuto in Italia, ma che ha avuto una decina di edizioni in inglese a partire dal 1981) ha cercato associazioni statistiche significative[5] tra i tratti salienti di 156 società dello Standard Cross-Cultural Sample (Murdock e White 1969). Sanday Reeves ritiene che i sex-roles plans (gli schemi di ruolo legati al sesso, che equivalgono ai generi) rispondano all’esigenza di rendere prevedibile il comportamento sociale. Essi variano moltissimo: in alcune società i due sessi sono poco distinguibili dal punto di vista dell’autopresentazione e del comportamento sociale, in altre i ruoli sono egualitari ma vi sono modelli diversi per maschi e femmine, in altre ancora ritroviamo la gerarchia tra i generi che ci è familiare. Spesso il cambiamento di genere è possibile senza (ovviamente) alcun cambiamento di sesso. Tra i balinesi solo le donne tessono e solo gli uomini si arrampicano sulle palme da cocco, e se qualcuno vuole appartenere al sesso opposto “è esattamente facendo queste cose, arrampicandosi sulle palme da cocco o tessendo, che esprime il suo desiderio” (p. 18). Nelle società più semplici, senza patrimonio culturale scritto, i sessi si conformano a una simmetria di base che deriva dal ruolo biologico delle donne di dare la vita, a cui si contrappone quello degli uomini di uccidere, cacciando e in guerra:

Le donne partoriscono e allevano bambini, gli uomini uccidono e costruiscono armi. Gli uomini mostrano ciò che hanno ucciso (sia un animale, una testa umana o uno scalpo) con la stessa fierezza con cui le madri mostrano i loro neonati. Se la nascita e la morte sono tra le cose necessarie dell’esistenza, allora gli uomini e le donne contribuiscono paritariamente, benché in modi molto diversi, alla continuazione della vita, e pertanto anche della cultura (p. 9).

Il potere di dare la vita per Sanday Reeves dovrebbe essere considerato allo stesso modo del potere di dare la morte. Perché allora in alcune società la valutazione del potere tipicamente femminile e di quello tipicamente maschile è simmetrica mentre in altre è asimmetrica? Quali sono le condizioni nelle quali la posizione delle donne si avvicina di più all’uguaglianza?

I ruoli di potere maschili e femminili sono forgiati quando si forgia il proprio senso di appartenenza a un popolo. Il senso di appartenere a un popolo implica un codice condiviso che guida il comportamento – incluso quello dei sessi – non solo in relazione gli uni agli altri ma anche in relazione alle risorse cui si dà valore e al sovrannaturale. Il potere è accordato a quello dei due sessi che si pensa incarni o sia in contatto con le forze da cui la gente dipende per i suoi bisogni percepiti. Concependo il potere in questo modo, si può dire che in alcune società le donne hanno più potere, o gli uomini ne hanno di più, o i due sessi ne hanno una quantità uguale (p. 11).

La sacralizzazione delle forze della natura, che simbolicamente sono sotto il controllo e la manipolazione delle donne, causa (o magari riflette?) il potere femminile nella società. Sono importanti i concetti antichi di poteri sacri e i miti delle origini da cui derivano i ruoli – anche se non è chiaro perché non possa essere il contrario, secondo uno schema materialistico e non idealistico.
L’ambiente e il modo in cui fornisce risorse infatti si riflettono nella simmetria o asimmetria dei poteri maschili e femminili: la migrazione e la caccia favoriscono la preminenza simbolica e politica maschile, mentre il vivere dei doni della natura, cioè la raccolta, favorisce quella femminile. Se l’ambiente è percepito come favorevole, i sessi si mescolano, ma se l’ambiente è percepito come ostile invece si separano, cosa che rappresenta il primo passo verso la dominazione maschile: “Gli uomini e le donne devono essere fisicamente e anche concettualmente separati perché gli uomini possano dominare le donne” (p. 7). Gli uomini possono anche volgersi al dominio delle donne come compensazione per una dominazione subita. Vi è un rischio di instaurazione del patriarcato anche quando il popolo è in pericolo:

Generalmente la dominazione maschile si sviluppa quando diminuiscono le risorse e la sopravvivenza del gruppo dipende sempre più dagli atti aggressivi degli uomini. L’oppressione maschile sulle donne, tuttavia, non è una risposta automatica né immediata alla condizione di stress (p. 210).

L’esito dipenderà infatti anche dai concetti tradizionali legati al potere, ovvero se prevalgono i culti e miti legati al principio femminile, nonché dalla gravità della minaccia all’identità collettiva. Durante una lotta tra i sessi l’associazione della vita con le donne e della morte con gli uomini gioca a favore degli uomini:

Se c’è una differenza di base tra i sessi al di là di quelle associate alla riproduzione umana, è che le donne in quanto gruppo non hanno affrontato la morte volontariamente nei conflitti violenti. Questo fatto, forse più di qualunque altro, spiega perché gli uomini sono diventati in alcuni casi il sesso dominante (pp. 210-1).

Le donne Igbo, che nel 1929 fecero scoppiare la “guerra delle donne”, non hanno più rivendicato i poteri tradizionali dopo che le truppe britanniche uccisero un centinaio di rivoltose. “L’albero che porta i frutti” e “le madri degli uomini” non devono morire: le donne si sono perciò ritirate dalla lotta, perdendola. L’effetto del colonialismo europeo è sempre stato quello di disgregare il potere femminile: indirettamente rompendo le basi culturali delle società che ha dominato, rendendo più difficile l’acquisizione di risorse e costringendo alla migrazione, e direttamente attraverso l’influenza del cristianesimo e con il rifiuto dei dominatori di considerare le donne come interlocutrici politiche. I simboli guida nella società occidentale sono appunto per il maschile il dio patriarcale e per il femminile la peccatrice che tenta l’uomo allontanandolo dalla rettitudine: le femmine non sono a immagine di Dio, solo i maschi possono riconoscervisi. In occidente la dipendenza psicologica delle donne dagli uomini e dall’autorità maschile poggia su questo substrato simbolico, che ci condiziona, essendo pervasivamente presente nelle celebrazioni della nascita, del matrimonio e della morte.

4. Il genere postmoderno

Per Judith Butler il sesso è un comportamento, o meglio una performance: “non è un semplice fatto o una condizione statica di un corpo”, perché si tratta di un’idea che si materializza. La differenza sessuale è “marcata e formata da pratiche discorsive”, e la categoria di sesso è normativa, non descrittiva: “è una parte di una pratica regolativa che produce i corpi che governa”[6]. Tutto questo però è vero solo nell’eccezionale caso degli intersessuati, a cui oggi si assegna un sesso. Ma il postmodernismo non rifugge dal teorizzare a partire dalle eccezioni, ne fa anzi la sua specialità.
Per Butler poi la materia esiste, ma solo fino a un certo punto: “Affermare che il discorso è formativo non è affermare che esso origina, causa, o compone in modo esaustivo quello che riconosce; piuttosto è affermare che non esiste alcun riferimento a un corpo puro che non sia al tempo stesso un’ulteriore formazione di quel corpo” (p. 537). Il suo programma di disfarsi del concetto femminista di genere è scritto a chiare lettere: “e non ci sarà alcun modo di comprendere il ‘genere’ come una costruzione culturale che viene imposta alla superficie della materia, chiamata o ‘il corpo’ o il suo dato sesso” (p. 532) perché anche il sesso è socialmente costruito.
La differenza sessuale e i suoi effetti, cioè che le donne rimangono incinte e riproducono la specie, è espunta dalla teoria. Butler parla sì di spermatozoi e ovuli, ma questi rimangono disincarnati, e l’origine materna cancellata (es. 2014, 44). “Genere” ha assunto per i postmodernisti il significato di irrilevanza del sesso, insieme all’intero mondo materiale (Sokal e Bricmont 1999). Molti che oggi usano “genere” non la pensano come i postmodernisti (anche se parlano come loro), a partire dai ragazzi e ragazze che si identificano come “gender non-binary” o “genderqueer”. Sono etichette identitarie equivalenti a “ribelli al genere”, proprio come “femminista” o “androgino”, ma con un linguaggio a ben vedere privo di logica, perché “al di fuori della dicotomia di genere” (nonbinary) indica semplicemente un essere umano che non vuole sottostare a queste imposizioni sociali, ma non può significare che non ha un sesso (né necessariamente che lo voglia trasformare)[7].
L’identificazione tra sesso e genere attraverso la cancellazione del sesso dà i suoi effetti culturali anche in Italia già negli anni ’90. Maria Nadotti (1996, 10) si chiede: “Il sesso, già maschile o femminile in partenza, esiste forse mai fuori dal genere e dalle sue determinazioni?”. Lo stesso anno esce Genere: la costruzione sociale del femminile e del maschile, un’antologia accademica curata da Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno. I testi raccolti danno il colpo di grazia al femminismo, chiamato “fondamentalismo biologico” nel primo dei brani selezionati (Nicholson 1996). Il brano incorpora il sesso all’interno del campo semantico di “genere”, giustificandosi con il fatto che il modo di vedere il corpo è influenzato dalla società: “Ma se il corpo di per sé viene sempre filtrato attraverso un’interpretazione sociale, allora il sesso non è separato dal genere ma è, semmai, qualcosa che fa parte del genere” (p. 41). Per Linda Nicholson quindi non esiste la materia sottostante al genere (o non va chiamata “sesso”), non esiste la conoscenza di essa, esistono solo le convenzioni sociali.
Robert Connell, poi diventato trans con il nome Raewyn, nel testo molto studiato nelle università italiane Questioni di genere, gioca con i vari significati di “genere” per dare infine alla parola un senso positivo. Il modello di genere “in apparenza rigido e stabile, può rivelarsi, a un esame più accurato, fluido, complesso e incerto”. Perciò:

Non possiamo pensare all’essere umano uomo o donna come a una condizione stabilita dalla natura. Allo stesso tempo, però, non dovremmo nemmeno considerarla una condizione che viene imposta dall’esterno, dalle norme sociali o dalla pressione delle autorità. Sono le persone stesse a costruirsi come maschili o femminili: ogni giorno nel modo in cui ci comportiamo (Connell 2006, 32).

Il genere è diventato qualcosa di interno, non è più imposto dalla società come nell’analisi delle femministe. Siamo nel pieno dei processi di individualizzazione neoliberali. La definizione femminista di genere era sociale e politica, riguardando i rapporti di potere tra i due sessi, ma ora viene sostituita con una definizione individualizzata, che banalizza le forze sociali all’opera riducendo il genere all’espressione di genere, cioè alla scelta individuale se apparire più o meno maschili o più o meno femminili. Questa ridefinizione del concetto però può soltanto spostare di un gradino la natura sociale e costrittiva del genere, perché la questione diventa: come mostrano i singoli la loro femminilità e/o maschilità? Lo fanno naturalmente attingendo agli stereotipi sociali, che quindi si rafforzano come punti di riferimento indiscutibili, quasi dei dati di natura. Così infatti prosegue Connell:

Sono le persone stesse a costruirsi come maschili o femminili, ogni giorno, nel modo in cui ci comportiamo, noi reclamiamo il nostro posto nell’ordine di genere, oppure reagiamo al posto che in quell’ordine ci viene riservato.
La maggior parte delle persone lo fa di buon grado, e spesso trae piacere da questa polarità della differenza. Indossando una giacca di pelle e stivali da motociclista, il mio corpo si dichiara felice di esser maschile, e io coltivo la durezza dei modi, i lati aspri del mio carattere, la determinazione. Indossando, a contrario, un colletto di pizzo e una gonna increspata, il mio corpo si dichiara felice di essere femminile, i miei modi sono aggraziati e coltivo maniere dolci e piacevoli, la ricettività (2006, 32).

Ecco di nuovo l’assegnazione al maschile di durezza e asprezza e al femminile di frivolezza e recettività, come nei trattati ottocenteschi di Lombroso e Mantegazza. Di veramente nuovo c’è solo il soggetto neoliberale, cioè adattato alla vita nel neoliberismo, felice di scegliere quello che la società già gli impone, ignaro delle forze sociali (ed economiche!) che strutturano le vite individuali, disposto ad assumersi la responsabilità delle sue sconfitte in quanto “scelte”. Non stupisce che tante ragazze vogliano la transizione al maschile come rimedio al sessismo (Danna 2018).
Questo senso individualizzato di “genere” è diventato oggetto di rivendicazione politica nei Principi sull’applicazione della legislazione internazionale sui diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere (2007), detti semplicemente Principi di Yogyakarta, elaborati dall’International Service for Human Rights, presentati all’ONU, fatti propri dall’ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association). Vi si afferma:

L’identità di genere è intesa come l’esperienza del genere interna, individuale e profondamente sentita di ogni persona. Può corrispondere o meno al sesso assegnato alla nascita[8] e include la percezione personale del proprio corpo (che può comprendere, se scelte liberamente, modifiche dell’aspetto o delle funzioni fisiche con mezzi medici, chirurgici, o altri) e altre espressioni del genere, compresi il modo di vestire, di parlare e le maniere.

Si tratta di una formulazione che vuole proteggere i transessuali e i devianti rispetto al genere imposto? Ma queste parole danno per scontato che il genere sia abbinato al sesso, proprio ciò contro cui le femministe si sono ribellate! E non è previsto che ci sia un rifiuto del genere, perché per tutti (“ogni persona”) si tratterebbe di un’”esperienza profonda”. Rebecca Reilly-Cooper si oppone: “Sono donna non perché ho in me stessa un senso profondo dell’essere donna, ma solo perché sono femmina”[9], e inoltre: “Ho un sesso ma non ho un genere, perché non aderisco agli stereotipi”.
E c’è di peggio. L’omosessualità è definita nei Principi di Yogyakarta come “attrazione per lo stesso genere”. Il che purtroppo ha conseguenze reali e fortemente negative proprio sul benessere psicologico delle lesbiche, che gli autoginefili vogliono forzare ad avere relazioni e rapporti sessuali con loro, motivati dal fatto che se una donna che ama solo le donne li accetta come partner, allora sono confermati nell’identità femminile. Questo riescono a ottenerlo con ricatti emotivi e accuse di transfobia: negli ambienti queer il gioco è riuscito e il desiderio lesbico è ormai dichiarato transfobico, chi non vuole ammettere l’identità assoluta, l’indistinguibilità tra donne e donne trans è transfobica e TERF, acronimo che significa trans-excludent radical feminist, cioè femminista radicale che esclude le trans. In tali ambienti è accettabile minacciare pubblicamente di morte le TERF. Ma sto anticipando. Prima che tutti questi attuali (e tristi) sviluppi risultino chiari, bisogna comprendere che cos’è l’identità di genere.

5. Medici, sessuologi e identità di genere

Le femministe hanno spostato l’attenzione dal sesso al genere, i postmodernisti vogliono cancellare la nozione di un sesso indipendente dal genere, negli accordi internazionali vale l’uno o l’altro significato? La partita è ancora aperta. Un altro attore protagonista di questo dibattito, soprattutto negli Stati Uniti e in Canada, è la classe medica, inclusi gli specialisti della salute mentale e sessuale, che vanta la primogenitura nell’aver definito il genere come caratteristica non sociale bensì individuale, in risposta alle richieste di chi vuole cambiare sesso. Per chirurghi ed endocrinologi il sesso è malleabile, e va adattato al ruolo di genere che il soggetto/paziente ha scelto. Quando si tratta di trans adulti, tutto bene: non si tratta di imporre un mutamento di sesso a devianti recalcitranti, e anche se chi è transessuale ritorna a identificare il sesso con gli stereotipi sociali, pazienza. Essi comunque affrontano i disagi della chirurgia e della medicalizzazione evidentemente in risposta a un bisogno profondo, e la transizione li porta spesso a migliore la qualità della vita. Oggi però i soggetti sono posti di fronte alla scelta di identità di genere/sesso a un’età sempre più precoce, creando nuovi mercati per le case farmaceutiche che producono ormoni – un’esigenza del capitalismo e della sua spirale espansiva D-M-D’. La posta in gioco è far rientrare le modificazioni corporee nel campo della “libera scelta”, celando le forze sociali che nell’infanzia e adolescenza spingono verso la normalizzazione, cioè il riallineamento di genere e sesso – non più biologico ma trasformato dai medici.
Ben prima delle femministe fu infatti la classe medica statunitense a usare la parola “genere” traslandola dal senso grammaticale: lo psicologo Madison Bentley nel 1945 (il genere è “il rovescio socializzato del sesso”); lo psicologo e sessuologo John Money dagli anni ’50 (vi è un sé sessuato interno – internal sexed self – maschile o femminile indipendentemente dai genitali[10], e un’“identità/ruolo di genere”: identità nel privato e ruolo nel pubblico); il sessuologo Robert Stoller nel 1964 (identità di genere di base – core gender identity – è “il senso di sapere a quale sesso si appartiene, ovvero la consapevolezza: ‘Io sono un maschio’ o ‘Io sono una femmina’”). Tutto ciò avrebbe dovuto chiamarsi “identità sessuale”, perché la richiesta degli aspiranti transessuali emuli di Christine Jorgensen che nel 1952 fu fatta diventare donna negli Stati Uniti, riguardava sì il ruolo di genere, ma soprattutto il rifiuto dei propri genitali e la richiesta ai medici di trasformarli in quelli dell’altro sesso. È recentissima invece la richiesta dei transgender di essere definiti maschi o femmine (o genderqueer/gender nonbinary) per pura volontà o convinzione, senza alcun cambiamento fisico: è il transattivismo, che rivendica il cambio sui documenti e il pieno accesso alle prerogative legali dell’altro sesso cambiando le leggi che – in Italia dal 1984 – stabiliscono un percorso medico e chirurgico prima del cambio ufficiale di sesso. Transgender peraltro non coincide con transattivista. Susan Styrker definisce così questa identità, che si era diffusa nel decennio precedente: “Il termine implica allontanamento dalla posizione di genere inizialmente assegnata. Generalmente si riferisce a qualunque tipo di variazione dalle norme e aspettative di genere. […] Ciò che costituisce un transgender varia quanto varia lo stesso genere, e dipende sempre dal contesto storico e culturale” (2008, 19). È quindi un termine estremamente vago, Styrker specifica che transgender indica le minoranze, e nel suo libro lo userà per “coloro che cercano di resistere al genere cui sono stati assegnati alla nascita senza abbandonarlo, o che cercano di creare qualche tipo di nuova posizione di genere” – raggiungendo così l’assoluta incomprensibilità. In fondo non è nemmeno chiaro se transgender sia un’identità o un termine con cui si può oggettivamente descrivere qualcuno.
Su iniziativa di John Money, la Clinica sull’identità di genere fondata nel 1966 a Baltimora, iniziò ad applicare le tecniche chirurgiche per la transessualità agli intersessuati, di solito trasformati in femmine con molteplici operazioni tra il primo e il quarto anno di vita per costruire una vagina (“vaginoplastica”), e a bambini vittime di incidenti come David Reimer, il cui pene venne distrutto durante la circoncisione. Money riteneva che fino ai 18 mesi di età l’identità di genere potesse mutare senza conseguenze, se i genitori e l’ambiente sociale erano assolutamente convinti della realtà del sesso assegnato. Allevato come una femmina, Reimer da adolescente pretese la verità sulla sua vicenda, e ritornò a vivere da maschio, ponendo poi termine alla propria vita a 38 anni. Anche con gli intersessuati l’esperimento spesso falliva, ma Money propagandava il proprio lavoro come un successo.
“Genere” è quindi la parola usata in ambito medico quando l’identità sessuale non corrisponde al sesso biologico. Questo uso di “genere” oggi lo riduce alla percezione individuale che riguarda sia il sesso che il ruolo sociale, senza possibilità di distinguerli. L’American Psychological Association ha adottato nel 2009 questa fusione, o confusione, del biologico con il sociale: “L’identità di genere si riferisce al senso fondamentale di una persona di essere maschio, femmina, o di sesso indeterminato”. Questo senso fondamentale è generalmente basato sulla realtà, tuttavia attraversa fasi di sviluppo cognitivo: a 2-3 anni i bambini sanno di essere maschi o femmine, ma non che questa qualità è fissa, e ancora a sette anni alcuni possono credere che il sesso muti a seconda degli abiti o del comportamento (Martin 2002).
Per tutte le fasce d’età il “disturbo dell’identità di genere” è oggetto di attenzione psichiatrica dal 1980 con la terza edizione del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (Diagnostic and statistical manual of mental disorders – DSM-III), che elenca i criteri diagnostici per il transessualismo degli adulti e per il disturbo dell’identità di genere dell’infanzia[11]. Il DSM-IV vi aggiunge nel 1994 i “disturbi dell’identità di genere” negli adulti e negli adolescenti. È il Centro sulla disforia di genere di Amsterdam che negli anni ’90 elabora per i minori il modello affermativo del genere (gender-affirming, “terapie affermative del loro genere percepito”), detto anche 12-16-18. Consiste infatti nel diagnosticare la transessualità dai comportamenti e dall’identificazione dei minori con l’altro sesso, per procedere a 12 anni (stadio Tanner 2) al blocco della pubertà, a 16 alla somministrazione di ormoni dell’altro sesso, e a 18 alla riassegnazione chirurgica del sesso. Non entro nei dettagli della critica al modello[12]. Basti dire che gli ormoni sessuali rilasciati alla pubertà sono necessari allo sviluppo del cervello (Sisk 2005).
Il dottor Norman Spack importa negli USA l’“affermazione del genere” olandese, aprendo nel 2006 il primo Transgender center sulla East Coast. Oggi le cliniche che lavorano con i minori “trans” su territorio statunitense sono una quarantina, e anche in Italia l’affermazione del genere per i minori sta facendo progressi con la possibilità, dal marzo 2018, di usare la triptorelina “fuori prescrizione”, cioè a titolo sperimentale, per bloccare la pubertà in numerosi centri ospedalieri del SSN. A dispetto della giustificazione ufficiale di dare più tempo ai minori per capire cosa vogliono, praticamente la totalità di chi blocca la pubertà poi cambia sesso (e qualcuno poi torna indietro: sono i desisters[13]). La medicalizzazione dei comportamenti infantili indesiderati è già molto avanzata negli Usa, ma questi interventi ormonali fanno ammalare persone sane: la struttura ossea maschile e femminile è molto diversa, e il testosterone provoca problemi articolari, dato che ingrossa i muscoli in modo insostenibile per l’ossatura femminile, e dolore all’orgasmo[14]. Senza parlare dei fallimenti della falloplastica. La carenza di estrogeni aumenta il rischio di osteoporosi. L’uso di estrogeni nei maschi è collegato a un rischio più alto di trombosi e malattie cardiovascolari.
Il modello affermativo del genere si rivolge a giovani immaturi e con problemi cui promette la panacea nella transizione, in primis alle ragazze – la grande maggioranza dei trans minorenni – che crescendo, sviluppandosi, si scontrano con la svalutazione patriarcale dei loro corpi e del loro sesso. Nella definizione di disforia di genere del DSM-V inoltre si trascurano le comorbidità. Le altre terapie possibili sono poi state equiparate dai fautori dell’affermazione del genere alle terapie di conversione sui minori gay e lesbiche, e messe fuori legge in Canada, Gran Bretagna e quindici stati degli Usa.
Se utilizziamo la terminologia femminista tutto risulta più chiaro: con l’approccio affermativo del genere, a seguito di una diagnosi di disforia, i medici dicono apertamente che il loro proposito è adeguare al genere, ovvero ai ruoli, i minori non conformi. Questo è “affermare il genere”: modificare il sesso come “terapia” per chi non riesce ad adempiere al proprio ruolo di genere. Ed è la terminologia femminista a essere corretta, perché “genere” non può essere univocamente considerato sinonimo di “sesso”.
Il modello affermativo per i minori con disforia di genere è adottato nelle Guidelines for treatment of transgender persons, della Endocrine society, cioè le Linee guida della società degli endocrinologi (2009). Nel 2017 le Linee guida sono state riviste preoccupandosi per la sterilizzazione di questi minori. Il rimedio è un counseling sull’opportunità di lasciar cominciare la pubertà allo scopo di ottenere gameti da congelare. Si ricorrerà poi, nel caso degli ovuli, alla surrogazione di maternità. Gli endocrinologi aprono anche alla possibilità di somministrare ormoni, così come di fare mastectomie, a un’età ancora più precoce se il minore è abbastanza maturo. L’importante è che le assicurazioni e i servizi sanitari nazionali paghino tutti gli interventi medici (è esplicitato).
Nel DSM-V del 2013, scompare l’etichetta stigmatizzante di “disturbo” e la diagnosi viene chiamata “disforia di genere”, un’espressione introdotta da Norman Fisk nel 1973. La mossa ha successo: molti più minori e adulti accettano per sé questa etichetta. La disforia di genere può riguardare semplicemente i comportamenti chiamati nei secoli passati “di inversione”, da sempre associati all’omosessualità, senza alcuna repulsione verso i propri genitali e senza un’identificazione seria con il sesso opposto (al limite con il genere). È vero che altre definizioni della disforia di genere sono più stringenti, come questa del servizio sanitario britannico: “La disforia di genere è un disturbo in cui una persona prova disagio o angoscia perché c’è una discrepanza tra il loro sesso di nascita (assegnato) e il genere con cui si identificano” (Clinical Commissioning Policy 2016, 6, che ha evidentemente rinunciato alla grammatica). Tuttavia seguendo il DSM-V si può fare una diagnosi in cui tra disforia di genere e disagio psicologico vi è una mera associazione e nessuna causalità.
Nel maggio 2019 l’undicesima revisione dell’International Classification of Diseases dell’Organizzazione mondiale per la sanità ha cambiato la disforia di genere con “incongruenza di genere”, classificata tra le malattie relative alla salute sessuale e non più tra i disturbi mentali e comportamentali[15]. I servizi sanitari o le assicurazioni devono perciò farsi carico delle “cure” di adulti e minori. L’incongruenza di genere negli adulti e adolescenti è:

una marcata e persistente incongruenza tra il genere vissuto (experienced gender) dall’individuo e il sesso assegnato[16], che spesso porta a un desiderio di “transizionare”. […] Il comportamento e le preferenze varianti rispetto al genere non possono dare adito a una diagnosi in questa categoria.

Il periodo necessario per la diagnosi è aumentato dai sei mesi del DSM a due anni. Anche i bambini possono soffrirne prima della pubertà:

L’incongruenza di genere nell’infanzia è caratterizzata da una marcata e persistente incongruenza tra il genere vissuto/espresso (experienced/expressed gender) dall’individuo e il sesso assegnato[17] nei bambini prepuberi. Include un forte desiderio di essere di un genere diverso dal sesso assegnato; una forte repulsione per la propria anatomia sessuale o per la prospettiva di avere le caratteristiche sessuali secondarie proprie e/o un forte desiderio di caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie future che siano quelle del genere che si vissuto (experienced gender), e giochi di fantasia e finzione, giocattoli o attività e compagni di gioco che sono tipici del genere che si percepisce come proprio piuttosto che del sesso assegnato.

Rimane insomma l’incongruenza e sparisce la sofferenza – perfino solo “associata” al modo di vivere il genere (questo anche negli adulti e adolescenti). Si indaga quindi come il possibile paziente si senta rispetto agli stereotipi, che vengono consolidati come punti di riferimento. Di nuovo il rifiuto della propria anatomia non è un requisito indispensabile: la diagnosi è possibile non solo per il rifiuto dei propri genitali ma anche per il “rifiuto” di trasformazioni puberali future. I transattivisti hanno salutato la notizia come un passo verso la normalizzazione della “scelta del proprio sesso”. Per Martine Rothblatt, transattivista e transumanista, è questa la “liberta di forma” da perseguire, anche con interventi à la carte[18].

6. I transattivisti

Il braccio istituzionale del transattivismo è un’organizzazione strutturata a livello mondiale: la World Professional Association for Transgender Health (WPATH). A dispetto del nome non si tratta di un’associazione professionale: vi si può iscrivere chiunque abbia “un interesse nei confronti del transgenderismo”. È la WPATH a dare il la alle definizioni dell’identità di genere, fin dalle prime linee guida (Standars of care) del 1979 dell’Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association, poi diventata WPATH. Così oggi essa definisce l’identità di genere:

Il senso intrinseco che una persona ha di essere maschio (un ragazzo o un uomo), femmina (una ragazza o una donna), o un genere alternativo (ad esempio boygirl, girlboy, transgender, genderqueer o eunuco)[19].

Cosa significa “intrinseco”? Che può essere in contrasto con il sesso che questa persona in effetti ha, cioè con il “sesso estrinseco”. Su che cosa si basa questo senso in contrasto con la realtà? Chi lo prova ritiene che sia innato (tranne quando si stabilisce a una certa età, o quando crescendo scompare), e certamente non si può escludere che vi sia un locus fisico, tuttavia finora le ricerche non lo hanno scoperto, rendendo appunto impossibile una diagnosi precisa di transessualità, in particolare sui minori. Ciononostante il modello affermativo del genere è un caposaldo del transattivismo: “Il principio terapeutico di base del modello che afferma il genere è molto semplice: quando si tratta di conoscere il genere di un bambino, non dobbiamo dirlo noi, ma i bambini stessi”, sono parole della psicologa Diane Ehrensaft (2017), che contro ogni evidenza ritiene che l’identità di genere sia stabile dalla nascita, che i minori non cambieranno mai idea. Per lei alcuni “portatori di pene”, come li chiama, sono femmine così come alcune “portatrici di vagina” sono maschi. Immagina vi sia una rete di diverse identità di genere, cosa che ha senso solo se possiamo classificare come maschili o femminili tratti psicologici e presentazioni di sé, dando ad essi un valore assoluto, come se fossero esistenti solo nei maschi o solo nelle femmine. Un altro principio del suo discorso che “afferma il genere” è che sia la stessa cosa vivere nel proprio corpo o sottoporsi ad assunzioni di ormoni e chirurgia per ottenere un corpo che assomiglia a quello dell’altro sesso. I corpi trans sono “ugualmente validi”, sostengono i transattivisti, che invece negano che esista una rapid-onset gender dysphoria soprattutto nelle ragazze, che i casi di desistenza siano numerosi, e che comunque una faccenda così delicata come l’interferenza con il proprio sistema endocrino non sia saggio lasciarla alla decisione di un minore (si noti anche che il cervello matura pienamente a 25 anni, non a 18). Spargono il panico su presunti rischi elevati di suicidio nei minori contrastati nella loro aspirazione trans (ma vedi Bailey e Blanchard 2017b, Horvath 2018). Scrive la madre di un presunto minore trans: “I medici e terapeuti ci fanno pressioni perché accettiamo… accettiamo… accettiamo. Lo accetterei se sinceramente mi accorgessi che migliora il suo destino nella vita, ma non è così. Un tentativo di suicidio è avvenuto DOPO che ha preso ormoni”[20]. Per definizione transattivista i genitori hanno dubbi sulle transizioni dei figli solo perché sono bigotti e transofobi.
Il problema politico di chi proclama di avere un’identità di genere non è chi sono, ma che cosa vogliono. Si tratta infatti, ritengo, di una minoranza di transessuali, insieme ad altri attivisti che si identificano come transgender, giovani e arrabbiati per le ingiustizie sociali, che finiscono però a mirare ai bersagli sbagliati. È problematico per prima cosa il fatto che i transattivisti vogliano attribuire a tutti un’identità di genere. Chi non è trans è “cisgender” (cioè “al di qua del genere”). Però non si tratta di un’identità ma una categoria imposta a tutti coloro che si suppone aderiscano agli stereotipi del proprio genere solo perché non cambiano sesso né identificazione sessuale (“cissexual” sarebbe un’espressione migliore, e a volte è usato). Per i pediatri statunitensi “cisgender” è infatti qualcuno che “si identifica ed esprime un genere che è coerente con le norme culturalmente definite per il sesso cui si è stati assegnati alla nascita”[21]. Poi i transattivisti pretendono di non essere distinguibili da chi è nato nel sesso con cui si identifica. Il linguaggio va modificato in senso che chiamano “inclusivo”, con l’effetto di uniformare al neutro, e quindi di tornare alla cancellazione delle specificità femminili: “persone in gravidanza”, “menstruators”, “persone con la cervice”, “alimentazione al petto” sono espressioni oggi diffuse in lingua inglese. Infine proiettano le loro personali vicende passate su tutti i minori non conformi al genere, spingendo perché possano accedere a un’età sempre più precoce a farmaci e operazioni di modifica del corpo allo scopo di assomigliare all’altro sesso. Le ricerche mostrano invece che i “minori trans” da adulti sono non trans almeno per quattro quinti, e in maggioranza diventano gay e lesbiche. Una ricerca longitudinale su 5.000 giovani ha mostrato la grande corrispondenza tra comportamenti non conformi rispetto al genere a 3,5 e 4,75 anni di età e omosessualità a 15 anni (Li, Kung e Hines 2017); lo studio di Singh (2012) sui ragazzi con identità transgender a sette anni e mezzo ha trovato che solo il 12% la mantiene a 17 anni di età – per fare alcuni esempi delle numerose ricerche esistenti.
Un’altra questione trattata in modo dogmatico, e con falsità, non solo nel transattivismo ma nel movimento LGBT-queer è la presunta mancanza di correlazione tra identità di genere (o meglio sessuale) e orientamento sessuale. Si disarticolano in tre assi presunti indipendenti l’orientamento sessuale, l’identità di genere e il sesso/genere: “La relazione tra identità di genere e orientamento sessuale, infatti, è decisamente oscura: non possibile predire, in base al genere di una persona, quale sarà la sua identità di genere e quali saranno le direzioni del suo desiderio” (Butler 2014, 137). Il sesso, si noti, nulla conta nella versione butleriana. Tuttavia nella nostra società la maggior parte delle persone ha comportamenti eterosessuali, e chi manifesta tratti che si ritengono caratteristici del sesso opposto, cioè ha un’espressione di genere non conforme al proprio sesso, è spessissimo omosessuale. Quanto ai transessuali, nel 1989 Ray Blanchard ha stabilito una classificazione delle diverse forme di transessualismo. Le trans da maschio a femmina (MtF) comprendono due gruppi: maschi omosessuali effeminati e maschi eterosessuali autoginefili (Bailey e Blanchard 2017a). I maschi omosessuali mostrano già da bambini un comportamento estremamente effeminato; gli autoginefili tendono invece a cominciare a travestirsi nell’adolescenza a scopo erotico, e non tutti vogliono una transizione chirurgica: “Quelli che amano gli uomini diventano donne per attirarli. Quelli che amano le donne diventano le donne che amano” (Bailey 2003, 12). L’autoginefilia è una parafilia: il fatto di vedersi come una donna è un’esperienza erotica e di realizzazione emotiva, interpretata come una forma di masochismo da Sheila Jeffreys (2003 e 2014). Le donne invece raramente presentano parafilie, e i trans da femmina a maschio (FtM) sono in massima parte attratti dalle donne, con confini molto incerti con il mondo delle butch (lesbiche mascoline) che si presentano al maschile.
Negli ultimi dieci anni è sorta una sindrome nella quale adolescenti che non hanno mai manifestato comportamenti di “inversione” di genere si presentano all’improvviso come trans (rapid-onset gender dysphoria, o ROGD). Lo fanno per imitazione di altre (“contagio sociale”) o come soluzione a una serie di altri problemi psicologici – spesso sono nello spettro dell’autismo – che in questo modo non vengono affrontati. Il focus su cosa non si è diventa ossessivo in minori già predisposti, e questi adolescenti si ritirano dal mondo vivendo solo su internet: il distacco dal corpo e dalle sue esperienze è associato alla decisione di transizione, che ottiene il plauso nei gruppi di transattivisti che frequentano on line.

7. Corpi che non contano

L’espressione di genere può e deve essere protetta in quanto parte della libera espressione della personalità, ma l’identità di genere? Che cosa significa veramente introdurre un nuovo “diritto all’identità di genere”? Dare rilevanza nelle leggi antidiscriminatorie a un’identità che alla maggior parte delle persone è imposta (“cis”) è davvero impellente, oltre che saggio? Essa non è peraltro una caratteristica stabile secondo la stessa teorizzazione postmoderna che la promuove. Non possiamo semplicemente rivendicare l’antidiscriminazione per chi è transessuale e transgender?
Le conseguenze negative di questa trasformazione semantica da sesso a genere nelle leggi sono principalmente due: il cambiamento di sesso dei minori devianti rispetto al genere e l’ingresso di maschi biologici negli spazi femminili. Questo è ciò che accade quando il corpo non conta: nel 2007 un centro per vittime di stupro a Vancover è stato citato in giudizio da una trans che voleva esservi assunta (Nixon v. Rape Relief). Il centro ha difeso il diritto delle vittime di stupro di essere assistite da donne biologiche, diritto riconosciuto dal tribunale al termine di un processo costoso. Il Canada nel 2016 ha però incluso l’identità di genere tra le categorie protette dall’antidiscriminazione. Ciò ha permesso alla transattivista Jessica Yaniv di citare in giudizio per discriminazione ben sedici centri estetici le cui lavoranti si sono rifiutate di adempiere alla sua richiesta di manipolargli i genitali per una ceretta brasiliana allo scroto. Alcuni di questi centri hanno dovuto chiudere, benché il verdetto sia stato sfavorevole a Yaniv. Che lo si voglia definire maschile o femminile, si tratta pur sempre di un pene e dei suoi annessi. Meghan Murphy (2019), giornalista ed editor del blog Feminist Current, commenta:

Ci sono ragioni molto valide per le quali le donne non vogliono star sole con strani uomini nudi. E la maggior parte della gente sana di mente comprende che una donna non dovrebbe essere costretta a toccare i genitali di un uomo contro la propria volontà. Ma se esiste, come pretende il movimento transattivista, una cosa come il “pene femminile”, ciò che è molto chiaro e ovvio improvvisamente diventa indifendibile.

Murphy nota anche che:

Stranamente,i giornalisti che si occupano delle questioni queer hanno evitato di fare il loro lavoro, a dispetto del fatto che questi processi avvengono solo per gli avanzamenti ottenuti dal movimento queer nella sua lotta per rendere legge l’ideologia dell’identità di genere.

Rebecca Reilly-Cooper, filosofa oggi attiva in Gran Bretagna contro la modifica al Gender Recognition Act con l’autodefinizione del genere, analizza quella che chiama la “dottrina dell’identità di genere”[22]: non ci sono criteri oggettivi che possano rivelare l’appartenenza a un genere piuttosto che a un altro; il genere non ha a che fare con il corpo né con la socializzazione, deve essere quindi una categoria innata con una base immateriale, cioè un’entità metafisica o un’anima maschile, femminile o genderqueer. La dottrina dell’identità di genere è quindi una credenza religiosa o paranormale, a cui si ha diritto ma che non deve avere protezione specifica per il suo contenuto. Politicamente infatti la protezione dell’identità di genere significa definire uomini e donne solo in termini di possesso di uno stato mentale particolare. Da questo derivano un problema simbolico e molti problemi materiali. Il problema simbolico è che il mantra transattivista “le donne trans sono donne” continua la tradizione maschile di dire alle donne chi sono e cosa devono pensare dei loro corpi. Non è poi accettabile costringere le persone a identificare gli individui sulla base dell’“identità di genere” invece che del sesso. Ammettere come donna chiunque abbia questa identificazione cancella l’esperienza di vivere in un corpo femminile e il significato della socializzazione al genere. Uomini e donne spariscono come classi politiche. Poco male, si dirà, siamo tutti individui, tutti diversi, che senso ha parlare ancora di donne? Si può parlare di persone che partoriscono, di individui che allattano al petto, che possono avere uno o due buchi, anteriore e posteriore. Ed eccoci ritornati al concetto di donna-buco, non più direttamente per maschilismo ma per aver modificato il significato della parola “donna” per includere gli uomini (questa terminologia è davvero usata in lingua inglese).
I transattivisti cercano di togliere la parola alle persone loro invise nei campus universitari degli Usa (e non solo), cosa che gli studenti solitamente fanno contro fascisti e nazisti. È quindi vincente la retorica che le femministe siano “feminazi” usata dalle associazioni “per i diritti degli uomini” (Men’s rights associations – MRA), che in realtà vogliono restaurare le prerogative patriarcali, come il controllo sui figli dopo il divorzio e la legittimazione della violenza in famiglia. Queste persone invise solitamente sostengono l’antidiscriminazione delle persone trans, ma senza cedere sulla definizione di donna (biologica). (È questa anche la mia tesi.) In altri ambiti la soggettività non ha ottenuto la vittoria sulla realtà: quando si è scoperto che Rachel Dolezal, presidente di un ramo della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), era bianca, gli attivisti neri l’hanno fatta dimettere, non accettando che si fosse “sempre sentita nera”.
Megan Murphy nota una pericolosa novità in questa forma di attivismo per i diritti degli uomini:

Ciò che è unico nell’approccio del transattivismo è che non tenta di mascherare gli incitamenti alla violenza contro le donne con la retorica sul “consenso” e sull’”empowerment”. Non affermano che non sia vera violenza perché alle donne piace, o perché hanno dato il loro consenso, o perché è “solo una fantasia”. Invece la violenza che i transattivisti rivendicano, la ritengono giustificata a causa di opinioni, associazioni, linguaggio o condivisione di articoli o link giudicati sbagliati, e disonestamente definiti “violenti”.

C’è un’altra sinistra particolarità dei transattivisti:

A differenza dei movimenti per i diritti delle donne, i diritti degli omosessuali e i diritti civili dei neri, il movimento trans cerca di ridefinire il significato della biologia e delle parole – come “femmina” e “omosessuale” – che altri gruppi usano per descrivere se stessi. Elimina le ragazze e le donne da posizioni che altrimenti avrebbero ricoperto (ad esempio nello sport le donne perdono contro le donne trans)[23].

L’esempio più eclatante è quello della trans Rachel McKinnon che negli ultimi due anni ha vinto il campionato mondiale di ciclismo femminile UCI Masters Track Cycling, stabilendo anche un record mondiale.
Dal 2014 il college femminile Mount Holyoke accetta l’iscrizione di “donne transgender”, cioè uomini dal punto di vista fisiologico e con apparato genitale intero, che però dichiarano di sentirsi donne. L’anno successivo, un gruppo teatrale studentesco ha cancellato dalla sua programmazione I monologhi della Vagina, l’opera di denuncia di Eve Ensler, perché la rappresentazione “non è inclusiva” nei confronti delle donne trans, offrendo “una prospettiva molto angusta su quello che significa essere donna” dal momento che “il genere è un’esperienza vasta e variata, non può essere ridotto alle differenze biologiche o anatomiche”.
Il 2015 è stato anche l’ultimo anno del Michigan Womyn’s Music Festival, lacerato dalle proteste dei transattivisti per la mancata inclusione ufficiale delle trans. Nell’organizzazione del Camp Trans da cui partivano le azioni di protesta vi era Dana Rivers (David Warfield), ora sotto processo e detenuto in una prigione femminile a Oakland, praticamente colto in flagrante omicidio multiplo di una coppia di donne con il loro figlio, che ha picchiato, accoltellato, colpito con un’arma da fuoco, per poi bruciarne i resti e uscire dalla loro casa coperto di sangue. I media tacciono sul processo attualmente in corso per questo hate crime, non riconosciuto come tale[24].
A Vancouver i transattivisti hanno preso il controllo organizzativo della Marcia delle lesbiche del 2018 (Dyke March). Scrive Danielle Cormier:

è diventata un evento in cui alle lesbiche che si rifiutano di accettare gli uomini come partner sessuali viene detto che non sono le benvenute, etichettate come un gruppo d’odio e molestate e minacciate se in modo pacifico partecipano comunque. Tutto questo sotto la bandiera dell’inclusività. Bisogna chiedersi quanto sia “inclusivo” escludere le lesbiche dalla Dyke March. […] Non ci viene solo detto che stiamo opprimendo gli uomini rifiutandoci di considerarli come partner sessuali, ma non ci è più consentito stabilire i nostri confini o definirci come donne. Eppure gli uomini eterosessuali che affermano di essere donne sono autorizzati a definirsi “lesbiche”. Siamo persino state posizionate come “privilegiate” rispetto a questi uomini – uomini che, loro stessi, non possono cambiare il loro orientamento sessuale, ma si aspettano che cambiamo il nostro.
Queste sono lotte secolari. Il diritto delle donne di riunirsi, organizzarsi o vivere le loro vite quotidiane separate dagli uomini non è mai stato tollerato. Il diritto di dire “no” ai partner sessuali maschi ha sempre scatenato reazioni estreme da parte degli uomini. Oggi, la stessa vecchia imposizione di eterosessualità, misoginia, cultura dello stupro e disprezzo per i confini delle donne è stata rinominata come giustizia sociale. Dov’è la giustizia in questo? (Cormier 2018)[25].

In Italia nulla di comparabile, ma si muovono i primi passi. Un esempio del modo dogmatico e violento di impedire il dibattito da parte dei transattivisti è stata la reazione a un articolo di Panorama di indagine sui presunti “minori trans”[26]. Nel 2016 la foto della nuova segreteria alquanto butch di ArciLesbica, che cominciava un percorso femminista di allontanamento dalle richieste LGBT-queer, in particolare quella di legalizzare la compravendita della filiazione di neonati, è stata così commentata sui social network: “Sono tutte trans che non si accettano”. Una lesbica mascolina è già diventata inaccettabile nello stesso movimento, la sua unica scelta deve essere diventare un uomo. E questo già accade negli USA. Carol F. (2019) “è una donna (una femmina adulta) di 39 anni di una zona conservatrice della California. È cresciuta in un ambiente religioso. Dai 35 ai 38 anni, si è identificata come un maschio transgender e ha vissuto percepita come tale”, così la sua presentazione sul sito 4th Wave Now. È proprio con la transizione che Carol, lavorando nel campo della salute mentale, si rende conto di non poter essere altro che una donna, decidendo infine di tornare indietro:

Ho visto entrare in ospedale tante ragazze giovani non conformi rispetto al genere, ragazze che affermavano di essere uomini trans. Volevano essere chiamate con pronomi e nomi maschili. Avevano 13, 15, 17 anni. Mi sembravano tutte piccole lesbiche butch [mascoline], e provavo vergogna e tristezza, perché in loro vedevo me stessa. Vedevo il dolore e la paura, e gli abusi che alcune avevano subito. Vedevo i problemi di salute mentale contro cui lottavano e come questi problemi facessero loro desiderare la fuga. Si facevano del male, cercavano di porre fine alla loro vita, e soffrivano profondamente. Volevo essere loro vicina, per dire loro che è ok essere una donna lesbica. Volevo mostrare loro una donna butch forte, senza troppi problemi. Ma come potevo, quando quello che vedevano guardandomi era un uomo barbuto? Come potevo dire a loro quello che non riuscivo a dire a me stessa?
È stato in questa struttura che ho anche iniziato a lavorare a stretto contatto con gli uomini, cosa che non avevo mai veramente fatto in vita mia. Avevo evitato in ogni modo di stare vicino agli uomini anche se non me ne rendevo conto, era sempreinconsciamente. Essere considerata “uno dei ragazzi” e dover ricoprire quel ruolo per quel che potevo mi lasciava un senso di profonda tristezza e un desiderio di stare di nuovo con le donne. Sapevo che non era il mio posto. Non avevo avuto un’infanzia da maschio né ero stata socializzata come maschio. Mi gettavano addosso abusi e discriminazioni solo perché ero nata femmina, una cosa che loro non avrebbero mai potuto capire. […]
Oltre all’ansia e alla depressione di cui soffrivo, la transizione aveva finito per peggiorare anche la mia disforia. Perché? Perché ora mi preoccupavo che gli uomini scoprissero che ero senza un pene quando usavo il loro bagno. Perché ero più piccola della maggior parte dei maschi. Perché la mia voce non era così profonda. Perché le mie mani e i miei piedi erano più piccoli. Perché la mia forma corporea era più femminile che maschile. Perché il modo in cui parlavo e gesticolavo risultava femminile. Perché il mio petto aveva delle cicatrici. Perché parlavo dolcemente e non ero aggressiva. Perché sono cresciuta come ragazza e non ho mai fatto parte del giro dei maschi, quindi non sapevo come interagire nella cultura maschile. Perché ogni giorno uscivo di casa atterrita dalla possibilità di venire scoperta per cos’ero e chi ero veramente: una donna. Una nuova serie di problemi aveva preso il posto dei vecchi.

Carol parla di un periodo di ”luna di miele” nella transizione, un periodo che dura da sei mesi a tre anni in cui ci si sente meglio. Attribuisce questo benessere al testosterone, di cui dice francamente che è stato la sua droga, essendo una sostanza psicoattiva come tante altre, che usava per lenire il dolore emotivo. Le dava più energia, era meno depressa e il suo umore era più stabile – effetti testimoniati anche dai maschi che lo prendono.

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Conclusione

Ci sono dunque tre significati correnti di “genere”: il primo sono i due ruoli gerarchici maschile e femminile tutt’ora contestati dalle femministe radicali, mentre gli altri due significati sovrappongono genere a sesso: il linguaggio ufficiale della “parità di genere”, che pare essere una goffa sostituzione solo linguistica e non sostanziale, e infine la sostituzione vera e propria di “sesso” con “genere”, che porta alla coincidenza tra “genere” ed “espressione di genere” e alla molteplicità dei generi così come dei sessi. In che direzione andrà il linguaggio ufficiale, nella tensione politica tra gli altri due significati? Vincerà il transattivismo con la sua protezione dell’“identità di genere” autodefinita stravolgendo i diritti delle donne, o vincerà il buon senso?
In Italia dovremmo essere protetti dalla “riserva di scienza” menzionata dalla Corte Costituzionale in alcune sentenze per stabilire che la legge non può andarvi contro.
Il collasso tra sesso e genere è una vecchia idea patriarcale, che ora risorge con un linguaggio nuovo, che non vuole più parlare di sesso, ma usa “genere” come suo sinonimo, ottenendo gli stessi effetti oppressivi dell’antica naturalizzazione come “sesso” dei ruoli assegnati socialmente. Alla domanda di Simone de Beauvoir “Che cos’è una donna?” si può dare un’altra risposta che non la lista delle prescrizioni sociali cui una femmina adulta deve adempiere per essere considerata una donna. Si può agire senza rispettare le norme ingiuste, e chiamarsi con orgoglio ugualmente donna.
Utilizzare il concetto di “genere” al posto di “sesso” è diventato controproducente per tutti coloro che credono nell’uguaglianza tra uomini e donne e nel pari valore sociale dei due sessi, pur rispettandone la differenza. E vi sono modi non sessisti di prendere atto delle differenze tra i sessi scientificamente accertate, ad esempio i lavori di Leonard Sax sulla pedagogia.
Le attuali battaglie LGBT-queer sono anch’esse controproducenti per raggiungere il rispetto delle relazioni sentimentali e sessuali tra persone dello stesso sesso. Sono le posizioni transattiviste a far perdere consenso al movimento negli Usa (Suleman 2019)[27], e si tratta semplicemente di reazioni di buon senso davanti allo stravolgimento del linguaggio e della realtà.
E già la rivoluzione mangia i suoi figli: nel 2015 lo psicologo Kenneth Zucker, tra i proponenti più in vista delle transizioni precoci fin dagli anni ‘80 è stato licenziato e il centro che dirigeva a Toronto (Child Youth and Family Gender Identity Clinic) è stato chiuso[28]. Il centro proponeva ai minori che dichiaravano un’identità di genere non conforme al loro sesso innanzitutto terapie che cercassero di farli stare bene nel proprio corpo invece di indirizzarli immediatamente verso la transizione. Ora Zucker è stato reintegrato e la sua attività terapeutica legittimata[29]. La marea sembra invertirsi: la clinica Tavistock di Londra (Tavistock and Portman NHS Trust) è accusata di pratiche omofobiche, dal momento che i minori a cui pratica la transizione sono ritenuti, persino da uno degli amministratori della clinica, prevalentemente destinati a diventare omosessuali.

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Note

1 Un esempio migliore dell’uso della parola lo traggo da Noi e il nostro corpo (Boston Women’s Health Collective 2011): “Il sesso a cui diciamo di sì e a cui partecipiamo attivamente può essere piacere puro, che ci permette di esprimere desiderio, giocosità, intimità, vulnerabilità e potere”. Sul lato negativo i rischi di gravidanze non volute e di malattie sessualmente trasmissibili.
2 “Clitòride s. f. o m. [dal gr. (ἡ) κλειτορίς -ίδος; l’uso come masch. è dovuto a influenza del fr. le clitoris]. – In anatomia, organo erettile femminile impari e mediano, omologo al pene virile, però rudimentale, situato nell’angolo anteriore della vulva” (Vocabolario Treccani on line).
3 Sul dimorfismo sessuale della specie umana vedi Figura e Spedini 1998.
4 Ad esempio i fautori della surrogazione di maternità pretendono di non chiamare più “madre” una donna che ha partorito (Danna 2017).
5 Il che significa che le associazioni scoperte non valgono per tutte le società.
6 Introduzione a Bodies that matter (Butler 1993, 531-2).
7 Vedi anche Dall’Orto 2018.
8 È ovvio che il sesso è assegnato alla nascita solo agli intersessuati, mentre per tutti gli altri l’affermazione non ha senso.
9 Conferenza Critically examining the doctrine of gender identity, 20 marzo 2016, https://www.youtube.com/watch?v=QPVNxYkawao.
10 La sessuologia ottocentesca ha solitamente concettualizzato in questo modo l’omosessualità.
11 “Ma la diagnosi non mette in discussione le norme di genere, la loro fissità e inflessibilità, non si chiede se esse generino angoscia, disagio, se ostacolino la capacità di agire o siano per alcuni, per molti, una fonte di sofferenza” nota la stessa Butler (2014, 157-8).
12 L’ho fatto in altri scritti. Il modello è dichiarato “convalidato” da un unico articolo (de Vries et al. 2014) nonostante la morte postoperatoria di un giovane MtF, i tassi inaccettabilmente alti di non risposta, l’esclusione arbitraria dei soggetti che avevano avuto l’operazione finale da meno di un anno, il cattivo stato di salute di altri soggetti a 18 anni che ha reso impossibile che venissero operati “concludendo” il modello.
13 Vedi ad esempio questo documentario sui minori trans (le intervistate sono quasi tutte femmine) The trans train (2019):
https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=Epkp8pTO6l0, e le desisters sul sito https://www.piqueresproject.com.
14 Sugli effetti deleteri per la salute del testosterone vedi https://transbrainfx.com/.
15 https://www.mentalhealthjournal.org/articles/gender-incongruence-is-no-longer-a-mental-disorder.html,
16 Il sesso è assegnato solo agli intersessuati – in tutti gli altri è riconosciuto.
17 Vedi note 10 e 17.
18 Se ne parla ai congressi USPATH, branca statunitense di WPATH: “No menses, no mustache: Gender doctor touts nonbinary hormones & surgery for self-sacrificing youth”, 4 agosto 2017 in https://4thwavenow.com/2017/08/04/no-menses-no-mustache-gender-doctor-touts-nonbinary-hormones-surgery-for-self-sacrificing-youth/.
19 https://www.wpath.org/media/cms/Documents/SOC%20v7/SOC%20V7_Italian.pdf, p. 92. Susan Styrker (2008, 13) definisce così: “Identità di genere. Ognuno ha un senso soggettivo di star bene in una particolare categoria del genere; è questa l’identità di genere di quella persona”. Anche qui la sofferenza è sparita, si tratta di una mera scelta.
20 Forced2BFTMmom https://4thwavenow.com/about/comment-page-9/#comment-30781, 9.1.2019.
21 https://pediatrics.aappublications.org/content/142/4/e20182162. Vedi note 8 e 16.
22 Conferenza Critically examining the doctrine of gender identity, 20 marzo 2016, https://www.youtube.com/watch?v=QPVNxYkawao.
23 https://www.feministcurrent.com/2018/05/01/trans-activism-become-centered-justifying-violence-women-time-allies-speak/.
24 https://www.gendertrending.com/2019/08/13/media-blackout-on-dana-rivers-michfest-murder-trial/. Tra i commenti: “Se qualcuno avesse massacrato tre donne trans una dopo l’altra, sparandole e pugnalandole ripetutamente in casa loro non smetterebbero mai di parlarne. Ogni organizzazione LGBTQIA negli Stati Uniti sarebbe sul piede di guerra e i democratici griderebbero fino al cielo: ‘Crimine d’odio!’”.
25 https://hi-in.facebook.com/gendercriticalfem/posts/2122706251356140. Traduzione del gruppo Il mulino che vorrei.
26 Vedi la questione su http://www.danieladanna.it/wordpress/sui-minori-trans/.
27 Vedi anche, dalla Norvegia, Tonje Gjevjon: “Pride is no longer about fighting discrimination; it’s no wonder people are choosing not to raise the flag. Pride has become one of the most intolerant political movements of our time, yet everyone is expected to get on board”. https://www.feministcurrent.com/2019/08/03/pride-is-no-longer-about-fighting-discrimination-its-no-wonder-people-are-choosing-not-to-raise-the-flag/ 3.8.2019. Anche in Norvegia il movimento LGBT-queer richiede la compravendita della filiazione di neonati e la legalizzazione come lavoro del subire atti sessuali per bisogno di denaro (chiamato sex work).
28 Sempre in Canada una campagna transattivista pretendeva il licenziamento dall’Università di Toronto di Ray Blanchard, colpevole di aver descritto l’autoginefilia.
29 Anche se i transattivisti lo hanno cacciato da una conferenza della branca statunitense di WPATH: https://thefederalist.com/2017/02/27/threatening-violence-trans-activists-expel-un-pc-research-medical-conference/.

 

Testi citati

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